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VICENZA – Stivalaccio vuol dire fiducia. Parafrasando una vecchia pubblicità anni '80 di un formaggio nostrano. Perché già è difficile (ri)portare le persone a teatro, è complicato riempire, per due sere, un teatro (come il Comunale) di mille posti, è arduo farlo con la Commedia dell'Arte. Il gruppo veneto ne ha fatto la propria cifra e essenza più intima e riconoscibile. Amati in Veneto (altro che sparuto zoccolo duro, qui ci sono le folle), amatissimi in Francia dove regolarmente sono invitati, da Avignone Off o come quest'estate che saranno in Normandia a Brest. All'estero il loro gramelot si esalta, le mosse e le maschere tirano fuori l'argento vivo e il fuoco che hanno dentro per sopperire la parola. Hanno le spalle larghe da artisti di strada, la sicurezza, l'impostazione, il mestiere. Ed eccoci ad un nuovo “Arlecchino” che stavolta diventa “Muto per spavento” (prod. Teatro Stabile Veneto, Teatro Stabile Bolzano, Teatro Stabile Verona; qualche tempo fa ne portarono in scena uno “Furioso”) arlecchino_muto_di_spavento_500x408-1.pnge che è dedicato all'appena scomparso, e da tutti i teatranti compianto e rimpianto, Eugenio Allegri. Una durata da Stabile (2h 30' con intervallo), una scena, composita e articolata, che ruota su se stessa per permettere di usarla bilateralmente, nove attori sul palco che cantano, duellano, saltano, ballano: il progetto messo a punto da Marco Zoppello (qui regista ed anche la maschera protagonista) e Michele Mori (le due anime di Stivalaccio Teatro) ci mostra una struttura ormai collaudata di alta professionalità, ben rodata da alchimie e artigianato, oliata e pronta.

Chi lo avrebbe detto che negli anni 2000 una compagnia di giovani potesse attirare così tante persone al proprio capezzale con la Commedia dell'Arte? A priori potremmo definire “anacronistico” parlare di Pantalone e Arlecchino ma queste maschere hanno in sé l'universalità delle sfaccettature dell'umanità e, ripulite dai lazzi e frizzi settecenteschi, conservano ancora integri quei valori di moralità e insegnamento, metafora e monito, utili anche oggi. Ci hanno scommesso, la loro puntata sta ampiamente ripagando gli sforzi, hanno vinto. In scena un bel manipolo affiatato e gagliardo: Sara Allevi è Violetta, Marie Coutance è Flamminia, Matteo Cremon è Lelio, Anna De Franceschi è Stramonia Lanternani, Michele 84_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1148.jpgMori è Mario, Stefano Rota è sia Pantalone De' Bisognosi che Bargello, Pierdomenico Simone è sia Trappola che il Locandiere, Maria Luisa Zaltron è Silvia, Marco Zoppello è Arlecchino.

Guardando gli Stivalaccio si ha sempre la sensazione che, scavando sotto la superficie dorata dei curati costumi, ci sia sempre qualcosa che possa parlare all'uomo contemporaneo oltre il divertissement e le danze, gli imbrogli, i duelli (a cura di Massimiliano Cutrera) le zuffe, le bugie dei protagonisti. Una lettura multisfaccettata con più veli di comprensione, aperta a tutti, popolare nel più alto senso del termine, stratificata per ascolti diversi. La struttura classica della narrazione (di Luigi Riccoboni) è semplice: ci sono due coppie, i cui matrimoni sono stati combinati (come usava e come purtroppo anche oggi in molte parti del mondo è ancora in vigore), che non vogliono sposarsi per interesse ma sono innamorati di un'altra persona e che lottano fino al sacrificio estremo per vedere riconosciuti i propri desideri e rispettate le proprie volontà. Si parla del conflitto tra vecchie e nuove generazioni, si parla dei giovani che hanno paura nel ribellarsi allo status quo e al potere costituito, si parla, appunto, di matrimoni combinati.

E se nell'“Arlecchino muto per spavento” se ne ride e alla fine tutto andrà bene e l'happy end ci riscalderà e ci cullerà, ancora abbiamo 76_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1713.jpgnegli occhi le pagine di giornale riguardanti la cronaca sull'uccisione di Sana da parte della famiglia pakistana a Brescia nel 2018 perché si era rifiutata di sposare un uomo in patria, e ancora ci ricordiamo di Hina uccisa per le stesse ragioni e sempre sul territorio italiano. E se Hina e Sana si sono ribellate e hanno pagato con la vita il loro sacro rifiuto a scendere a patti con usi e costumi obsoleti e tradizioni antiquate e vessatorie chissà invece quante centinaia/migliaia di donne, figlie di immigrati, italiane di seconda generazione a tutti gli effetti integrate nella cultura occidentale, hanno dovuto cedere a matrimoni scelti a tavolino dalle proprie famiglie per doti corpose, rendendole infelici e schiave per sempre, sottomesse, impotenti, e64_ArlecchinoMutoPerSpavento18052022-1566.jpgmarginate, sole, abbandonate con l'unico scopo nella vita se non sfornare figli, cucinare ed essere prigioniera delle quattro mura casalinghe. Quindi dell'“Arlecchino muto per spavento” se ne può certamente ridere (si deve!) anche se un occhio al nostro mondo, pieno di contraddizioni e mai così lineare, è sempre bene tenerlo.

Tornando alla pièce, senza cercare altri significati forse anche troppo reconditi e celati, è interessante l'uso dei dialetti e il miscuglio delle lingue, dal napoletano al veneto ovviamente, dal romano fino al francese, così come la grande ricerca musicale realizzata (arrangiamenti e musiche di Ilaria Fantin); tra le canzoni proposte ci è rimasta nelle orecchie e nel petto la “Canzone arrabbiata” di Nino Rota il cui testo potrebbe essere preso ad emblema proprio del discorso intrapreso in precedenza: “Canto per chi non ha fortuna, canto per me, canto per rabbia a questa luna, contro di te, contro chi è ricco e non lo sa, chi sporcherà la verità, cammino e canto, a la rabbia che mi fa. Penso a tanta gente nell'oscurità, alla solitudine della città, penso alle illusioni dell'umanità, tutte le parole che ripeterà”. E pensando alle ragazze citate vengono i brividi.

Tommaso Chimenti 26/05/2022

TUNISI – A guardare la cartina, la Tunisia sembra una bocca sdentata. I tre grandi golfi che la ritagliano appaiono come i vuoti di una dentatura. O un cavalluccio marino nel suo incedere, dondolandosi nella sua danza, protraendo in avanti la testa e il suo beccuccio nel suo caratteristico cavalcare così flessuosi, così fragili, delicati e trasparenti. Il caldo è un lungo abbraccio stretto mentre la brezza che arriva dal mare ha il potere di risvegliare i sensi, scuotere le spalle, far spalancare gli occhi dopo tanto sole che li ha fatti stringere nelle rughe d'espressione. La torre con l'orologio, in una rotonda attorniata dalle bandiere che sventolano e sbattono rosse, segna l'entrata in città con il lungo viale che arriva, imperiale, fino alla Medina. La bandiera tunisina somiglia a quella turca, con la luna e la stella classiche del mondo arabo, ma se nella prima sono rosse in campo bianco nella seconda sono bianche in campo rosso. Sotto il ponte sopraelevato dell'highway tanti graffiti danno un tocco Teatro Municipale di Tunisi.jpegdi colore giovane e ci ricordano che qualcosa, lentamente, sta cambiando, che forse le nuove generazioni stanno leggermente smuovendo il Paese, vivacizzandolo, anche attraverso i colori e le forme della streetart.

