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FIRENZE - “Ogni corpo immerso in un fluido subisce una forza diretta dal basso verso l'alto di intensità equiparabile alla forza-peso del fluido spostato”. Semplicisticamente, una sorta di azione e reazione. Siamo, inevitabilmente, in una piscina, anzi negli spogliatoi tra armadietti e la scena, didascalica ma efficace, di Federico Biancalani (il pubblico è posto sul palco del Teatro di Rifredi), che ci ricorda proprio le corsie di una vasca olimpionica con i galleggianti a dividere il percorso dei nuotatori. E subito la mente vola al videoclip anni '80 “Smalltown boy” dei Bronski Beat: acqua, spogliatoi, violenza, nudi, prurigine, voyeur. Già perché nel testo acuto e brutalmente psicologico del catalano Josep Maria Mirò si parla di acqua come liquido amniotico, ovvero come affetto e dolcezza e salvezza e protezione degli adulti verso i più piccoli, si parla di acqua come galleggiamento di fronte alle accuse infamanti, si parla di acqua in termini di annegamento dentro la shit storm, si parla di acqua come boccheggiamento tra le insidie di chi vuol vedere il male ad ogni costo, si parla di acqua come paura dell'ignoto, del cadere, del non riuscire a riemergere, soffocare in mezzo ad imputazioni dalle quali è difficile difendersi.ade998328c27804c8008624736894cb9_L.jpg

Ci sono due istruttori giovani (i gagliardi e muscolari Giulio Maria Corso e Samuele Picchi, fisico da gladiatori guerreggianti ben affiatati, affilati e allineati, credibili in tutto l'excursus drammaturgico, tranne che nello scontro fisico risultato ben poco realistico e alquanto posticcio) che sono caratterialmente agli antipodi: uno, il nostro antieroe Corso (sguardo pungente da Lucignolo provocatore e bella tenuta su quella linea sottile tesa tra l'abisso e l'arroganza), spigliato, contro le regole, scavezzacollo, l'altro (Picchi ha fatto un salto di qualità rispetto a “Tebas Land”) è più saggio, posato, con la testa sulle spalle. C'è la responsabile della struttura, Monica Bauco storica attrice con molta esperienza, qui spinge troppo sul melò, che diventa ago della bilancia tra il mondo interno che si sviluppa tra bambini e acquaticità, e quello esterno che vede, controlla, giudica gesti dal cemento delle tribune e affibbia significati a movimenti e tenerezze travisando in malafede la realtà.

C'è ne “Il principio di Archimede” (regia e traduzione di Angelo Savelli; la prima italiana nel 2018) la grande paura del nostro tempo, ovvero quella di perdere la reputazione e, grazie e per colpa dei social network e degli smartphone sempre a portata di mano e di clic e di video, che ci vogliono trasformare in giustizieri della notte, in citizen journalist, in persone in grado, senza conoscenza delle leggi e ignare delle conseguenze, di mettere online contenuti estrapolati, momenti che diventano assoluti strappati a contesti dove sarebbero stati relativizzati. Questa mania, che si fa smania, di diventare giudici della vita degli altri, di essere tutti moralizzatori delle vite degli altri, questo poter monitorare, con la spada di Damocle appunto del telefonino (ma bastano anche le voci di corridoio e le chiacchiere che in un attimo attraverso le chat di whatsapp diventano “virali”, come piace tanto dire), questo aver sempre tutto sotto controllo, questa censura preventiva, questo sorveglianza sociale reciproca, il gusto per il fake che diventa trash e gossip, questo decontestualizzare, e quindi questo rendere freddo ogni rapporto, dinamica e relazione inevitabilmente ha distrutto la spontaneità, l'allegria dell'improvvisazione facendoci sempre chiedere, prima di muoverci, se un gesto o un atteggiamento potrà essere compreso nella sua sincera e reale forma o se potrebbe essere scambiato e frainteso e giudicato “inopportuno” (altra parola che va molto di moda). Abbiamo paura e nella paura legiferiamo e vogliamo che tutto sia spiegato e chiaro, ma il mondo Il-Principio-di-Archimede.jpgci sfugge continuamente di mano e invece vogliamo ingabbiarlo, metterlo in categorie ferree uscito dalle quali sei in fallo, senza possibilità di redenzione, passibile di gogna mediatica.

Un bambino piccolo, avendo paura dell'acqua, era stato abbracciato e baciato (l'insegnante dice su una guancia, una bambina che ha visto la scena dice sulle labbra) dall'istruttore. Comincia un processo illecito alle intenzioni fatto di accuse (essere un pervertito, un molestatore) dalle quali non è possibile difendersi, i genitori montano rabbia e schiumano vendetta (Riccardo Naldini, altra colonna attoriale di Rifredi, non è così incisivo nel lasciarci nella sospensione, nel dubbio su da che parte stia la ragione), l'istruttore infangato e additato, prima di essere principio-di-archimede-fotopinolepera-2.jpgomosessuale poi pedofilo (anche se differente per età e vicende può far nascere un parallelismo con “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese), non sa a cosa appigliarsi per tentare una difesa (tutto sembra assurdo e grottesco) e più cerca di spiegare più si infila in un ginepraio di spine alimentando il sospetto, aumentando la sfiducia attorno a sé. Un gesto che poteva essere di sostegno e supporto ad un piccolo nuotatore tremolante (l'interpretazione e la regia però ci fugano ogni possibile punto interrogativo ed equivocità annullando le ambiguità sulle quali il testo si fonda e donandoci la verità dell'assoluzione e dell'innocenza dell'incriminato che non viene mai messa realmente in dubbio) diventa la ghigliottina, il casus belli, il nodo del contendere, il crack che fa scivolare la vicenda nella tragedia, che fa ribollire gli animi mettendo da parte la logica razionale e pensando soltanto a farsi giustizia da soli.

Molto interessante la scelta del riavvolgimento del nastro, con il classico rumore del rewind delle cassette musicali, per ritornare alla scena precedente, tornare ad un prestabilito momento e da lì ripartire argomentandola, aumentandola, perfezionandola. Escamotage, usato più volte all'interno della pièce, ma che risulta sempre funzionale, fruttuoso, puntuale, una scansione che fa rielaborare gli eventi, riassestare i fatti, riallineare le prospettive. Il politicamente corretto ci distruggerà perché disumanizza e imbriglia, raffredda i rapporti, toglie la vita, il calore. Un testo attualissimo, necessario, indispensabile.

Tommaso Chimenti 04/04/2022

Foto: Pino Le Pera

MILANO – Quello che abbiamo visto assistendo alla novità “Bed Boy Jack” (prod. Filodrammatici, Stabile Veneto, Next '20) scritto e diretto da Bruno Fornasari si potrebbe racchiudere nell'epitaffio di Schopenauer “Il mondo come volontà o rappresentazione” ovvero il reale là fuori è la mia rappresentazione e tutte le rappresentazioni sono oggetti del soggetto e tutti gli oggetti sono rappresentazioni quindi il mondo è copia e non realtà vera. Perché è di questo che si discute e discerne sullo sfondo della vicenda, di cronaca vera, di Jack Unterweger serial killer di prostitute austriaco,Jack Laila Pozzo-6.jpg che uccideva le proprie vittime formando un cappio attorno al collo con il loro reggiseno. Figura particolare, tra gli anni '70 e '90, putto mefistofelico che riassume tratti positivi e malesseri psicologici profondi, bollato come assassino poi in carcere elevato a santo ed eroe, capro espiatorio della società, reietto che, attraverso la cultura, aveva saputo redimersi, ripulirsi, farsi perdonare e restaurare una reputazione che sembrava compromessa e reinventarsi una verginità davanti al mondo, preso ad esempio anzi, innalzato come uomo di spicco capace di cambiare strada e direzione, di migliorarsi grazie ai libri, alle letture e alla scrittura e per questo messo sul piedistallo come fulgida e positiva dimostrazione filosofica, etica ed esistenziale che il sistema carcerario poteva, se non repressivo ma accogliente e tollerante, essere una molla per riformare la comunità.

