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L'alluvione del Polesine, tragedia indimenticabile

BOLOGNA – In Italia scorrono circa 1200 fiumi che principalmente nascono dagli Appennini o dalle Alpi. Il più lungo è il Po che attraversa la Pianura Padana per oltre 650 km. Proviamo adesso a calcolare le migliaia di chilometri di argini che ci sono, che ci sarebbero dovuti essere, che mancano perché la manutenzione nel Bel Paese è roba da emergenza, da stato di calamità, fatta di malaffare e corruzione e cattiva politica. E allora ecco il Polesine nel '51 con 100 morti e 200mila sfollati, gli straripamenti del '54 a Salerno con oltre 300 morti, il Vajont nel '63 con 2000 morti, l'alluvione di Firenze nel '66, nel '68 a Biella e Asti con 78 morti, Una-Riga-nera-ph-Mario-Zanaria.jpgnel '94 ancora in Piemonte con 68 deceduti, il fiume di fango nel '98 a Sarno con 160 morti. Negli ultimi anni ricordiamo Livorno e Genova ed anche la tempesta Vaia (raccontata mirabilmente in teatro da Andrea Pennacchi), ma di eventi distruttivi naturali, che potevano essere controllati dall'uomo, avvengono ogni anno sul nostro territorio ed è facile dopo, a cose avvenute, scandalizzarsi, mettersi le mani nel capelli, piangere, indignarsi, fare una raccolta fondi per la ricostruzione.

Una riga nera al piano di sopra” (il titolo evocativo e bellissimo che sembra uscito da una poesia di Mariangela Gualtieri) rende bene, in un attimo, la fotografia della disperazione umana davanti alla furia dell'acqua, una riga nera che sembra rimmel sbafato sugli occhi piangenti di una donna di campagna, una riga tracciata tra ciò che era prima e quello che non sarà mai più, tra quel che c'era e quello che sarà trasformato perdendone la memoria e la tradizione, una riga come limite purtroppo valicato, una riga come confine deturpato e frontiera sfondata, una riga come spartiacque tra il fiume che era e il fango e detriti carichi di morte e povertà che adesso tracima e corre e travolge e sporca e lorda ogni cosa vivente e inanimata. Matilde Vigna (ha un volto “antico”; già due Premi Ubu nel suo palmares) è originaria del basso Veneto, terra di polenta e pane biscottato, una campagna dura rispetto ai merletti di Verona, i lussi di Padova, agli sfarzi di Venezia, ai palazzi di Vicenza. Un altro Veneto, più vero, più terreno, più tattile, fatto di mani e calli e lavoro. La Vigna (farà grande il teatro italiano nei prossimi 50 anni; ha un che della Vanoni; davanti a sé un futuro radioso da nuova “Maria Paiato”) è al suo primo testo che ha portato al Teatro delle Moline bolognesi nel bel progetto di produzione Ert sempre attenta alla nuova drammaturgia.

Un testo una-riga-nera-8-ph-Mario-Zanaria.jpgsolido, compatto, denso con l'attrice che ci aspetta in sala e una panca grigia che divide l'orizzonte dello sfondo nero alle sue spalle (fondamentale il disegno luci di Alice Colla). Ha in mano una pianta, un bonsai, quella natura che si ribella, quella natura che ha bisogno di noi, quella natura da cui inevitabilmente dipendiamo che però vogliamo distruggere e non rispettare per amore dell'asfalto e del cemento, di un illusorio progresso. La faccia è nascosta, celata, nella penombra, nell'oscurità. Ci apre alla memoria della sua terra con passione, tenerezza, senza fronzoli. Polesine 1951. Una performance carica di pathos e forza espressiva (teatro civile quasi paoliniano) nelle parti ombrose e in chiaroscuro dove è l'alluvione e lo stravolgimento delle terre soverchiate come delle vite trascinate nella melma a tornare in superficie, un racconto pieno, commovente, toccante, incisivo, corrosivo che ci arriva fino in fondo alle ossa e farci sentire il gelo dell'acqua fredda, quella miseria che la puoi toccare con mano. Parallelamente il percorso drammaturgico devia in un nuovo binariouna-riga-nera-al-piano-di-sopra-ph-mario-zanaria-4_1000x0_1ee8dbe6c85c42d219d01dab2263cb86.jpg che fa da contraltare a quello del ricordo, una parte più autobiografica, che intervalla quella drammatica, in piena luce anche sul pubblico, nella quale l'attrice si lancia in un filone generazionale di case, affitti, amori andati a male, ritorni a casa, valige da fare e smontare, rifare e lasciare.

Certo la metafora della valigia è centrale e subito la mente va agli sfollati di tutto il mondo, ai migranti di ogni epoca, oggi inesorabilmente al popolo ucraino. Ma lo scarto, in un equilibrio fragile e precario (certamente voluto), tra le due componenti è abissale: da una parte la scena spettrale di fumo e nebbia della furia del fiume in piena (il progetto sonoro di Alessio Foglia ben coadiuva le parole che diventano armoniose quasi poesia futurista onomatopeica, parole che si inseguono e corrono come una valanga, una cadenza, una scansione tambureggiante da ruscello di montagna, una musicalità che sembra una percussione industriale) dall'altra la “leggerezza” dell'oggi tra sogni infranti (Bridget Jones?) e le incertezze dei trentenni sul futuro (già visto, già sentito) che spezza l'armonia, blocca il trasporto, ferma l'emozione e il sentimento. La Vigna è un grande patrimonio del nostro teatro, “Una riga nera” è un bel punto di partenza come drammaturga.

Tommaso Chimenti 24/03/2022

Foto: Mario Zanaria

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