Dietro la Porta di Francia le fontane a terra zampillano alte, quello è lo slargo dal quale partono varie arterie che si incuneano come serpentine dentro la pancia e il cuore della Medina, s'inerpicano tortuose nel Souk, s'aggrovigliano vorticose nella Kasbah. Piccole tortuose vie dove i profumi di oli essenziali si rincorrono, i teli svolazzano, i tappeti colorano e ancora ceramiche e maioliche, i dolcetti carichi di miele, kaftani di ogni foggia e per ogni occasione, oggetti di pelletteria con quel tocco acido, quasi piccante e affumicato che sale alle narici. E' un flusso continuo, un piacevole perdersi tra porte arabeggianti e palazzi orientali che nascondono terrazze da mille e una notte dove poter lanciare lo sguardo fino al mare imbevuto nei tetti bianchi, tra le migliaia di parabole. I gatti sono molto amati, ce ne sono a decine liberi e randagi a correre o giocare o soltanto a poltrire aspettando un pezzo di qualcosa di commestibile che dai banchi prima o poi cadrà. Il Teatro Municipale è un confetto barocco tutto bianco mentre dall'altra parte del viale si innalza la Cattedrale di San Vincenzo de' Paoli proprio davanti all'Ambasciata di Francia dove stazionano giganteschi suv mimetici. I trenta gradi mordono, i raggi abbagliano, “sole che batte su un campo di pallone, e terra e polvere che tira vento”. Gli infiniti caffè di Tunisi che la rendono assimilabile alle atmosfere di Parigi.

L'importantearlia foto web.jpg Museo archeologico del Bardo, purtroppo ancora interdetto al pubblico, è la più antica galleria sia del mondo arabo che dell'Africa, conosciuto soprattutto per i mosaici romani. Troppi gli attentati in questi ultimi anni in Tunisia: abbiamo ancora negli occhi le immagini crunete di quello del Bardo (22 morti) e quello sulla spiaggia di Sousse (39 vittime) con i terroristi che arrivarono dal mare in gommoni carichi di kalashnikov, entrambi nel 2015, ma altri piccoli, sporadici, occasionali, anche senza una grancassa internazionale, sono avvenuti in questi anni in vari luoghi del Paese, mantenendo così alta l'attenzione sul fronte dell'islamismo estremista. Per le avenue, ai lati delle strade, molte transenne, tanti blindati, troppi paletti, molta polizia per proteggere soprattutto la sfera turistica, una delle prime voci del Pil per le casse della Repubblica governata dal 2019 dal Presidente Kais Saied. Impossibile non restare affascinati dai dintorni di Tunisi, da Cartagine con le sue colonne e la sua Storia che prepotente torna a parlarci con la potenza delle sue pietre, o con Sidi Bou Said, le case bianche con le persiane blu che degradano verso la spiaggia e il Mediterraneo che qui sotto passa dal verde ad un limpido azzurro da cartolina. Molti i pensionati che decidono di trasferirsi qui ad un passo dall'Italia, con sole, mare e prezzi calmierati rispetto all'Europa.

Ed è in Tunisia che quest'anno si svolgerà il “Fortissimo Festival”, rassegna calabrese di concerti di musica classica, per una collaborazione e un partneriato tra l'Ambasciata Italiana, diretta da Lorenzo Fanara, l'Istituto Italiano di Cultura, e il Conservatorio Tchaikovsky di Catanzaro del direttore d'orchestra il Maestro Filippo Arlia che ha programmato questo prologo di maggio nella capitale, dislocato tra gli stucchi dorati del Municipale nell'arteria principale Avenue Habib Bourguiba e la rossa e deliziosa Salle 4eme Art in Avenue de Paris, prima della vera e propria kermesse che si aprirà a fine settembre a El Jem, cittadina tra Monastir e Sfax, sede di un meraviglioso anfiteatro romano, un piccolo Colosseo perfettamente conservato.

Due le serate che abbiamo potuto seguire, la performance proprio del Maestro Arlia in duo con il bandoneonista Cesare Chiacchiaretta con il concerto “Duettango” e il Galà classico dell’orchestra de “Les Solistes de Megrine” nel quale sono emersi i Maestri Alfredo Cornacchia e Roberta Ficara, in un mix tra musicisti calabresi e tunisini. A proposito l'ambasciatore Fanara ha voluto sottolineare “come sia la cultura il modo principale per sviluppare unione e un ponte di conoscenza reciproca e migliorare il dialogo tra culture diverse ma comunque vicine geograficamente e storicamente. Un dialogo che si esprime sia nella collaborazione Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPGche nella formazione, nella condivisione di conoscenze, di talenti, di esperienze. L'Opera qui è vista come Italia e questo promuove la nostra lingua e l'immagine nel mondo. La cultura è un antidoto al terrore, contro chi vuole brutalizzare le nostre vite e la nostra quotidianità, basti pensare che ho personalmente organizzato un concerto all'interno del Colosseo di El Jem una settimana dopo l'attentato del 2019 riuscendo a portare 1500 spettatori. Inoltre questa manifestazione è anche una bella opportunità lavorativa per i giovani tunisini”.

L'esecuzione di Arlia-Chiacchiaretta ha scelto il tango come perfetta sintesi ed emblema tra il Sud Italia e la Tunisia: il tango racconta in ogni nota una storia di emigrazione, in ogni armonia straziante ci ricorda volti, occhi, mani di chi è partito verso lo sconosciuto e l'ignoto per andare a cercare fortuna altrove, lontano da casa propria, dai propri affetti. Succedeva agli emigranti calabresi verso le Americhe nell'Ottocento e Novecento, succede ai tunisini oggi verso l'Europa. Il tango, che fa rima con piango, ci parla di sudore e lacrime, di lontananza e passione viscerale verso la propria terra che negli anni sbiadisce la memoria ma tiene viva la fiammella. I Maestri in nero, intagliati sul rosso vermiglio del sipario e nella porpora delle poltroncine, immersi nel bianco latte del Municipale hanno sfoderato tutta l'energia caliente e il sentimento tattile e concreto nel loro “Duettango”, rovistando nel tormento, nello struggimento con forza, passione, nostalgia. Piazzolla è stato felicemente celebrato con esecuzioni decise, senza incertezze, esprimendo una grande chimica tra i due artisti in scena e gli applausi convinti e sentiti del pubblico partecipe hanno sottolineato l'alchimia artistica che si è generata sul palco. Vibrazione e commozione, brividi sparsi, miscelati con grinta e garra latina, tenacia e vigoria, per una cavalcata trionfale tra le fiamme dell'Umanità. Sarà interessante tornare qui a settembre per cogliere nuove sonorità e nuovi incastri nello scenario di El Jem, un diverso fondale per musiche senza tempo impastate tra Italia e Tunisia, così vicine e sempre un po' meno lontane.

Tommaso Chimenti 23/05/2022

TORINO – La ferita che ha lasciato il Covid nell'animo e nelle vite delle persone è ancora profonda, troppo aperta e sanguinante per poterla affrontare come un qualsiasi altro argomento. Troppo fresca per parlarne, per esorcizzarla attraverso l'arte, soprattutto attraverso il teatro, l'arte per eccellenza che sublima e innesca, che fa metafora della realtà, che astrae, estrae, sintetizza, rielabora. Questo non significa che dobbiamo applicare censure o rimozioni collettive però crediamo che la nostra società, soprattutto quella occidentale che è stata travolta e stravolta da questi due anni prima di privazione della libertà poi dilaniata dal conflitto 03_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60995.jpgvax/novax e infine colpita da inflazione e recessione, ancora non voglia confrontarsi con il tema del virus e abbia bisogno di altro tempo per allontanarsi dalla minaccia, relativizzare il passato, fare un passo indietro e guardare a quest'ammasso di emozioni contrastanti con un occhio meno partecipe e meno coinvolto. Tutto è talmente troppo vicino (le mascherine in teatro, aereo e treno si continuano a portare, e i morti collegabili alla malattia ci sono quotidianamente) che non possiamo ritenerci immuni, che non possiamo parlarne come un dato del nostro recente passato perché ne siamo ancora invischiati e la coda lunga, soprattutto nell'economia, si farà sentire per svariati anni. Se siamo ancora dentro al vortice è difficile e complicato poter argomentare con lucidità, prendere posizione con un coerente distacco, con la giusta distanza.

La gente vuole sentire parlare di Covid o in questo preciso momento storico cerca, non tanto il disimpegno, quanto altri porti e sbocchi, altre questioni non così pesanti e pressanti che non ci possano far ripiombare nei momenti appena trascorsi? Se sei appena uscito da un incubo, se hai appena subito un importante trauma che ha completamente ribaltato la società dei consumi e sterilizzato il nostro modo di vivere, l'ultima cosa che vorresti è sprofondare nuovamente nelle stesse trite e tristi dinamiche, continuare a parlarne, a sviscerare situazioni e sviluppi, andare a fondo, 04_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR61233.jpganalizzare. Ancora, secondo noi, i tempi non sono maturi per un'esposizione collettiva, quale è il teatro, per una condivisione comune della faccenda. Infatti non molti testi contemporanei parlano di Covid. Si respira un blocco emotivo a riguardo.