Attorno a Jack ruotavano personaggi particolari e molto influenti come Gunter Grass e Elfriede Jelinek (non a caso due futuri Premi Nobel per la Letteratura) per avvalorare le tesi di una certa sinistra progressista. Il tagliente dramma messo in piedi da Fornasari (autore troppo trascurato in Italia; stavolta nessuna nota di ironia caustica a differenza dei suoi testi precedenti dove miscelava argomentazioni profonde e un grande sarcasmo provocante) scivola nell'abisso di un equilibrio precario tra i ricordi della realtà, viziata, offuscata, collusa, camuffata, distorta, e la sua, appunto, rappresentazione come se, e il set sul palco sta lì ad indicarcelo, fossimo proprio davanti, dentro una location da fiction (compreso un tappeto di foglie secche; le scene iconiche di Erika Carretta), da serie tv con i piani a sovrapporsi in dissolvenza: i quattro fari laterali come il nastroJack© Laila Pozzo-3.jpg giallo della polizia che indica una zona interdetta perché in quel perimetro si è consumato un delitto. Si è dentro i fatti ma si assiste alla vicenda anche in una sorta di ulteriore allontanamento, un passo indietro, come se i personaggi, ovviamente già ruoli attoriali, impersonassero se stessi nel momento di rimettere in scena dettagli e attimi accaduti in una sequenza che adesso devono essere riallocati, ridisegnati, riaggiustati per meglio comprendere tutto il processo, il progressivo svolgersi del tempo, il riannodare le bobine e il dispiegarle sul tappeto di una logica che rimane sospesa, alla fine comunque senza una soluzione certa, nel limbo creato ad hoc dalla regia (che scandaglia e fiuta le paludi del non detto, dell'interruzione dell'evidenza, di quel Purgatorio dove l'innocenza come la colpevolezza sono entrambi estremi eccessivi) che mischia i piani sequenza temporali, mixa tempistiche, mostra apparizioni e fantasmi, connette il mondo dei vivi con quello dei defunti, fa parlare gli animali.

Personaggio contorto e complicato, e per questo affascinante, che Tommaso Amadio ha incarnato in una bellezza ora disarmata adesso velenosa, in comportamenti melliflui e accondiscendenti a cercare conferme e carezze come in iraconde fuoriuscite di lava, ora oratore capace di dialettica ed eloquenza adesso bruto feroce delinquente manipolatore, con i capelli impomatati ricordandoci Hitler, anche lui (e forse non è un caso) austriaco. Come in “American History X” ha il corpo tatuato, come il Fuhrer ha un cane e proprio un pastore tedesco e proprio una femmina, uscito dal carcere si mise a scrivere libri come il brigatista Cesare Battisti libero e trionfante in Francia protetto dalla dottrina Mitterand, dopo aver ucciso e scontato la sua pena una volta in libertà ha commesso lo stesso reato come Angelo Izzo Jack© Laila Pozzo-5.jpgdel massacro del Circeo. Il Male in tutte le sue forme ripercorre strade già viste e segnate, solca la via del non ritorno, si perde nelle nebbie, cade si rialza e inganna. Attorno a Jack-Amadio (istrionico e fascinoso come Di Caprio in “The wolf of Wall street” e psichedelico e allucinato come Christian Bale in “American Psycho”) ruotano in questo variopinto Luna Park tra mass media e sangue, un ispettore, lo stesso Grass, un pappone (Emanuele Arrigazzi sul bordo di un perenne baratro oscuro con i chiaroscuri guasti e corrotti dei suoi personaggi tanto amorevoli quanto limite), una prostituta, la moglie di Grass, la Jelinek (Sara Bertelà che colora di nuance tenere e tenaci le sue battute, calibrata), la giovane fidanzata minorenne e il cane, che ci ha ricordato quello di “The Summer of Sam” di Spike Lee (Chiara Serangeli leggera, assorta, effervescente come spuma).

Perché il punto focale (meglio, in questo caso, nodale visto che le vittime furono uccise con un nodo scorsoio) è tutto giocato tra la realtà dei fatti, che in definitiva non si è mai appurata oltre ogni ragionevole dubbio ma solo supportata da un processo indiziario, e quello che Jack ha fatto credere agli amici intellettuali, ai giornali, alle tv che lo intervistavano incessantemente, ai tabloid che pubblicavano i suoi articoli, alle donne che lo amavano per il fascino perverso del malvagio, alle prostitute che, pur riconoscendolo, stavano al gioco credendolo cambiato, redento, tornato puro. Un inganno continuo per cercare di apparire in una forma celestiale (il suo completo intonso e candido) per celare il nero interiore e la voglia di morte e vendetta che covava dentro. Fuori un uomo nuovo da portare sul piedistallo e dentro l'uomo antico narcisista patologico che aveva bisogno di nuovo sangue, forse, ogni volta, per tentare di uccidere metaforicamente quella madre prostituta che lo aveva abbandonato, che non sapeva fermarsi davanti alle sue malate perversioni e pulsioni omicide e sadiche. Due i refrain musicali che si intervallano e ritornano come cantilena che ricongiunge e riannoda i fili, creando una ragnatela che tutto cuce e cesella: “Der Kommissar” di Falco, non a caso anche lui austriaco, e “Sono come tu mi vuoi” di Mina ad indicare la sua propensione camaleontica a modellarsi sui bisogni e desideri dell'astante per coglierne fiducia e disvelare i suoi punti deboli.

E' fragileJack© Laila Pozzo-8.jpg, piange, fa la vittima, si professa non colpevole a gran voce, la piazza e la pancia del Paese si divide tra giustizialisti e innocentisti, non ha alibi ma non ci sono prove marmoree, è simpatico, lusinga i suoi interlocutori, è un Grande Burattinaio che tira i fili delle sue marionette. Un Angelo demoniaco o un diavolo paradisiaco che è riuscito a toccare le pieghe e le piaghe del nostro mondo contemporaneo Jack© Laila Pozzo-14.jpgche si fa volentieri abbagliare dalla forma, sceglie consapevolmente di farsi ingannare perché è più charmant, è più divertente, perché siamo pigri e spesso è molto più semplice prendere per buona la confezione ammaliante che analizzare, con la fatica del dubbio e dell'intelletto, il suo contenuto. Il binomio Amadio/Fornasari, ancora una volta, riesce a far riflettere, riesce a non far finire lo spettacolo con la fine della piece, ci fa portare “i compiti a casa”, ci scuote, ci mette in imbarazzo, ci costringe nell'esercizio di osservare il male fuori per scorgerlo dentro di noi, non ci lascia dormire sonni tranquilli: il loro non è certamente un teatro borghese consolatorio né inutilmente e pretestuosamente provocatorio. Nei testi di Bruno Fornasari c'è carne per andare a fondo, c'è materia e magma, c'è fuoco vivo e mercurio guizzante, c'è intelligenza, da sempre vaccino contro le soluzioni facili e a buon mercato.