E, secondo Emanuele Aldrovandi, il suo debutto “L'estinzione della razza umana” (visto al Teatro Gobetti torinese; prod. Teatro Stabile Torino, Associazione Autori Vivi, Corte Ospitale) non parla del virus partito dalla Cina. Però c'è una malattia respiratoria, a metà tra la famigerata Sars19 e l'aviaria, però c'è un lockdown con tutte le relative causali e conseguenze concatenate. La pandemia mondiale, all'interno della dialettica che l'autore reggiano ha dipanato tra cinque personaggi (Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi), va a caduta sul cambiamento climatico e su quanto la sovrappopolazione del globo abbia influito e influisca sulla salute del Pianeta. Molta carne al fuoco, molte tematiche spesse e piene e corpose. Si ride e si riflette. La scrittura di Aldrovandi (per noi è prima di tutto un autore, uno scrittore e poi un drammaturgo e infine un regista) la mettiamo nel paniere assieme a quelle illuminate di Fausto Paravidino e Bruno Fornasari, esempi di concretezza, profondità, tenacia, lenti d'ingrandimento sull'oggi senza tralasciare l'ironia sulla nostra specie, riflessioni senza le pesantezze della tragedia, senza finte commozioni. In un condominio (la scena di Francesco Fassone) che diventa habitat e gabbia di zoo si confrontano due coppie (l'autore aveva in mente un qualcosa che ricordasse “Il dio della carneficina” di Yasmina Reza) che diventano fazioni che si trasformano in guerriglia. Prima il maschio dominante contro l'altro maschio alfa, il nodo del contendere era che uno dei due voleva uscire e andare a correre mentre l'altro glielo impedisce perché siamo il decreto del lockdown lo vieta, poi le donne sono solidali, adesso si aggregano gli uomini, dopo si scontrano le famiglie, infine anche le donne, soprattutto sul tema maternità visto06_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60935.jpg che una delle due è diventata madre da poco mentre l'altra ha scelto di non averne perché non ha fiducia nel genere umano e perché la vita umana uccide il pianeta, si accapigliano in un tutti contro tutti infelice.

Interessante è questo colore, tra il celestino e il grigio, che ricorda vagamente una cromatura ospedaliera di lenzuola o di camici da infermiere o addirittura la mascherina chirurgica, un non-colore scialbo delle mura, delle finestre che si spande e si scioglie nelle loro tute-divise anch'esse grigie, quasi da carcerati, che li appiattiscono alle mura, che li fanno scivolare nell'anonimato. Colore che ogni tanto si incendia di rosso gracchiante e d'allarme pulsante. Divertente è la deriva apocalittica e distopica delle conseguenze dell'aver contratto il virus: le persone si trasformano in grossi tacchini (come Pinocchio e gli altri studenti discoli in ciuchini da macello) con tanto di piume sulla schiena e bargigli e cresta e becco. La scelta grottesca però non viene spinta ma soltanto accennata, invece poteva essere il gancio giusto per staccarsi dal contingente e fare di questo racconto una favola noir dove l'oggi si tramutava in incubo visionario. E ancora, avvincente e curioso è il fatto che più i quattro personaggi principali (il quinto è il rider che porta i pacchi di Amazon o il dottore che torna dai turni massacranti in ospedale) esprimono le loro idee e prese di posizione sul mondo, sulla vita e sulle loro libertà e scelte esistenziali e politiche, e più ogni volta ci sentiamo d'accordo con tutti, dando sempre ragione all'ultima riflessione lanciata sul piatto.

La scrittura di Aldrovandi ci mette alle corde, ci sprona, ci punge, ci sbalza dalle nostre convinzioni proprio perché la ragione non sta acriticamente da una parte soltanto. In queste figure, nelle loro salde certezze e sinceri convincimenti, però quello che risalta è la loro fragilità (la nostra), il nostro spaesamento, il nostro naufragare alla ricerca di notizie, di verità, nuotando a scansare fake news, ad evitare manipolazioni e pubblicità che ci vogliono sempre più usare come pedine e consumatori invece che come cittadini pensanti. Nel mare 08_L'estinzione della razza umana_ph Luigi De Palma_RR60770.jpgmagnum dell'informazione ci siamo assuefatti alle bugie del mercato, dei politici, della tv, degli esperti, tanto che non riusciamo più a capire chi mente e chi ci vuole mettere in guardia, confondendo sempre più il Gatto e la Volpe con il Grillo Parlante. Tutto e il contrario di tutto, tutto è il contrario di tutto, e siamo spaesati e disillusi e annaspiamo in perenne balia. Ecco perché ci sono stati i seguaci di Trump poi i novax, adesso i putiniani e gli orsiniani: “Quanti perfetti e inutili buffoni, questo Paese devastato dal dolore” urlava disperato inascoltato Franco Battiato. Le persone si sentono sole e abbandonate, hanno paura e si rifugiano in regole nette e schemi semplici per cercare conforto, per non sentirsi stupidi, anzi per credere di essere intelligenti, in perenne lotta contro l'establishment, in conflitto con i “poteri forti” che spesso non esistono come i mulini a vento di Don Chisciotte.

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“L'estinzione della razza umana” ben fotografa questo momento storico che stiamo affrontando nel quale molti ignoranti si affidano alle ricette di qualche guru da web che impasta, maneggia e adultera dati e informazioni, documenti e notizie per certificare e consolidare le proprie tesi, spesso politiche, faziose, parziali, settarie, facinorose per loro tornaconti. A molti è mancata la scuola e l'istruzione, ad altri, quelli che si credono furbi e geniali per il solo fatto di non stare nella maggioranza, manca l'umiltà di capire talmente sono indottrinati dall'arroganza, dal potere, imbevuti di odio edi presupponenza verso i propri simili che, evidentemente, considerano inferiori, quelli che chiamano “il gregge”. Il condominio di Aldrovandi è un affresco plausibile di quello che ogni giorno è la dialettica sui social network, le battaglie a colpi di nuovi link, non tanto per convincere l'altro ma quanto per sentirsi più intelligenti, meno fregabili, meno fallibili, meno allocchi. Magra consolazione se le foreste vanno in fiamme, se gli oceani sono pieni di plastica, se le temperature diverranno inaccessibili e inaccettabili: “Intanto la primavera tarda ad arrivare”. “Viviamo strani giorni”.

Tommaso Chimenti, visto al Teatro Gobetti di Torino il 17/05/22

Foto: Luigi De Palma e Bruno Cattani

Sabato, 14 Maggio 2022 17:09

"Kassandra": interpretazione capolavoro

BOLOGNA – Ci sono alcuni testi che hanno necessariamente bisogno di alcune messe in scena per esaltarsi e ci sono alcuni modi di usare il corpo e la voce e lo spazio e il palco che rendono alcuni testi memorabili. Quando questo avviene, quando siamo di fronte non soltanto all'attore, non soltanto alla recitazione ma ad un qualcosa di più ampio e compiuto, di totalizzante, elettrizzante, assoluto, allora, solo allora, si può parlare a pieno titolo di performance. La “Kassandra” di Sergio Blanco (in questo momento nel mondo ne esistono ventisette diverse versioni; qui, prod. Ert/Teatro Nazionale, per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, che DSC3220-scaled.jpgcura anche scene e costumi) diventa uno show vissuto, sudato, traslato, solcato dall'anima di Roberta Lidia De Stefano che ha riempito con ogni suo centimetro, con ogni suo stilla di fatica, con ogni sua cellula il senso più profondo della drammaturgia senza dimenticare l'edonismo, l'estetica, l'estasi della raffigurazione, quel sottile strato magico che si crea, osmotico e di trasporto, tra la platea folgorata e la scena che frigge, che frange, che sprizza, che spiazza, che sfrigola. Ci siamo trovati davanti ad un insieme di qualità, attoriali e artistiche, che difficilmente convergono nello stesso corpo, un corpo che si fa sensuale e meccanico, che ha al suo interno tutto il metallo del Futurismo fuso ora con la dolcezza adesso con la durezza e rudezza che soltanto la strada forgia. In mezzo alla nebbia, una piccola macchina a DSC3890-scaled.jpgfari accesi e una figura (“Non sono né un uomo né una donna”) con il suo inglese maccheronico e schematico, scandito e primordiale attende i possibili clienti in una sorta di “Nella solitudine dei campi di cotone” in solitaria.