Tommaso Chimenti 31/03/2022

Foto: Laila Pozzo

PARMA – Stiamo aspettando che la meteora ci arrivi sulla testa. E staremo lì a filmarla per poi postarla. Siamo quegli uomini e donne della pellicola “Don't look up” che guardano al cielo, avendo avuto in precedenza tutto il tempo per prendere delle decisioni sensate e che invece si sono interrogati, divisi, lacerati, litigando furiosamente in fazioni ideologiche per, infine, non arrivare a nessuna soluzione, disuniti (e anche qui potremmo proporre una citdownload (1).jpgazione sorrentiniana dell'ultimo “E' stata la mano di Dio”), disarticolati, scaramantici, primitivi, riducendosi a pregare quando ormai non c'è più niente da fare invece che fare qualcosa quando ancora il tempo glielo consentiva. E' riduttivo definire “Saluti dalla Terra” (a cura del Teatro dell'Orsa di Reggio Emilia, visto a Europa Teatri a Parma) un testo ambientalista o ecologista: è uno spettacolo d'amore, per noi stessi, per il pianeta dove viviamo, che ci accoglie, che ci sfama, amore per il prossimo che verrà che troverà macerie e distruzione, un clima impazzito di tornado e caldo atroce, specie animali estinte e fotografie sbiadite di un mondo che è stato e che, come miraggio, non sarà più. Si saluta quando si arriva e lo si fa quando ce ne stiamo andando, nel caso tra l'uomo e la Terra siamo, purtroppo, nella seconda ipotesi. Venticinque quadri come fossero una lunga lettera dispiaciuta, un chiedere perdono per i danni che abbiamo arrecato, per la morte che abbiamo portato, per l'arroganza, la presunzione e l'ignoranza delle quali siamo stati capaci avendo avuto il desiderio di manipolare tutti gli esseri viventi ai nostri voleri, vendendo la nostra salute (stessa radice di “saluti”) per il soldo, l'economia, questa tanto celeberrima e chiacchierata crescita.

Aveva ragione Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra - foto di Gaetano Nenna (1).jpgToro seduto quando diceva “Quando avranno inquinato l'ultimo fiume, abbattuto l'ultimo albero, preso l'ultimo bisonte, pescato l'ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro”. Il nostro è un momento storico che dovrebbe essere fatto di consapevolezza e di scelte epocali invece stiamo solo attendendo, perché pigri, la fine che inesorabilmente sta arrivando, si sta avvicinando a passi da gigante. Ma, ignavi e fintamente ignari, facciamo finta di niente, andiamo avanti fin quando l'aria sarà irrespirabile, il mare totalmente di plastica, la pioggia chimica, la terra piena di scorie nucleari, solo allora, forse, ci metteremo le mani nei capelli incolpando, ovviamente, le generazioni e i governi precedenti, bestemmiando Dio o pregandolo a seconda dei casi, attaccando la sfortuna, accusando il karma, invocando il destino. Stiamo aspettando un intervento esterno (“Extraterrestre portami via” cantava Eugenio Finardi), ma nessuno verrà a salvarci: “Se hai bisogno di una mano, guarda in fondo al tuo braccio”, diceva Confucio. Dobbiamo prenderci le responsabilità quotidiane delle nostre azioni, del nostro vivere, del nostro stare su questa terra che “non abbiamo ereditato dai nostri padri ma lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli”. Siamo molto più bravi a lamentarci e ad indignarci con un post sui social o un pollice contro verso qualche istanza o raccolta firme per poi, nella vita reale, continuare con il nostro stile di vita che, evidentemente, crea disuguaglianze sociali e deforestamento, squilibri, povertà, miseria, guerre. Nessuno vuole rinunciare ai Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (2).jpgsuoi diritti acquisiti, al suo piccolo lusso ferocemente conquistato, nessuno vuole fare un passo indietro e siamo disposti a crepare tutti insieme invece di cercare di cedere qualcosa all'altro: “Less is more”.

Ancora non abbiamo capito che siamo tutti, tutti i popoli, tutte le nazioni, una cosa sola e, come diceva Jim Morrison “da qui nessuno uscirà vivo”. L'egoismo è la miglior qualità e pregio dell'uomo. Non ci sarà la classica “fine del mondo” ma il globo sta già lentamente morendo e perdendo i suoi pezzi, la sua biodiversità, le foreste che scompaiono, gli animali che si estinguono, i cambiamenti climatici estremi ma non siamo disposti ad intervenire sulle nostre piccole esistenze, aspettiamo leggi e decreti per poi lamentarci che lo Stato è “fascista” e limita le nostre libertà di inquinamento. Quando ci sarà la fine del mondo preferiremo guardarla su uno schermo, in streaming, in diretta con la cena portata da un deliveroo perché non ci vorremo certo perdere lo show. Perché ormai tutto è diventato uno spettacolo da mostrare e se non c'è un “video virale” allora non esiste e se ci preoccupiamo sarà soltanto in mezzo ad un like per un gattino, un apprezzamento per il panda, un cane abbandonato, un bambino con la faccia buffa, qualche guerra sparsa qua e là. Tutto sullo stesso piano.

Il Teatro Teatro dell'Orsa, Saluti dalla Terra (7).jpgdell'Orsa (in scena i compatti e affiatati Monica Morini, Bernardino Bonzani, Lucia Donadio, Elia Bonzani) fa un teatro civile comprensibile e aperto a tutte le generazioni (questa la loro forza: essere intimi e vicini), il loro modo di stare in scena è un abbraccio, è un prenderti per mano senza darti soluzioni o indicarti con il dito come peccatore. Non giudicano ma ci dicono “Siamo insieme, siamo sulla stessa barca”. Ecco infatti la metafora, che ci accoglie e ci saluta alla fine (amaramente), dell'Arca di Noè, perché l'idea più semplice che l'uomo vorrebbe applicare sarebbe quella di, dopo aver lordato tutto un pianeta, abbandonarlo a se stesso, invece che tentare di ripulirlo proprio perché lo deve abitare. Il musicista (Gaetano Nenna, musiche originali composte insieme ad Antonella Talamonti) ha il casco da apicoltore e sulla scena si alternano ruoli tristemente ironici (si ride molto ma subito dopo averlo fatto ci sentiamo in colpa di aver sorriso delle nostre quotidiane stupidità). Il refrain di fondo è che dobbiamo salvarci da noi stessi, dalla nostra ingordigia, dalla nostra fame di conquista, dalla nostra volontà di sottomettere le altre specie, gli altri esseri umani. Il dolore causato ad altri esseri viventi non porta mai gioia e ormai dovremmo averlo capito che la politica e l'economia globale sono fortemente connesse con l'ambiente. Il miglior dissenso però che le nostre menti illuminate e progressiste possono mettere in atto è allargare le braccia sconsolate e dire “E' molto difficile cambiare sistema di vita”, oppure perdersi dentro “Ormai” consunti e “purtroppo” sbiaditi.

Impossibile non parlare di Greta e della biosfera, e arrivano i due affaristi “brechtiani” imprenditori con la maschera con il nasone aquilino (che ricorda Zanni della Commedia dell'Arte) quelli che godono e soprattutto guadagnano con le catastrofi, e tanti animali in miniatura, e viene citato Chico Mendes, il sindacalista della Foresta Amazzonica ucciso dai latifondisti. Preferiamo parlarne e discuterne più che mettere in atto politiche, sociali, personali, quotidiane, per la salvaguardia del nostro pianeta anche perché, come dice uno slogal semplice ed efficace: “No Planet B”. Siamo come “la gatta sul tetto che scotta”, come quegli animali che, anche mentre la casa sta andando a fuoco, decidono di rimanere, preferendo morirci che scegliere altre soluzioni alternative, certamente più faticose e destabilizzanti, da attuare. Stiamo scegliendo di lasciarci morire perché non siamo minimamente disposti a rinunciare alle nostre comodità acquisite. Stiamo scegliendo di non scegliere e alla fine ci sarà presentato il conto della nostra stupidità.