Blanco prende il Mito greco e lo trasporta in una contemporaneità nostrana occidentale dove le donne sfruttate in mezzo ad una strada con i loro corpi sono la testimonianza viva e diretta delle guerre, delle lotte, delle sopraffazioni, della povertà in altre parti del mondo: la prostituzione è soltanto la punta dell'iceberg di fenomeni più ampi e profondi che l'uomo moderno del Primo Mondo vuole rimuovere cercando di sfruttare questi corpi e farne soltanto oggetti per usarli e violentarli e umiliarli per un po' di sesso a buon mercato senza sentirsi complici di quel sistema che ha strappato queste donne alle loro case, ai loro affetti. Ci è subito venuto in mente un parallelismo con il toccante “Medea per strada” del Teatro dei Borgia dove il pubblico viaggia insieme ad una donna dell'Est su un pulmino mentre si sta preparando per cercare i clienti tra la periferia e l'asfalto.

La De Stefano (dove è stata finora? Chissà quante gemme attoriali sono nascoste e non vengono notate e non hanno possibilità di emergere né alcuna opportunità per mettersi in mostra né grandi palcoscenici dove mostrarsi?) è vulcanica, spaventosamente energica, potente e poderosa, straripante e calibrata, lontanissima da qualsiasi stereotipo; è tutto quello che il pubblico vorrebbe vedere ogni volta che varca la soglia del teatro: quell'eccessivo ma mai smodato, quella foga che trova il suo equilibrio nel talento, quella potenza che non fa sbandare ma trattiene tutte le particelle dell'atomo, quella tensione che non cede, quel tremore che fa gridare gli occhi, quell'esaltazione difficile da contenere, quel brivido che non diventa mai manieristico. Il suo stare in scena ci ha ricordato DSC3962-scaled.jpgl'altrettanto abbagliante “Sei”, di Roberto Latini, con il clamoroso e stupefacente Piergiuseppe Di Tanno, anche lui fulmine a ciel sereno. Viene in mente l'iconica scena di “Tutto su mia madre” quando la telecamera si sposta dal campo, dove le prostitute attendono tra i fuochi dei bidoni, e si apre l'immagine sulla vallata, sulla distesa di luci di Barcellona mentre parte la devastante e straziante e dilaniante “Tajabone” con l'armonica a bocca che farebbe piangere anche un nazista.

Questa DSC4249-scaled.jpgKassandra (una sorta di “Pretty woman”, in stivaloni e latex), nel suo “bad english”, racconta la sua storia, ricordando Ecuba e Andromaca, Paride e Achille, Menelao e Patroclo: è un'amazzone giunonica lanciata in una esibizione fascinosa e affascinante, accattivante , accecante; parla in inglese, in francese, in greco antico, suona il piano, canta meravigliosamente. Adesso ci riferisce di Elena e Clitennestra, di Medea o Antigone. L'attrice è un'artista totale che catalizza ogni sguardo, anche in una tuta adamitica da catwoman, è eccezionale, straordinariamente in forma, confezionando un vero e proprio dj set, un concerto techno-house, per una prova di stampo europeo (ci ha ricordato le messinscene di Jan Lauwers), un'interpretazione “berlinese” graffiante e ironica, profonda, tragica ed eccentrica, gigantesca, illuminante, straordinaria (ovvero oltre l'ordinario al quale siamo abituati), super, dimostrando una maturità e una consapevolezza lirica e debordante, dolorosa (come Gabriella Ferri) e generosa, versatile, un fuoco che travolge come una valanga, un turbinio carnale, una slavina sanguigna che sconvolge. Un frullatore di emozioni ci trascina, ci investe, ci rovescia, ci abbatte. “Kassandra” è rara potenza aulica e poesia delicata urbana, gratta come smog in gola, scartavetra come guance sul cemento.

Tommaso Chimenti 14/05/2022

NAPOLI – Guardi la scena e ti senti pericolosamente avvinto, avvinghiato da profumi decadenti, da un odore di fiori marci e cromature alla David Lachapelle, in un miscuglio tra l'erotico e il cimiteriale, in un afflato caldo e vulcanico, incandescente e dannunziano. In queste coloriture che si spandono, in questa atmosfera demodé, in questo respiro melò che traspira e trascende, i Vucciria espongono la loro cifra, sempre più dolorosi e caravaggeschi, in quel solco tra il dramma e la sensualità, tra lo strazio e la passione dove protagonista è il senso di colpa intriso di tormento, trasporto ed emozione. Un gazebo centrale, che ricorda il piedistallo delle danzatrici di carillon, e attorniato da manichini, ci fa cadere in preda alle percezione più estreme: il loro è sempre più un teatro sensoriale; sembra di sentire i rasi e le sete sotto i polpastrelli, sembra di sentire nelle narici i profumi pesanti o le colonie, sembra di vedere il giallo dei campi di grano povero, sembra di sentire il sudore dei corpi. Un teatro tattile e immaginifico, che ti porta altrove con l'aroma di incenso sparso, con i mandarini a spruzzare l'ambiente di quell'acido rurale, così fresco così pungente.

116-immacolata.jpgI Vucciria sono lavici: nelle loro rappresentazioni eros e thanatos si inseguono, vanno a braccetto, si confondono, si cercano per poi, finalmente, morire l'uno tra le braccia dell'altro, sovrapponendosi, perdendosi l'uno nell'altro in un amplesso caustico e definitivo. Come se le rime aspre di Rimbaud incontrassero l'Urlo di Munch, come se il dandy che albergava dentro Oscar Wilde ballasse con le facce cancellate di Francis Bacon, come se l'abbraccio di Rilke finisse la sua corsa nelle paludi lagunari veneziane di Thomas Mann. Come frullare i Ricci/Forte con Emma Dante e Annibale Ruccello. Teatrali nel senso più alto del termine, il gusto barocco dei Vucciria mette al centro la carnalità (la materia umana, i suoi bisogni e desideri) così come un forte senso estetico (ricordando certe ambientazioni prettamente “siciliane” di Dolce & Gabbana o altre “spagnoleggianti” aldomovariane). Carne tremula e sopraffazione in questo “Immacolata Concezione” (vincitore dei Teatri dei Sacro; visto al ridotto del Teatro Bellini, che lo produce). Ti frugano dentro, ti mettono con le spalle al muro, ti obbligano a guardare il mondo con prospettive diverse in un'altalena di sensazioni che oscillano e fibrillano, che spostano e confondono: la violenza sta insieme ai sorrisi, il piacere convive con il predominio, gli uomini scambiati con le bestie in un magma inscindibile dove la morale si deve fare da parte e il contesto sopravvive solo all'interno di regole primordiali, arcaiche, primitive, ancestrali, animalesche.

Una ragazza (entra in scena nuda Federica Carruba Toscano) permutata dal padre con alcune capre, una ragazza ingenua, solare, pulita, talmente cristallina da diventare vittima di un sistema dal quale però non sente di essere aggredita ma che, attraverso la sua gentilezza e amore e grazia, riesce a trasformare in dolcezza e pace. Una prostituta di bordello che non sa di esserlo e che soprattutto rimane miracolosamente vergine dopo gli innumerevoli incontri con tutti gli uomini del paese, un piccolo borgo polveroso dove tra i clienti in fila, come da favola urbana deandreiana che si rispetti, non possono mancare né il prete né il boss del circondario, il potere spirituale e quello terreno. Concetta, questo il suo nome, emana una luce limpida, propaga un'armonia che riequilibra l'odio e la rabbia, rasserena, calma, addolcisce; con lei gli uomini parlano o si fanno abbracciare, addirittura piangono, abbandonano la loro parte aggressiva e tornano ad essere bambini bisognosi di una carezza, del contatto fisico che quel mondo rude e disperato ha estirpato dai 53825949_2381716232058553_6338901429977088000_o-1024x684.jpgpossibili desideri.