Quelli dell'Orsa hanno carisma e padronanza della scena e dei linguaggi teatrali (dopotutto gli adulti sono soltanto bambini cresciuti) per far passare alti concetti e renderli malleabili, fruibili, Teatro-dellOrsa-Saluti-dalla-Terra-foto-di-Gaetano-Nenna-1280x720.jpgedibili, digeribili da una parte con dati scientifici a supporto, dall'altra con scene che folgorano come fulmini, affreschi che impattano, ci scuotono dal nostro torpore, ci smuovono, ci danno la scossa, ci schiaffeggiano, ci risvegliano. E quando ci raccontano che le montagne più alte, quelle dalle nevi che erano considerate perenni, si stanno sciogliendo, e le foreste bruciano e l'Artico sparisce e gli iceberg collassano e il livello del mare sta salendo allora non può far altro che prenderci la paura. Ma la consapevolezza non basta più. Un mappamondo illuminato ci fa vedere la bellezza della nostra Terra ma anche che l'abbiamo sempre trattata come un giocattolo. Il pianeta Terra senza l'uomo vivrebbe meglio, se noi sparissimo rifiorirebbe. Però preferiamo fare gli struzzi e dire “Andrà tutto bene, il problema non esiste” proseguendo per una strada che si fa sempre più piccola e spinosa e tortuosa e in salita, continuando a spingere sull'acceleratore sperando in un miracolo che, sappiamo già, non accadrà. La frase iconica che ci lascia storditi di “Saluti dalla Terra” è: “Se fai l'ambientalista senza fare la lotta al capitalismo fai solo giardinaggio”.

È la fine del mondo sopra la rovina sono una regina. Questa terra sparirà nel silenzio della crisi generale ti saluto con amore. Con le mani, con i piedi, e con la testa, con il petto, con il cuore, e con le gambe, con il culo, coi miei occhi. Questa è l'ora della fine, romperemo tutte le vetrine, tocca a noi, non lo senti, come un'onda arriverà, me lo sento esploderà, esploderà. La fine del mondo è una giostra perfetta, mi scoppia nel cuore la voglia di festa. La fine del mondo, che dolce disdetta mi vien da star male, mi scoppia la testa” (La Rappresentante di Lista, “Ciao, Ciao”).

Tommaso Chimenti 28/03/2022

Foto: Gaetano Nenna, Alessandro Scillitani

CERVIA – E' buio e fosco in questa sorta di scantinato che pian piano perde la sua connotazione reale finendo per diventare metafora del groviglio esistenziale e nero che alberga ed è cresciuto come tumore dentro le menti, i ricordi, i traumi, gli incubi dei tre personaggi sulla scena. Un classico triangolo dove ai due lati più lineari e banali, gli uomini, tradizionalisti e maschilisti manovali che si punzecchiano e sfottono e attaccano infantilmente, poco soddisfatti delle loro vite sempre uguali, si aggiunge improvvisamente il terzo, la donna (Margareth), che cambia i connotati, che toglie la polvere, che fa saltare tutti i piani, che rimescola il destino, elettrizza l'ambiente. L'elemento di rottura femminile fa da ago della bilancia in questo noir dove, fin dall'inizio, si sente che qualcosa si sta per incrinare, che la crepa sta per cedere, che le fondamenta di quel castello di carte faticosamente costruito, o meglio che ognuno a suo modo aveva tentato di rimuovere e nascondere tn_il-bacio-della-vedova-2_1000x0_1b8227d57b5388c88ea829ef451f701e.jpgper vergogna negli anfratti della psiche, sta per crollare miseramente come un colosso dai piedi di argilla. In una cittadina di provincia (nel testo di Israel Horovitz, l'America più rurale e ignorante e analfabeta e senza prospettive) due giovani uomini, si presuppone tentenni o giù di lì, si raccontano in modo goffo e sguaiato conquiste amorose colorite da dettagli e particolari camerateschi giocando adolescenzialmente con tabù sessuali, timidezze confuse con spacconerie, arroganze e impacci, prepotenze e imbarazzi.

Sono Archie e George, due superstiti, due che sono restati, due che non ce l'hanno fatta, che sono rimasti impigliati e invischiati e impantanati nelle morse calde di pseudo comfort zone del paesello che li ha risucchiati in un vortice dalle giornate tutte uguali. C'è una provincia che se non la lasci a poco a poco ti inghiotte come sabbie mobili, senza che tu te ne accorga, c'è una provincia che serve per farti nascere e dalla quale devi avere la forza per andartene, per salvarti, per essere felice, non senza fatica, in un altrove distante da lì. Ma come si dice “puoi togliere il ragazzo dal ghetto ma mai il ghetto dal ragazzo”, e le dinamiche con le quali sei cresciuto, le regole imparate per strada, quell'imprinting feroce e brutale di alcune 617c197af0cdf942870115.jpgperiferie, ecco quelle non te le puoi sradicare e scardinare di dosso, sono tatuaggi dolorosi non rimovibili. “Il bacio della vedova” (visto al Teatro Walter Chiari di Cervia, messo in scena con pulizia e ardore dalla regista Teresa Ludovico, produzione Teatro Kismet di Bari) ha in sé componenti psicologiche e investigative, esistenziali e sociologiche, antropologiche.

Si percepisce che quel cupo esterno rifletta le ombre spesse e solide che i tre nascondono dentro, nel loro animo più profondo. E' una resa dei conti da Far West, si sente il clima da ultima spiaggia, un incontro che sarà finale e fatale, una vicenda che cambierà i destini dei tre in campo, un momento topico che i tre sapevano che prima o poi sarebbe arrivato per tentare di riequilibrare il passato, per cercare di mettere una pezza ad errori grossolani e giganteschi come macigni che li hanno travolti, distrutti, azzerati. E c'è una metafora strisciante che li “abbassa” a bestie da zoo: Archie era soprannominato La Capra, George era invece Il Rospo, mentre Margy era La Coniglietta. In questa “fattoria degli Animali” orwelliana è una guerriglia di accuse, è una sfida continua di allusioni e pudori, confronti e violenze, un Guernica di attacchi e fuoco incrociato il tutto ammantato da un'inquietudine incancrenita dal tempo che, in questi casi, mai è galantuomo, anzi ingigantisce e cerca solo vendette. Sono schermaglie ammiccanti e gelosie diffuse: si scontrano due mondi, lei se n'è andata, ha studiato, si è sposata, ha fatto due figli, mentre gli altri due sono rimasti ragazzotti non cresciuti “che pensano male, parlano male e quindi vivono male”, per dirla con le parole di Nanni Moretti in “Palombella Rossa”.

Avevano sempre rifuggito questo Processo, questo faccia a faccia perché intimamente sapevano che sarebbe stato doloroso quanto necessario, che dopo non stn_il-bacio-della-vedova-3_1000x0_c7364403fca9969af894767c236f2007.jpgarebbe più stata la stessa cosa, che indelebilmente niente sarebbe stato come prima, che il mondo sarebbe cambiato ai loro occhi e che il mondo là fuori, quello che hanno fatto scorrere senza pensare più a quell'evento così catastrofico ma che allo stesso tempo li ha consumati e mangiati dall'interno, li avrebbe finalmente visti e condannati o forse perdonati come vittime e carnefici, come boia e agnelli sacrificali, come bestie da macellare. Un tavolo solo a dividerli come ad avvicinarli, un tavolo a separare le dinamiche da Risiko dove la giovane donna si sposta come pendolo facendo pendere la forza e la condanna verso il terzo di turno inchiodandolo in un gioco al massacro brutale e calibrato, perché molto più intelligente dei due più robusti balordi grezzi e dai ragionamenti meno fini, per far emergere finalmente i fatti, le confessioni, i pentimenti, le lacrime.

Dilettatn_il-bacio-della-vedova-6_1000x0_4670d711200ee76ff67d60c40d4db2c2.jpg Acquaviva (potrebbe fare tranquillamente la controfigura a Luisa Ranieri) tiene le redini del play con disinvoltura e caparbietà (è cresciuta molto con i lavori di Michele Sinisi), una capacità innata di fermezza e piglio, una presenza fisica che si fa notare e dirige in scena gli altri due attori che, come satelliti, sono illuminati dai suoi movimenti, dalle sue didascalie invisibili, dalle direzioni impercettibili di sguardi e accenti. Mario Cangiano e Michele Schiano Di Cola hanno phisique du role per interpretare la violenza strisciante barbara machista, si inseguono braccati dai propri errori del passato senza potervi mettere un freno né cancellarli e, non sapendo come affrontarli, diventano rabbiosi e arroganti e iracondi facendo emergere la vera natura dei loro personaggi duri, bassi e peterpaneschi. “Il bacio della vedova” ci chiede da che parte stiamo, ci induce a interrogarci quale sia il nostro concetto di giustizia, ci chiede responsabilmente di soppesare le attenuanti, di controllare i dettagli e misurare gli eventi, ci chiede di schierarci, di difendere gli offesi, di colpire gli aggressori, anche se alla fine non ci sarà nessun vincitore ma saranno tutti sconfitti dal Male che hanno fatto o che hanno subito: vite distrutte dalla provincia che anche se lasci ti segue come un'ombra per martellarti e non lasciarti in pace.

Tommaso Chimenti 26/03/2022

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

ROMA – Dei corpi bianchi sembrano grattare il cielo nero. Saltano come rospi, volano come libellule, zigzagano nell'aria come mosche. E' un lavoro di luce e di buio questo “Inferno” della compagnia No Gravity, di candido che si staglia nella pece, che riesce ad esaltarsi grazie a questo fosco ammantato luttuoso fondale. E' un incontro e un incrocio, una battaglia siderale nell'infinito, un ying e yang che si rincorrono e spariscono l'uno nell'altro. E bisogna perdersi dentro le pieghe di questo candore che sfarfalla sfidando le leggi della fisica, ora demoni, adesso fiammelle d'anime in pena, in fuga, attaccate a questa carta moschicida che li inchioda al soffitto, ad una sorta di volta celeste che comunque li inghiotte e ingloba, li tiene bloccati in una ideale bolla, come la neve dentro le palle di vetro da miscelare, come paguri dentro conchiglie. Fluttuano e nuotano nell'aria, si muovono tra suoni gutturali e archetipici, tra sinuosità di onde, flessuosi si librano come pulviscolo salgono e scendono impalpabili, senza peso.58c1de8627b2b2b2963d5025d8d72e6e_XL.jpg

Quella dei sei protagonisti in scena dei No Gravity, diretti dal regista Emiliano Pellisari, è una armoniosa e perfetta danza acrobatica (prima danzatrice Mariana P) che li avvicina a fenomeni mondiali come i Momix o il Cirque du Soleil. Ma c'è di più: non soltanto di forma vive la retina dell'occhio umano. Qui, nelle loro creazioni, c'è un particolare molto forte, fondamentale che tutto cambia e ribalta la visione, un semplice particolare che esalta e fa esplodere di senso le coreografie, i movimenti, i gesti dei sei, moltiplicandoli, anzi duplicandoli. Un escamotage elementare che diventa cardine esponenziale: un gigantesco specchio inclinato che guarda il palco e con il quale ha una continua relazione, un dialogo costante. I danzatori fanno le loro evoluzioni a terra che rimbalzano in questo specchio portandoci dentro un altro universo dove questi corpi mirabili saltano fluidi, zompano leggeri come il primo uomo sulla Luna. Sono angeli perdenti dai corpi caravaggeschi che hanno sconfitto le regole arton21377.jpgdi noi comuni mortali in questi quadri che, grazie ai cambi musicali che denotano e scandiscono i vari affreschi e le diverse scene che si susseguono, ci portano dentro un Inferno dantesco sensoriale, immaginifico, suggestivo, post-industriale, bellissimo e feroce al tempo stesso. Sono piccoli satanassi che con la loro luccicanza-shining di fuoco amplificano i respiri d'amplessi, sospesi come astronauti dentro navicelle, si sbattono come maree in cerca di un approdo, camminano nel vuoto alla ricerca non solo di un'estetica ma anche di una via di fuga da questo mondo-Sistema che li ingabbia, li chiude, li cinge, li imprigiona.

Tornando alla doppia visione divina-commedia-no-gravità.pngdi ciò che succede sul palcoscenico, l'occhio dello spettatore si può dividere, asimmetrico, su quello che agisce a terra oppure sulle forme ed evoluzioni create (ingannando la percezione di altezze e, appunto, di gravità) in questo spazio che vive dentro il sogno dello specchio in un parallelismo fatto di riverberi e riflessi che rimandano un doppio della realtà e al tempo stesso ne ribaltano il senso proprio perché scombussola le nostre certezze di uomini finiti. E poi c'è incanto e sorpresa, muscolarità ed eleganza, forza in una sinfonia contagiosa empatica: adesso sembrano lottatori e discoboli greci, ora le figure disegnate sui vasi etruschi, adesso sono scimmieschi o pinocchieschi o ancora spingendo a terra i gomiti come marines, ora sembrano aztechi durante un sacrificio sanguinario, adesso sono affreschi egizi di profilo ora trapezisti circensi che hanno vinto l'idrogeno così come hanno surclassato la caduta gracchiante, eclissandola, sublimandola.

Il loro Inferno-di-Emiliano-Pellisari-5.jpgstato naturale non è più materico ma è divenuto gassoso, evanescente, etereo destreggiandosi in un rito sciamanico propiziatorio sensuale e prodigioso e inquietante dove c'è dolore e sofferenza e impossibilità per queste anime, pesci che boccheggiano dentro la loro boccia, che brulicano il vuoto in questo aggrapparsi perenne per non scivolare nell'oblio, arrampicandosi, toccandosi, aggrovigliandosi, roteando, ruzzolando impantanati in questa dimensione di Terra di Mezzo, rannicchiandosi in agglomerati di carne tremula concentrata in cerca di un calore gracile e flebile. Bisogna lasciarsi andare, farselo scorrere addosso, lasciarsi trasportare e abbandonare, respirare e digerire, quest'“Inferno” che scalda, che “è un palazzo che brucia in città, che è una lama sottile, una scena al rallentatore, una bomba all'hotel, una finta sul ring, che è una fiamma che esplode nel cielo, che è un gelato al veleno”.