In quest'affresco caleidoscopico di toni tenui e azioni gravi, ecco Anna la maitresse tenitrice della casa chiusa (Joele Anastasi en travestì, anche drammaturgo), Don Saro il rais del quartiere (Enrico Sortino solido e convincente) ed altre figure (che impersonano Ivano Picciallo e Alessandro Lui) in un tourbillon di piccole coreografie che si trasforma in coro tra percussioni e ventagli, oppure corse e vestaglie in una musicalità che tutto riempie, dove importanti emergono la ritmica e il timbro del movimento intessuto con le luci, le parole, ora scarne adesso pennellate, intrecciate con le melodie e le arie, le sonorità degli oggetti, i fischi e i giornali svolazzanti, in un continuo vorticare attorno a questo giardino d'inverno (quasi un peep show di Amsterdam) o un piccolo palcoscenico dove si sale per tornare ad essere diversi, dove si entra per cercare quella felicità lontana nel tempo, dentro il quale ci si fa volentieri fagocitare per ritrovare quel Paradise Lost che si è frantumato crescendo.

Concetta è una Circe benefica e benevola, una Santa (una sorta di Penelope Cruz nel ruolo di Italia in “Non ti muovere”), una sirena di fotoImmacolataConcezione_©ES18-1.jpgUlisse che circuisce i maschi solo per perdonarli delle loro miserie e dolori e mestizie. Questa ragazza che ha portato l'armonia, porta anche la guerra nel piccolo centro, conflitto scaturito dalla gravidanza (a seguito di uno stupro fuori dal bordello mentre era ubriaca, violenza che perdonerà amando l'autore del gesto, Turi, che diventerà suo compagno) della giovane (come fosse la Vergine Maria) che il malavitoso vuole far concludere con un aborto o con l'uccisione del bambino (come Erode). Il racconto della vicenda, intervallato con la leggenda di Colapesce, ci mostra l'involuzione degli uomini che, sacrificando come agnello pasquale la vita piena di celestiale grazia della giovane, tornano ad essere animali, perdono la loro umanità, si trasformano in capre con il campanaccio al collo (come tanti ciuchini nel Paese dei Balocchi o come, appunto, i maiali di Circe), tornano ad essere manichini governati dall'istinto, tornano ad essere le scimmie di “2001 Odissea nello spazio”. Come se questi uomini non avessero riconosciuto in lei quella forza alta e sovrannaturale, divina e salvifica, come il popolo ebraico non ha riconosciuto Gesù crocifiggendolo al pari dei due ladri.

Tommaso Chimenti 12/05/2022

TUNISI - Si svolgerà a Tunisi il prologo dell'edizione 2022 del Fortissimo Festival con la direzione artistica del Maestro Filippo Arlia e del Maestro Achref Bettibi. Un' assaggio musicale dedicato ai giovani talenti, in attesa della famosa manifestazione musicale, il Fortissimo Festival che quest'anno non si terrà come di consueto in Calabria ma avrà luogo nel mese di settembre presso l'anfiteatro romano di El Jem in Tunisia.
L’anticipazione “Notti prima del Fortissimo Festival”, incentrata proprio sui giovani artisti come “vero motore di una società moderna e all’avanguardia”, sarà in scena a Tunisi, in varie prestigiose sedi della città, dal 18 al 21 maggio, grazie all’organizzazione del calabrese Conservatorio di Musica Tchaikovsky, diretto da Filippo Arlia (classe 1989, è il più giovane direttore di conservatorio italiano), e alla preziosa collaborazione di IIC di Tunisi - Istituto Italiano di Cultura, il Conservatorio di Musica di Ben Arous e Association Les Solistes diretti da Achref Bettibi.Filippo_Arlia e Cesare Chiacchiaretta - Duettango.JPG
Una collaborazione attiva quella tra i due conservatori che già nel 2021 ha portato alla realizzazione di corsi di formazione indirizzati a giovani maestri d’orchestra, clarinettisti e sassofonisti; un’operazione culturale che ha aperto le porte di un nuovo progetto d’integrazione sociale e musicale sul Mediterraneo. Sarà quindi il confronto tra le due culture musicali e la contaminazione culturale come valore aggiunto e fondante delle nuove società a fare da perno e fil rouge alle quattro serate di questo prezioso prologo.
Il cartellone spazierà dalla musica classica a quella popolare, dal jazz e il tango di Astor Piazzolla, alla lirica con l’omaggio dei giovani cantanti tunisini ai cento anni di Renata Tebaldi.
La rassegna inizierà il 18 maggio presso la sala concerti ISM di Tunisi con "Momenti musicali" dove si esibiranno insieme gli studenti del Consevatorio Tchaikovsky di Catanzaro e quelli del Conservatorio di Musica di Ben Arous di Tunisi, con originali perfomance al pianoforte. I musicisti coinvolti saranno Daniele Di Maria, Maria Scalzo, Jovanny Pandolfo, Francesco Guida, Islem Ben Hamida, Ilef Hiba Matar, Mohamed Mimouni, Haroun Karoui. A seguire, sarà la volta del gruppo da camera Asir Piano Trio con Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, al pianoforte, e Giuseppe Laino al trombone.
Si prosegue il 19 maggio presso 4EME Teatro d'Arte con "Mediterraneo in Armonia", un progetto di musica popolare con L'Orchestra Les Solistes arlia foto web.jpgde Megrine diretti da Achref Bettibi, con Alessandro Gaudio alla fisarmonica diatonica. A seguire il Trio arabo con Malek Hamzaoui al kanoun, Youssef Badri al piano, Iskander Ben Amou alle percussioni.
Il 20 maggio il programma si sposta al Teatro Municipale di Tunisi con "Atmosfere di Opere di tango": il "Duettango" con Filippo Arlia al piano e Cesare Chiachiaretta al bandoneon, in apertura, e, a seguire, i giovani cantanti del conservatorio tunisino si esibiranno in un omaggio ai cento anni di Renata Tebaldi, la cantante lirica più amata di tutti i tempi. Si esibiranno Adriana Grekova, Ichraf Salem, Amra Loubiri, Wajih Bejaoui, Mohamed Ammine Bouhel, Ryma Turki, Ilef Hamdi, Ghenwa Krifa, Mahmoud Turki, Narimene Bouchalghuma; al pianoforte Roberto Ficarra Nico Fuscaldo, Filippo Garruba.
Per l’ultima serata, il 21 maggio presso 4EME Teatro d'Arte, andrà in scena il “Gran Galà Classico”, con l’Orchestra Les Solistes De Megrine diretta da Achref Bettibi e Chada Abidi con Adriana Grkova mezzo soprano e al pianoforte Todor Petrov, Roberta Ficara, Nico Fuscaldo, Filippo Garruba, Farh Ben Youssef, Hiba Kraiem, Chaima Ajailia.

Un prologo aperto, quindi, ai vari linguaggi musicali e alle diverse generazioni di interpreti e musicisti che ben rispecchia e rafforza sia l’anima del festival che quella del suo direttore, Filippo Arlia, che seppur giovanissimo vanta un curriculum di altissimo livello, la direzione di numerosi festival e programmi di spettacolo organizzati in collaborazione con il Conservatorio – come la Stagione Sinfonia al Teatro Politeama di Catanzaro, Festival del Mediterraneo, Mediterraneo Radio Festival – e una visione futura della cultura della propria regione e non solo alta e condivisibile: “il mio sogno personale – ha commentato lo stesso Arlia – è senza dubbio un’orchestra stabile per la mia regione, la Calabria, perché è l’unica regione italiana non avere una Istituzione Concertistica Orchestrale, oltre che a non avere un Teatro Stabile; questo purtroppo è un problema che affligge la nostra terra e che costringe spesso i giovani artisti ad emigrare. La nascita di un’orchestra filarmonica stabile e di un teatro per la Calabria rappresenterebbe la diffusione di una cultura innovativa e imprenditoriale che crea lavoro e investe sulle proprie maestranze, altamente specializzate nella cinematografia, nel design artistico, nella realizzazione di spettacoli sinfonici e di teatro musicale. Un’occasione per incentivare nuove piattaforme occupazionali attraverso la costituzione di un’orchestra stabile, composta da musicisti calabresi che tramandino l’opera lirica conosciuta e apprezzata in tutto il mondo”.