Tommaso Chimenti 19/03/2022

C'è il “ciao” che deriva dall'antico veneziano “schiavo”, c'è il “mandi” friulano e c'è il veneto “Sani” che in questi due anni di pandemia mondiale ha assunto tutt'altro significato. Il “Stay safe”, quel “restiamo sani”, parafrasando il “restiamo umani”, annesso all'“Andrà tutto bene”, ci è rimasto sottopelle, sotto traccia, come una minaccia, come una promessa non avverata, come una bugia, come una fake news alla quale tutti avevamo voluto fortemente credere. “Sani” è il nuovo spettacolo di Marco Paolini, tra teatro e canzone accompagnato dalla chitarra sempre ruvida, schietta e vera di Lorenzo Monguzzi. Sani perché in questi ventiquattro mesi non abbiamo parlato, letto, sentito, ascoltato altro se non che riguardasse la salute, soprattutto degli altri, ritenuti possibili contagianti e untori. L'altro come possibile fonte e portatore di morte. E allora, proprio in questi momenti ci vogliono le riflessioni (non le risposte) dei poeti, degli artisti per fotografare dove siamo, dove stiamo andando, la strada che abbiamo intrapreso.6319908_2026_img_6726.jpg

Ed è attraverso questo viaggio, come sempre personale e intimo ma che si apre ad abbracciare tutte le nostre vite, che Paolini crea dei nodi, dei blocchi da scucire, delle date simboliche che hanno rappresentato dei dossi, degli ostacoli, numeri cifrati che delineano un tempo, un momento, dopo il quale, necessariamente, si è diversi, cambiati, cresciuti. E non sono date che stanno sui libri di Storia, sono numeri piccoli, date passate sotto silenzio, irrilevanti per la maggior parte di noi, attimi. Alla maniera di Paolini, con la sua cantilena veneta che avvicina e culla, coccola e smozzica le finali dolcemente, con quel suo fare brutale e diretto senza addolcire la pillola, sembra che continui il percorso dialettico aperto con “Miserabili. Io e Margareth Thatcher” dove entravano in scena i macrosistemi politici ed economici e collidevano con le conseguenze nelle nostre misere esistenze. Sembra di stare ad ascoltare una grande lezione di microeconomia, un racconto per capire, toccare con mano le derive di numeri freddi, di spostamenti di capitali, delle fluttuazioni della Borsa, di alleanze o conflitti.

Ecco 115212661-2629d57f-e3b2-49d9-9033-4e566b6cd7b3.jpgil potere del teatro: rendere limpida la strada, non indicare quale è quella giusta ma aprire le possibilità per una lettura più franca, spazzando sovrastrutture e ideologie strumentalizzanti. Anche se la scenografia sembra un chiaro omaggio all'ultima tournée di concerti di Fabrizio De Andrè, con le impalcature realizzate con grandi carte, Monguzzi alla chitarra intonerà, grattugiandoli, Endrigo o Gaber ma mai il cantautore genovese. La lotta non è tra il Bene e il Male ma tra il Benessere e le possibilità per raggiungerlo, tra il Benessere e il Lavoro duro e sudato, tra il Benessere e la voglia di arrivarci senza per questo passare sopra i cadaveri o lucrare indiscriminatamente senza vergogna. Nel nostro mondo sembra sia complicato toccare il denaro senza sporcarsi le mani, anzi è giustificato e accettato ormai ed è considerato stupido o “sfigato” chi non ne approfitta anche in malafede.

Paolini ci apre sempre gli spazi sconfinati della memoria, piccoli momenti o aneddoti che finirebbero nel dimenticatoio ma che, in bocca sua, assumono un corollario di esperienze nelle quali, in maniera differente certo, ritrovarsi, immedesimarsi. E' la gioia della parola che ci scorre addosso e dentro, ci penetra, come un coltello, come un proiettile, ma senza farci male. Non ci fa sanguinare, a tratti però lacrimare. Ci racconta di che cosa significavano a casa sua le banane e ci spiega l'equilibrio fragilissimo sulla Terra tra Peso della Vita e Peso artificiale ridimensionando l'Uomo e la sua alterigia di controllare il Mondo pur essendo una parte infinitesimale del tutto, minima scheggia del Creato. Paolini è un intellettuale e un avventore da bar, uno col quale parlare di rugby con un bianchetto o disquisire di letteratura con quella semplicità che non significa bieca semplificazione e dicotomie, con quel piglio bonario di campagna che ti fa vedere i problemi e considerare i temi da un altro punto di vista, più terreno, materico (non materiale né venale), più vicino ai veri valori che ci muovono, sangue, pelle, sorriso, sofferenza, abbracci, mani, occhi.download.jpg

Ci racconta paolini.jpgdi un cinema andato a fuoco negli anni '80 a Torino al quale seguì la chiusura di spazi teatrali e cinematografici per mettere a norma i locali, oppure quando ingaggiarono il Vate Carmelo Bene (narrazione questa spassosa e divertente, ironica e amara) per una serata a Treviso che avrebbe dovuto risollevare le sorti, e i conti in rosso, della sua compagnia e che invece li affossò nei debiti. O ancora i finti missili che gli Stati Uniti fecero credere ai russi di aver lanciato dal Montana o il proprio resoconto del terremoto nel Friuli e infine il suo rapporto di odio e poi amore con la Sagrada Familia di Barcellona. Paolini è toccante, avvincente, coinvolgente, appassionato, è soprattutto un toccasana in questi tempi di bianco o nero, di ragione e verità. Ascoltarlo è la miglior medicina per rimanere “Sani!”. Oggi più che mai, come diceva Bergonzoni, “avremmo bisogno di rifarci il senno”. Ma è molto più semplice rifarci solo il seno.

Tommaso Chimenti 16/03/2022

FAENZA – “L'adolescenza è come un cactus” (Anais Nin). Ogni tanto il teatro prova a scandagliare quel microcosmo che tutti ci tocca, ci colpisce (a volte ferisce), sicuramente ci forma, ci dà un'impronta per quello che saremo più avanti: il mondo della scuola. Piccolo habitat dove convivono età diverse e l'insegnamento delle prime regole da rispettare, i compagni, il gruppo, la disciplina, gli amici, il divertimento, gli amori, i professori. C'è stata “La scuola” di Lucchetti, passata anche sul grande schermo, “L'ora di ricevimento” di Stefano Massini, anche questo divenuto una pellicola, che si interrogava sulle differenze culturali e religiose, e poi “La classe” di Fabiana Iacozzilli, con i traumi provocati da quell'istituto di suore sadiche e insensibili, “La classe” di Giuseppe Marini, con un corso di recupero per ragazzi difficili, “Nemico di classe”, una delle prime regie di Gabriele Salvatores sul testo di Nigel Williams, per non parlare de “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza. Ecco, la scuola ci forma, ci sforma, ci dice quello che vogliamo diventare e quello che non vorremmo mai essere nel confronto costante con i compagni, con il mondo degli adulti.facebook_1637609252416_6868631037847694494.jpg

“Il periodo adolescenziale manca della percezione del futuro” (Vittorino Andreoli). Ed eccoci a questo “Il nodo” (prod. Società per Attori – Goldenart; testo della statunitense contemporanea Johanna Adams) per la regia di Serena Sinigaglia che vede lo scontro-incontro tra due universi separati, una professoressa (Arianna Scommegna) e una madre di un ragazzino (Ambra Angiolini). La scena ci dà subito, al primo impatto, l'idea del difficile, del complicato ma soprattutto dell'argomento impervio, proibitivo, ripido, burrascoso, sdrucciolevole e scivoloso: praticamente un dosso, una cunetta, un'ellissi, una gobba che scende giù a capofitto come una scogliera d'Irlanda. Su questa collina inclinata che declina verso l'abisso stanno banchi e sedie come quelle capre aggrappate e abbarbicate alle rocce sporgenti. In alcuni controluce le figure nere delle due donne su questa sorta di palla da basket tagliata a metà ricordavano il Piccolo Principe e l'Aviatore nell'omonimo libro di Saint-Exupery. Sarà per il tema, sarà per il nome di Ambra, il Teatro Masini di Faenza era pieno in ogni ordine compresi i palchetti. Il Masini è gestito da Accademia Perduta che dirige anche le stagioni dei teatri del Goldoni di Bagnacavallo, il Walter Chiari di Cervia, il Diego Fabbri e Il Piccolo di Forlì e il Dragoni di Meldola.