Tommaso Chimenti 09/05/2022

Giovedì, 05 Maggio 2022 12:46

La Classe di Garella non è morta

BOLOGNA – La differenza salta agli occhi, diceva un De Gregori che discettava tra il bisonte e la ferrovia. Ma il confronto tra “La classe morta” di Kantor e “La Classe” di Nanni Garella sta proprio in quella mancanza, in quell'assenza di quell'aggettivo pesante, ingombrante, assoluto. Sembra poco, un aggettivo, ma qui dà nuovo senso alle stesse parole, alle stesse azioni, dona speranza per una compagnia per metà composta da attori (sei) e per l'altra metà da componenti dell'Associazione Arte e Salute, pazienti del Dipartimento di salute Mentale di Bologna. Sulla scena la dozzina è ben calibrata e se ne perdono i confini in un equilibrio artistico e attoriale che li fa essere sullo stesso piano, senza sbavature, senza discordanze, scarti e difformità che l'arte e la recitazione e lo stare su un palco, dentro le parole La classe ph Stefano Triggiani (8).jpgkantoriane, ha azzerato. “Morta” è stato eliso perché recitare, nel piccolo e intimo e raccolto Teatro delle Moline (dove ERT mette in scena piccole produzioni nostrane di grande apertura e respiro, ruolo fondamentale di un Nazionale), è vita, rinascita, sorpresa, scoperta, nuova linfa.

Testo La classe ph Stefano Triggiani (9).jpgmigliore non poteva esserci per questa compagnia nata a fine millennio scorso. L'impianto è quello dell'originale del '75 del regista polacco (ma senza una figura che ne ricalchi la sua presenza in campo): banchi di scuola funerei che sembrano inginocchiatoi penitenti da chiesa ottusa e claustrofobica, abiti pece stinti e facce bianche cadaveriche per un'installazione umana che si anima dopo un torpore secolare, come un sogno che ricompare catartico, un ritornare alla vita passata, un incedere dentro le pieghe del tempo andato, un ripercorrere anni e traumi, in un loop che sa di rivincita, di riconquista, di contrappasso, di purificazione. Infatti le azioni sono reiterate e prendono vigore proprio dalla loro riproposizione continuativa, come un riflesso che si propaga cambiandone i contorni, rafforzandone il contenuto ad ogni mossa, ad ogni nuovo ciclo. La classe come microcosmo dell'esistenza con i soprusi, i maestri, i kapò, il potere che soverchia il popolo, le angherie, la massa che si fa caos; come una fisarmonica si riempie e si svuota. Adesso l'aula è sovraffollata perché ognuno degli attori ha in mano dei pupazzi, quasi a grandezza naturale, i loro doppi di quando erano ragazzi, giovani, bambini, si portano in giro, si coccolano come marionette e bambole, si accudiscono con dedizione e cura e delicatezza. Ognuno di noi dentro ha sempre il fanciullino che una volta è stato, compresi i traumi che ha vissuto, passato, subito.

E' nella ripetizione meccanica degli avvenimenti che si esalta e sublima il senso di questo limbo purgatoriale, le processioni vorticose attorno ai banchi sembrano una danza, una coreografia di dervisci la-classe-luca-sgamellotti-2_1000x0_79620d41ddda236ca32c486beca1c7f2.jpgche incanta, che trascina in un'altra dimensione, una spirale che spalanca le porte del tempo. Come le filastrocche e le canzoncine, quelle nenie cullanti e inquietanti che trascendono in un mondo parallelo, seppiato e offuscato, scolorito e immaterico. Ognuno con il suo alter ego deve sempre fare i conti, ogni personaggio colpisce violentemente il suo fantoccio, lo uccide, li accatastano in un angolo, in quella crescita che disconosce l'età fanciullesca, quell'adultità che vuole cancellare le origini, rinnegando il prima in cerca di un futuro vergine da conquistare. Senza il passato e la memoria, lo sappiamo, non può esserci un domani limpido.

E qui ilaclasse14.jpg bambolotti sostituiscono i vivi sulle panche, le loro essenze che non si sono mai allontanate da quell'atmosfera restrittiva (il messaggio politico allora era chiaro, nel nostro caso, all'opposto, forse il riferimento è all'infanzia inteso come tempo neutrale prima della consapevolezza e della malattia conclamata e certificata), che non sono mai riuscite definitivamente a staccarsi, sganciarsi da quella cupezza, da quel legno bruno. Questo manipolo di uomini e donne eterei e chapliniani, pittoreschi al limite dell'essere foloniani, fragili e vulnerabili, con i loro movimenti automatici istintivi quasi involontari pinocchieschi, oniricamente incastonati e relegati nel tempo paludato, asfittico e impantanato, esotericamente imprigionati e imbrigliati, fantasmi attanagliati nella maglie della clessidra potrebbero essere un coro greco di anime o parte di quelle manifestazioni di lamentazioni funebri pubbliche, prettamente del folclore del Sud Italia, le prefiche, che si sciolgono e dolgono rumorosamente e plasticamente in sceneggiate lacrimevoli, in pianti rituali strazianti, adombrandosi in lagnanti litanie angosciose e laceranti. Come se il tempo si fosse inceppato in una seduta spiritica, come un disco rotto con la puntina gracchiante arrugginita, a rievocare lo spirito di se stessi quando, forse, erano felici non sapendo di esserlo.

Tommaso Chimenti 05/05/2022

visto al Teatro delle Moline il 03/05/2022

Foto: Stefano Triggiani, Luca Sgamellotti

ROMA – “La scuola non è riempire un secchio, ma accendere un incendio” (William Butler Yeats).
La scuola forma e trasforma, la scuola ci cambia e ci rimane appiccicata addosso, la scuola è la porta verso il mondo adulto, la scuola è trauma o scoperta. A scuola impariamo i ruoli, le regole e il loro rispetto, l'autorità, lo studio e l'imparare ma anche le relazioni con i coetanei, le liti, le fazioni, gli amori, le amicizie che durano una vita. A scuola cresciamo, volenti o nolenti, non passiamo soltanto del tempo, diventiamo persone, ci appassioniamo, diventa il fulcro e il cardine delle giornate, le ansie e il sapere come affrontarle. Per questo la scuola rimane negli incubi e anche nei lucciconi delle foto di classe o nei ricordi delle gite scolastiche: “ditemi, chi non si è mai innamorato di quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu, che rideva sempre”, il primo magico Venditti ben fotografava quella sensazione sia in “Compagno di scuola” che in “Notte prima degli esami”, quello scoramento, quel trambusto tra libri ed ormoni, quel subbuglio esistenziale che la scuola connetteva, rimetteva in circolo, tentava di canalizzare cercando di aprire il pensiero, la mente, imparando a gestire emozioni e parole.La Classe foto gruppo.jpg

E “La classe” è l'iconico pezzo teatrale di Kantor come l'omonimo titolo di Fabiana Iacozzilli ma anche il recente di Nanni Garella. I Pink Floyd in “Another La-Classe-3-ok-Paolotti-Casadio-ph-Federico-Riva.jpgbrick in the wall” ipotizzavano la distruzione delle classi mentre deve aver avuto qualche problemino Caparezza: “Una classe di classici figli di, ho dubbi amletici tipici dei 16, essere o non essere patetici? Eh si, ho gli occhiali spessi, vedessi, amici che spesso mi chiamano Nessy, indefessi mi pressano come uno stencil, Bud Spencer e Terence Hill repressi”. E poi c'era “La scuola” di Daniele Luchetti, prima a teatro e poi sul grande schermo sempre con Silvio Orlando nei panni del professore. Ma anche Pinocchio parlava di scuola, così come “Io speriamo che me la cavo” e certamente non possiamo non citare “L'attimo fuggente” di poesia e brividi.