La il-nodo-cover.jpgstoria è semplice e al tempo stesso nasconde nelle sue pieghe, volutamente, tante ombre e ambiguità: un ragazzo si è suicidato con un colpo di pistola, la madre del ragazzo va a scuola dopo qualche giorno per un confronto con una professoressa che aveva sospeso suo figlio, cosa che il genitore pensa sia stata la molla scatenante del suo gesto estremo. Inizia così un corpo a corpo tra le due figure che mettono in campo la loro diversa autorità, il loro modo differente di essere donne, l'angolazione opposta di approcciarsi ai ragazzi. Nascono così guerriglie e accuse, schermaglie e solidarietà, odio feroce e abbracci, mea culpa e voglia di dimenticare, in una tensione crescente che sale a maree, e appena scema riprende vigore per scagliarsi ancora in impeti di rabbia e ira e astio, tra attacchi e difese inutili, per spiegare l'inspiegabile, per cercare di ricondurre l'accaduto a qualcosa di razionare, per incasellare questa morte in un continuum di cause ed effetto, di azione e reazione. Le due parti in causa vogliono dividere il senso di colpa che le affligge, vogliono scaricare il peso indicibile che stanno affrontando, vogliono sentirsi meno sole, abbandonate dalle istituzioni (la scuola che latita, la preside che come Godot doveva arrivare ma alla fine non si vede, diserta l'incontro) e dagli uomini (dove è il padre? La figura maschile?).img-1641814593.jpg

Di sottofondo il ticchettio di un orologio, quasi una clessidra per questo confronto su un immaginario ring dove le regole sono saltate, due donne sole su un'isola deserta con il loro dolore (diverso, certamente) pesante come un macigno che gli graverà sulle spalle fino alla fine dei loro giorni come Sisifo, incatenate alle loro responsabilità come Prometeo. E non c'è salvezza né possibile (auto)perdono per questa tragedia, il dialogo e la dialettica possono soltanto lievemente lenire ed essere un balsamo per colmare lacune, per cercare di razionalizzare la perdita, relativizzare il dramma e la sciagura.

Però nodo-angiolini.jpgse le due interpreti sono pugnaci, generose e dirette, Ambra ha piglio da guerriera mentre il ruolo della Scommegna arretra e incassa alle corde, c'è qualcosa, principalmente nel testo, che rimane sospeso, che non riesce perfettamente a sciogliersi come appunto questo “Nodo” che rimane lì a ricordarci qualcosa ma che non sappiamo dissolvere né dipanare. Sullo sfondo appaiono grandi temi, come il bullismo o la consapevolezza del proprio orientamento sessuale in età adolescenziale così come il perbenismo degli insegnanti e la responsabilità degli adulti, non pienamente approfonditi che confondono le acque facendo calare una coltre nebbiosa e insabbiando sospetti e incriminazioni. Anche la trasformazione dei personaggi e il loro lato psicologico, in evoluzione durante la piece, forse non convince appieno con tratti poco scandagliati e repentini cambi umorali e momenti che nella realtà non sarebbero perfettamente credibili.

“Sto male l’ho detto molte volte, ci sono cresciuto con quella frase, ho sempre saputo le ragioni del mio star male, era tutto perfettamente chiaro nella mia testolina di quindicenne” (Pier Vittorio Tondelli).

Tommaso Chimenti 11/03/2022

Foto di scena: Serena Serrani

FIRENZE – E' un inno alla provincia questo stare sfrontato e bonario assieme di Andrea Pennacchi davanti al suo leggio e al suo microfono, quasi fosse sul pennone del Titanic ad ammonirci, a solleticarci, a istruirci, a punzecchiare le nostre debolezze, le nostre false credenze, i nostri preconcetti. Va alla pancia “Pojana e i suoi fratelli” (visto al Teatro Puccini; il titolo è anche un volume edito), colpisce giù duro ma poi Pennacchi ti dà sempre la mano per farti rialzare, pesta pesante ma la lotta deve essere schietta, pulita, a rompere le ossa ma sempre con il sorriso sornione e una pacca cannavacciuolesca sulle scapole per farti tossire e sputare l'anima. Pennacchi elargisce e mette sul piatto il ventaglio dei suoi personaggi grotteschi dentro i quali, a pezzetti, come un mosaico, c'è sempre qualcosa che ci tocca, che ci fa sobbalzare: quel razzismo strisciante, quel perbenismo diffuso, quell'animosità difensiva di chi ha molto da perdere in questo mondo che cambia pelle velocemente, che mischia le carte, così come gli alleati e i nemici, e fa sbarellare i punti di riferimento.Andrea-Pennacchi-chi-e-4.jpg

Pennacchi (ormai il “Pojanistan”, dopo Propaganda Live, è diventata una vera e propria “religione”) sembra un saggio “umarèll” bolognese; direttamente dalla Treccani: “pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro alla schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono”. Ci indica le crepe dei nostri tempi malati e confusi; e noi ridiamo con lui ma anche di noi stessi. Ha una vena rock spiazzante che tranquillizza e inquieta, ha energia punk trascinante e ruota su se stesso come un derviscio debordante, balla con la birra d'ordinanza in mano (mai proporgli un prosecco, potrebbe adombrasi e incupirsi), prende forza dalla sua corpulenta forma che dà sicurezza. Mischia idioma veneto con l'italiano e tutto prende il suono e l'atmosfera di un mondo che forse ci è scivolato tra le mani rimanendo soltanto ricordo e racconto e leggenda. L'aria da paese, da sagra, quegli odori nelle narici, quei profumi sulla pelle.

Innamorato di Shakespeare, Pennacchi (autore brillante e al tempo stesso impegnato), che si accende come Romeo degli Aristogatti, usa il dialetto come grimaldello, da rafforzativo, da miccia per farci entrare dentro il folk del Nord-Est tra gli “spritz” e gli “schei”, i “boccia” e i “mona” che non solo soltanto traslitterazioni di parole paritetiche italiane ma aprono gallerie e finestre di senso radicate nei secoli, attraverso la sua voce roca che diventa mantra, calda, passionale, materica: un quintale di prestanza, vigoria, gagliardia e vitalità, un condottiero greco con la lancia in pugno. 6522521_23085848_andrea_pennacchi.jpgIl suo animale spirito-guida è il cinghiale, schivo, diretto, rude, fiero, pugnace. Le sue storie toccano centri nervosi latenti accompagnate da scelte musicali azzeccate (con Giorgio Gobbo e Gianluca Segato ottimi interpreti alla chitarra), da Nick Cave ai Clash tradotti in veneto: si ride sfrenato ma amaro.

E' un capopopolo acido, con una grande presenza scenica, amatissimo dal pubblico, capace di coinvolgere e tenere, pennacchi-800x800-1.jpegabbracciare e stringere la platea, severo ma giusto, che ci presenta il suo Veneto come un Far West, un Texas nostrano, un Vietnam. Burbero e malinconico (a tratti ricorda Natalino Balasso), semplice e colmo di naturalezza, ha la sapienza spietata di chi ne ha viste molte, dei vecchi che giocano a carte al bar che conoscono come gira il mondo pur essendo rimasti lì fermi per decenni con il sedere sulle stesse sedie impagliate tra bestemmie incancrenite e Tressette all'ultimo sangue. E la sua indagine (assolutamente sul campo) è sia storica che sociologica e le sue figure stereotipate, arrabbiate, immaginarie evocate, da Franco Ford a Edo il Security, da Tonon il derattizzatore ad Alvise il Nero, denotano un grande amore per il Veneto (lui padovano doc), per l'Italia, per il nostro essere tricolore sempre sospesi tra il cialtrone e il genio, l'artista e il ciarlatano, saltimbanchi e poeti.