Ma i riferimenti che più crediamo si possano si avvicinare a questo “La Classe”, scritto da Vincenzo Manna, ormai un cult da diverse stagioni su piazza, per la regia di Giuseppe Marini e la coproduzione tra Società per Attori, Accademia Perduta e GoldenArt, possiamo trovarli in “Nemico di classe” di Nigel Williams (un'importante edizione fu quella che lanciò Gabriele Salvatores), e nelle pellicole “La classe” di François Bégaudeau, palma d'oro a Cannes nel 2008 e “L'Onda” di Dennis Gansel e in qualche modo anche il nostrano “Il rosso e il blu” (come i colori degli errori più o meno gravi da sottolineare) di Giuseppe Piccioni. Senza dimenticare due opere a firma di Stefano Massini: a teatro “L'ora di ricevimento”, al cinema “La prima pietra”.La-Classe-Andrea-Paolotti-Federico-Le-Pera-Claudio-Casadio_-ph-Tommaso-Le-Pera-scaled.jpg

Un professore e un manipolo di studenti “difficili” in un quartiere di frontiera oggetto di forte immigrazione e di tensioni razziali. Gli ingredienti per far saltare il banco ci sono tutti. Siamo dentro ad una polveriera con un cerino acceso in mano, siamo di fronte ad una pentola a pressione che singhiozza e sbuffa. La scuola, e questa classe particolare, come cartina di tornasole per quello che accade fuori, le tensioni sociali tra gli ultimi, la guerriglia quotidiana tra i ceti più poveri. In questa classe i ragazzi con delle insufficienze devono seguire dei corsi di recupero per poter essere promossi; ma sono bulli e arroganti, presuntuosi e provocatori, offensivi e altezzosi, non vogliono imparare niente ma solo avere il pezzo di carta finale per poi “fare quello che voglio”. L'evocativa scena, di Alessandro Chiti, dove a lavagna e cattedra e banchi e sedie, l'idea semplice ma geniale di un pavimento costellato da distese di fogli di carta strappati dai libri, la cultura calpestata, ben si sposa e si esalta grazie alle luci, di Javier Delle Monache, cangianti come sentimenti (e le musiche a timbrare i momenti di Paolo Coletta) che intessono il dramma che monta, riflettono gli umori che guerreggiano e cozzano sul campo di battaglia dell'aula.

Un La Classe - Casadio, Monno, Frullini, Marino, Paoletti.jpggiovane professore molto volenteroso, ancora vergine del sistema e ingenuo, (Andrea Paolotti robusto, ha polso e ben si muove tra le pieghe del testo) e un preside più scafato e disilluso (Claudio Casadio sempre presente, capace con quella sua imperturbabilità candida e quell'incedere autorevole anche in mezzo ai marosi) sono la parte civile e istituzionale della scuola con la quale i ragazzi focosi si scaldano e si accapigliano. Gli studenti sono rabbiosi, hanno alle spalle storie familiari devastate, solitudine, povertà, miseria, abbandono. La scuola però è anche un'ancora di salvezza, che i ragazzi non riconoscono fino in fondo però, rispetto allo “Zoo” (a Calais c'era la “Jungle”, a quella fa riferimento la drammaturgia) uno spazio franco dove sono ammassate migliaia di immigrati irregolari. La guerra dialettica che si scatena è tra i figli dei nullatenenti, marocchini, zingari, e i nuovi poveri ancora più agguerriti ed affamati. Il professore tenta con tutte le carte che ha a disposizione ad interessare i ragazzi non tanto allo studio quanto all'ascolto, all'apprendimento, all'impegno, alla passione per il gruppo e per i progetti collettivi. Ognuno dei ragazzi è fragile e solo e azzannano soltanto perché non sanno che gusto possono avere le carezze, e aggrediscono perché non sono mai stati abbracciati e urlano perché nessuno li ha mai ascoltati, non vogliono responsabilità perché non hanno autostima e quindi hanno paura di fallire anche se non lo ammetteranno mai. Il professore riuscirà nel suo intento, immettendo il germe che con l'impegno e unendo le forze si possono raggiungere dei risultati e delle soddisfazioni, riuscendo, forse, a salvarne qualcuno mentre qualcun altro rimarrà irriducibile e sarà la strada che gli darà lezioni ben peggiori di un compito o di una interrogazione. Tra le note leggermente non così accordate, la grande consapevolezza e il lessico dei ragazzi, soprattutto nella seconda trance dello spettacolo, studenti non proprio modello ma che dimostrano proprietà di linguaggio ai limiti del forbito, e la troppa carne al fuoco immessa nell'agorà: la scuola, l'immigrazione, fino all'Olocausto e allo stupro.

“Colui che apre una porta di una scuola, chiude una prigione” (Victor Hugo).

Tommaso Chimenti 28/04/2022

Foto di scena: Federico Riva e Tommaso Le Pera

FIRENZE – Ci hanno sempre stupito con le loro maschere che sembrano parlare, essere partecipi, emozionarsi, che prendono vita e sono in connessione e fusione con l'attore e in continua trasformazione emozionale pur essendo statiche, fisse e immobili. Ci hanno colpito in questi anni (a Firenze sono arrivati prima al Teatro di Rifredi poi al Teatro Verdi e infine al Teatro Puccini) per le loro storie trasognanti, cariche di umanità e poesia, sfavillanti giochi leggeri colmi di fantasie colorate e immaginazioni creative piene di pathos, allegria fanciullesca, corse spensierate, deliri beati e 189981.jpgquello sfavillante buonumore adolescenziale, quella festosità contagiosa, quell'esultanza eterea, quella felicità che si propagava dal palco alla platea. Il collettivo Familie Floz, cosmopoliti ma di base a Berlino, non sono gli unici nel panorama internazionale ad usare le maschere (in Italia ricordiamo Dispensa Barzotti, I Gordi, all'estero i Kulunka Teatro), ma lo fanno con un garbo che riconcilia, una grazia che placa e un'eleganza che rasserena. C'è una gioia dilagante nelle loro storie di vicinanza, narrazioni fumettistiche semplici di piccole sventure quotidiane dei loro personaggi antieroi senza mai dimenticare l'aspetto sociale. La loro cifra stilistica sono certamente le maschere create artigianalmente e la simbioticità tra il corpo dell'attore e il travestimento facciale di gomma. Tra le loro produzioni abbiamo assistito nel tempo a “Ristorante immortale”, “Teatro Delusio”, “Infinita”, “Hotel Paradiso”, “Garage D'Or”, “Haydi!”, “Dr Nest”.

E1624446369_dsc07596_c_simonwachterklein-scaled.jpg l'ultima novità “Feste” non fa eccezione in quanto a leggiadria, commozione, poeticità, armonia. Stavolta la storia di fondo, sul quale intreccio drammaturgico si appoggiano le loro figure immateriali e incorporee, risulta essere molto complessa con passaggi che rimangono sospesi e molti punti oscuri. Ma si dirà: non è quello l'importante, conta il sogno. Anche se rimangono criptici e annebbiati soprattutto gli scarti e i salti temporali. E allora immergiamoci in questa festa di matrimonio ma specialmente, come piace fare alla Floz, mettere l'occhio e il naso nel dietro le quinte, in tutto quel che si muove per far funzionare la macchina, nelle pieghe delle maestranze, di chi lavora alacremente per far sì che la facciata e la forma sia perfetta, chi si impegna per oliare i meccanismi e gli ingranaggi per rendere la complessità semplice e le difficoltà facili. E dietro un matrimonio che deve andare in porto ci sono i wedding planner e i segretari, i cuochi e i camerieri.

E' l'animo dei berlinesi quello di cercare di valorizzare il grande sacrificio di tutti coloro che permettono che le cose accadano e che vadano FESTE_couple©SimonWachter-1568x1046.jpega gonfie vele. Nel cortile (ci è venuto in mente l'omonima piece di Scimone a Sframeli) di una villa c'è grande fibrillazione per lo sposalizio di una giovane ereditiera. Lo chef è impaziente e i camerieri sbadati non fanno altro che far aumentare i sacchi della spazzatura nell'atrio dove si “scontrano” un custode anziano scansafatiche nel suo gabbiotto che detiene il potere di avere le chiavi del cancello d'entrata e la donna delle pulizie volenterosa giunonica amazzone sempre disposta a guerreggiare e rivaleggiare con lui. Accanto ai due il wedding manager professionista incravattato indaffarato e nevrotico e la segretaria pignola e compunta, la sposa dubbiosa, lo sposo ubriaco, gli amici dello sposo maldestri e alticci, il padre della sposa ricco e arrogante (forse un boss della malavita organizzata) che arriva sfrontato in elicottero (e fa arrivare un cocchio con i cavalli per portare la figlia all'altare: qui potrebbe venirci in mente il celebre funerale dei Casamonica), fino ad una giovane homeless incinta che si rifugia tra i bidoni della spazzatura. La musica è troppo sottolineante dei momenti nei quali ci dovrebbe essere empatia e partecipazione. Arrivano anche il postino di Amazon e il trasportatore che ascolta l'heavy metal.