Tommaso Chimenti 07/03/2022

BOLOGNA – Quasi un'Arancia Meccanica questo gioco al massacro dove tutti i quattro componenti delle due coppie ne escono a pezzi, distrutti, frammentati, spappolati. La coppia anziana (qui due grandissimi interpreti come Sonia Bergamasco e Vinicio Marchioni) e la coppia giovane (Ludovico Fededegni e Paola Giannini) che si guardano, si scrutano, si rivedono come davanti ad uno specchio, quello che sono stati, quello che saranno. Ed è un Latella in formissima quello che pennella questo “Chi ha paura di Virginia Wolf?” tutto sul filo della ferocia controllata, della quadrate-sito-TSU-4.jpgrabbia moderata, dell'ira furibonda e di una distruzione borghese e dialettica, più fioretto che sciabola. E si riforma la coppia Latella-Marchioni che già portarono sul palco un capolavoro come “Un tram chiamato desiderio”. E c'è un comune denominatore tra i recenti ruoli teatrali di Marchioni: il suo Stanley del “Tram”, Brick de “La gatta sul tetto che scotta” (per la regia di Arturo Cirillo) e questo George.

La deflagrazione dell'ipocrisia anglosassone-americana-puritana-conservatrice (il testo è degli anni '60, di Edward Albee). Subito ci appare una scena, tra l'hopperiano e il carveriano, dove i parallelismi cromatici sono fondamentali per cercare un binario, una rilevanza, un'associazione, per comporre i pezzi di questo puzzle spaiato e decomposto formale dove, all'apparenza tutto sembra perfetto e ideale mentre le crepe stanno per implodere: la poltrona è gialla come l'armadio, il piano è rosso come l'abito di George-Marchioni, le tende che ricoprono le tre pareti sul fondale a celare Latella-scaled.jpge proteggere sono verdi come l'abito di Martha-Bergamasco (elettrica: suona gli ottantotto tasti e canta come una consunta Janis Joplin), viola invece sono le piccole volpi sul boccascena come la parrucca indossata dalla moglie. Non sono casuali gli incroci in questa confezione di teatro borghese d'interno, ad una prima occhiata, che diventa disseminato di ferocissimi attacchi tra squali, iene, avvoltoi in un tutti contro tutti che lascia cadaveri al suo passaggio come un monsone. Tutti i colori hanno un qualcosa di sbiadito, di scolorito, di sfumato e affumicato, passato, fumé.

I senior: lui è un professore universitario nell'ateneo il cui rettore è il padre di sua moglie. Un rapporto ormai logorato ma che, come nello stallo di un finale di partita bloccato senza vie di fuga, rimane, sta, barcollando ubriaco, tentennante ma in un suo pur precario equilibrio smodato continua a restare in piedi. E sembra un gioco tra i due più maturi personaggi quella di invitare, sovente, una coppia più giovane per smorzare i loro entusiasmi nel futuro, per mostrare il fondo del bicchiere, il raschiamento del barile, la vergogna e lo schifo e fin dove si può arrivare ad odiarsi, senza limiti, senza censure, senza più dignità né orgoglio, senza più limitarsi. E' una violenza psicologica di strategie e attacchi furtivi a scoprire i punti deboli e a colpire proprio lì dove fa più male in un crescendo che non lascia spazio alla salvezza, che chiude tutte le porte al domani. Una vera e propria guerriglia dove tutti i colpi sotto la cintura sono contemplati. Ma i due coniugi “anziani”, che forse si rinfacciano le stesse cose e sono caduti mille volte nelle stesse dinamiche ormai consumate e consolidate, hanno bisogno, come per vezzo, di avere un pungolo, un meschino stimolo, un pubblico vergine che ascolti quelle stesse minuzie esistenziali per la prima volta, in un duello fino all'ultimo sangue per vedere chi ha ragione, per mostrare sul banco (degli imputati) tutte le prove a carico, i moventi, le ingiustizie subite, i torti accusati. Ma è sottile il discrimine se i due effettivamente si stiano azzannando alla giugulare o se recitino, di tanto in tanto, quasi per scandalizzare i nuovi arrivati in quella dimensione da campus, uno stesso canovaccio, come a teatro, sera dopo sera, un copione da rispettare ormai assodato e ricordato e concordato, lascivo, dissoluto, disturbante, quasi un gioco di società dove due complici si impegnano a distruggere le aspettative e il futuro di una giovane coppia, per noia, per mancanza di passione, per quella subdola ricerca di fare del male ad altri quando ormai non se ne può più fare alla persona che ci sta ancora accanto.

Ci aggredisce un senso di impotenza davanti a questi blocchi che si fronteggiano, a questi nemici che cambiano casacca, a queste fazioni liquide che mutano schieramento, dove tutti vorrebbero andarsene ma dove tutti rimangono per colpire e finiscono per essere presi di mira rimanendo invischiati nella voglia-bisogno di vendetta, intrappolati in un desiderio di rivalsa che li fa ancor più affondare, li indebolisce perché li lascia sguarniti del germe della sopravvivenza pensando più a come rivalersi del torto che a quello che potrebbero perdere in questait_virginiawoolf-02-03-2021-850_original.jpg roulette russa (infatti apparirà anche una pistola) dove, alla fine, tutti perderanno indelebilmente se stessi. Le provocazioni e le istigazioni montano come panna per poi sciogliersi e immediatamente, dopo una piccola tregua quasi a riprendere fiato e forze e prendere nuovamente la rincorsa, risalire ancora più perfide e toccanti e cattive chi-ha-paura-i-Virginia-Woolf-foto-di-Brunella-Giolivo-5-e1641817630359.jpgcercando il nervo scoperto, nel triste play del gatto col topo. Marchioni e la Bergamasco, attori di un gigantesco spessore con una prestazione super, tengono dritto il filo di una tensione palese e di un erotismo strisciante come se le umiliazioni che si infliggono e che li trafiggono possano in qualche modo risvegliare la loro eccitazione sopita. Hanno carattere e tempra per reggere questa manipolazione patologica (2h 40') e ci vuole un fisico bestiale (dopotutto siamo a Bologna città di Luca Carboni, all'Arena del Sole) per tenere botta alle nevroticità dei loro ruoli, per non soffocare nel tremendamente infelice, per non farsi avvolgere da tutta quell'insoddisfazione che, come marea, come onda, ci assale, ci travolge.

La citata nel titolo Virginia Woolf non è altro che l'inconfessabile che alberga dentro ognuno di noi, è quella coscienza che chiarifica le nubi degli incubi, è quella voce da voler mettere a tacere, è il grillo parlante che non vogliamo ascoltare, è quella fatica che non vogliamo fare, preferendo continuare ad annaspare invece di, finalmente, imparare a nuotare. Ci vuole sudore per essere la parte migliore di noi stessi, ci vuole sofferenza per uscire da schemi preconfezionati e incancreniti, ci vuole un grande sforzo per uscire dalle paludi di relazioni consolatorie ma dannose e croniche e acide e corrosive, ci vuole impegno quotidiano per scegliere di volersi bene.

Tommaso Chimenti 26/02/2022

Foto: Brunella Giolivo

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