Il mondo feste-2.jpegdei benestanti si scontra con quello dei lavoratori e già sappiamo da che parte stanno i Floz rendendoci, i primi, rammolliti e viziati e presuntuosi e i secondi capaci di cavarsela in qualsiasi situazione, senza lamentarsi, furbetti e distratti, forse negligenti, irresponsabili ma mai disonesti. Pensare che tutti i personaggi che abbiamo qui sopra elencato sono interpretati da soltanto tre attori, mimi e performer straordinari. Ci siamo poi lanciati in un gioco di somiglianze: il cameriere stempiato potrebbe ricordare Pippo Franco, mentre la segretaria puntigliosa e perfezionista è sosia di Linda Hunt, attrice hollywoodiana Premio Oscar, il portinaio potrebbe essere Antonello Fassari, il manager Pippo Baudo, la sposa Miriam Leone, il maestro di danze il Ministro Brunetta, lo sposo poteva essere Rupert Grint l'interprete di Ron Weasley, l'amico di Harry Potter, un amico dello sposo un mix tra Mentana e Gheddafi, il cuoco Gad Lerner e la donna della pulizie la Vanoni. Detto tutto questo, sembrerebbe però che il tocco dei Floz sia leggermente appannato e spesso la ricerca della risata o della commozione oscuri la trama.

Tommaso Chimenti 11/04/2022

MILANO – “Tu vuoi l'America, che sta al di là del mare, tu vuoi l'America, che io non ti posso dare” (Edoardo Bennato). L'idea del regista Francesco Leschiera e del suo Teatro del Simposio è ambiziosa: indagare tre mostri sacri della letteratura americana attraverso drammaturgie originali scaturite da un mix tra le biografie dei personaggi e i loro capolavori. Se tre anni fa esatti debuttavano con il primo step della Trilogia su Carver (qui la recensione di “Ray. Con tutta quell'acqua a due passi da casa”: https://www.recensito.net/teatro/american-dream-ray-carver-francesco-leschiera.html), il secondo capitolo è stato incentrato su Tennessee Williams mentre il terzo sarà su Truman Capote. Sullo sfondo gli anni '60 con alcune particolarità da sottolineare che fanno da comune denominatore delle tre messinscene: la scenografia sarà la stessa (un tavolo e poche sedie e una madia) come a dire che l'humus culturale, storico, economico sia lo stesso, tre saranno sempre i personaggi in scena, e sempre saranno presenti alcool e fumo. Con queste linee di demarcazione, con questo recinto strutturale e concettuale, sia per quanto riguarda il trattamento su Carver sia questo su Tennessee Williams, “Whisky Circus”, scritto da Zeno Piovesan (visto al Teatro Linguaggi Creativi vicino ai navigli milanesi), possiamo affermare che centrale sia questa grande sofferenza e disillusione, una tristezza che si trascina, un baratro che si spalanca sempre più sotto i piedi, nessuna via di fuga, 

6461.jpgnessuna alternativa né strada parallela da percorrere o intraprendere e l'abisso che si avvicina a grandi falcate senza che nessuno dei protagonisti abbia la forza e l'energia, l'entusiasmo, il desiderio di scansare il precipizio ma anzi, vittimisticamente, ricercano la sconfitta, la caduta senza possibilità di potersi rialzare.

Qui, in un disegno di dramma domestico quasi da cabaret o da varietà con le lucine accese sul boccascena, siamo all'interno di un Luna Park stralunato, di un Circo tragico e ambiguo composto da un solo numero in una piccola stanza di un appartamento. Uno zio (Ettore Distasio sul palco è enigmatico e sobillatore), che ha i tratti dell'incestuoso e del padre padrone, che potrebbe essere simbolicamente lo Zio Sam, l'America stessa con cappello e divisa a stelle e strisce, un'America che illude ed esalta, che stritola e corrompe, che svuota, che possiede, che usa e sfrutta, che spolpa con le sue false abbaglianti bagliori e fulgori che camuffano e trasformano la realtà, uno Zio Sam che ti liscia con le sue bugie fino a farti capitolare, che ti convince come un serpente a sonagli fino a portarti nella sua tela e rete, che ti manipola anaffettivamente fin quando non ti ha depredato di tutti i tuoi averi e valori, fin quando non ti ha derubricato a cosa, ad oggetto da muovere a proprio piacimento. In questa sorta di boudoir di quart'ordine, sciatto e squallido, sporco e unto, viscido e maleodorante dove è il disagio ad essere il vero prim'attore, una ragazza, una contorsionista ormai però annebbiata dall'alcool e depressa e senza più volontà, incontra, con il placet dell'esattore zio che le procaccia i clienti come ruffiano e pappone, clienti che pagano per restare soli con lei, per assistere ad un numero che non esiste più.

La Sogno-americano--678x381.jpeggiovane (Greta Asia Di Vara ha innocenza e oscurità) è l'unica superstite dei freaks di questo mirabolante e fantomatico circo viaggiante, quest'epoca dorata (che forse non è mai esistita) della quale si vanaglorifica lo zio intrallazzone e affarista senza scrupoli. Sono personaggi fragili e indifesi, ognuno dipendente dall'altro. La ragazzina ha addosso lo strazio e il tormento dei volti femminili di Vermeer, ha tatuato nell'anima il fallimento, ha abbracciato la perdita, ha sposato il progetto dello smacco perenne e imperituro, si è votata al tracollo. Vive rannicchiata in un cubo di vetro (anche questa immagine potente di alto simbolismo) rassegnata come un rettile in una teca aspettando che la tirino fuori per l'esibizione desolata e misera della sera, una campana di cristallo che finge di proteggerla dai mali dell'esterno ma che anzi, al contrario, la fa essere carne da macello in mostra, in vetrina al miglior offerente, esposta alla mercé come oggetto in prestito, affittabile, cosa, prodotto da poter utilizzare. E' sempre impaurita e titubante, spesso ubriaca in preda alle sue ansie e frustrazioni come alle sue convinzioni che, in perfetta linea con la Sindrome di Stoccolma, la fanno parteggiare per lo zio sfruttatore, irradia attorno a sé la sua aria mesta, la sua cappa lenta di disfatta, lei che è “il contrario di un angelo”, che è “un pugile all'angolo”, che “vive dentro una prigione”, che “per un ti amo mischierebbe droghe e lacrime” ma che non sa più che cosa sono i “brividi” immersa nell'abbandono e nella desolazione quotidiana in questo mare di schifo che fa male solo a pensarlo, che ferisce al solo annusarlo.

Nell'incastro patologico tra lo Zio e la nipote entra ad interrompere il rapporto, fatto di violenze e sopraffazioni come di 6461_5.pngminacce e intimidazioni psicologiche, il Cliente (Mauro Negri haberiano) che paga e che, come nelle migliori tradizioni, la vuole “salvare” e portare via da tutto quell'ammasso di ribrezzo, sporcizia, indecenza e disgusto che ti si attacca alla pelle come grasso indelebile. I due uomini contrattano sulla pelle della ragazza, come fosse una merce da poter comprare o vendere a seconda del punto di vista. Manca l'amore e il rispetto. Quasi si percepisce l'odore di quella povertà che prima di essere economica è interiore. L'atmosfera sa di polvere e disfacimento e sembra uscire direttamente dalle pagine dello “Zoo di vetro” come da i “Blues”. Sono strazianti e devastanti questi spettri marciti nel senso di colpa, contaminati dal non avere un futuro da sognare, impantanati e infangati in questo “Sogno Americano”, il titolo della trilogia di Leschiera e compagni, che si fa sempre più incubo urlante, affannoso e opprimente, in questa discesa agli inferi, in questa schianto e tonfo sordo nel tunnel nero della perdita dell'autostima, nella vergogna, nello sfruttamento. Sono tre facce di una stessa medaglia, derelitti, affranti con aspirazioni azzerate, con ambizioni svilite, conigli sacrificali sull'altare dei soldi.

“E in faccia ai maligni e ai superbi il mio nome scintillerà, e dalle porte della notte il giorno si bloccherà. Un applauso del pubblico pagante lo sottolineerà e dalla bocca del cannone una canzone suonerà” (Francesco De Gregori).

Tommaso Chimenti 09/04/2022

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