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SPOLETO - “Com’è difficile restare padre quando i figli crescono e le mamme imbiancano” (Franco Battiato, “Bandiera bianca”).
Cibo e teatro, incontro millenario, convivio che macera da sempre sotto la cenere. Panem et circenses dicevano al Colosseo. Una vicinanza mai scordata (anche se i pop corn del cinema o le caramelle scartate in un teatro all'italiana disturbano) che la rassegna Eat (Enogastronomia a Teatro organizzato da Andrea Castellani e Anna Setteposte) ha riportato in vita con una serie di performance legate al cibo e all'alta scuola culinaria. In quest'ottica (cenare a teatro è sempre un lusso) non potevano mancare le Ariette, il duo emiliano che da anni propongono una narrazione basata sulla loro vita di campagna e dove si mangiano soltanto prodotti della loro terra e personalmente seminati, coltivati e raccolti. E in questo cartellone si è inserito benissimo anche Alessandro Sesti, direttore insieme a Marco Andreoli del festival di teatro contemporaneo “Strabismi” (all'interno del quale assegnano anche il prestigioso “Premio SceMario”), con il suo “Nato cinghiale”. In questi anni Sesti, che è anche direttore del Museo di Cannara, ha realizzato varie pièce, da “Ionica”, storia di un testimone di giustizia, a “L'origine dell'eroe”, da “Luca 4,24” incrocio tra parola e danza, a “House we left” sul tema dei transessuali in carcere, fino a “Eclissi” lavoro sull'alzheimer. “Il padre contemporaneo, che non è più colui che sa cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma è colui che accompagna il figlio anche nell’esperienza del fallimento”, proclama Massimo Recalcati.08b282bed88832c9197a25b1ea22b623_XL.jpg
Mentre la pentola sobbolle, e le spezie si spandono tra i palchetti e gli stucchi del teatro Caio Melisso, inizia a fluire il suo autobiografico excursus familiare, i contrasti con il padre, i dissidi della crescita verso il genitore, i piccoli faticosi gradini utili per diventare grandi. Ci si immerge in questo fiume di parole, in questa parabola catartica di avvicinamento e allontanamento, di attrazione e repulsione, un racconto acre e intimo e caldo che ci riporta all'infanzia malinconica e a quel confine labile tra l'essere figlio e il diventare adulto, cercando disperatamente chi siamo e un nostro piccolo posto nel mondo abbattendo i simboli e i feticci iconici familiari. Impossibile rimanerne impassibili perché l'andamento è altamente commovente e universale, è un riconoscersi in certe dinamiche che hanno segnato i passaggi delle età, le frontiere tra ciò che nostalgicamente eravamo rispetto a quello che gravosamente, con le mille piccole battaglie quotidiane che abbiamo affrontato, siamo riusciti a diventare. Il cinghiale è il tramite tra un padre cacciatore, orgoglioso di quel folclore e di quel rito condiviso, di quella passione che è vicinanza e amicizia ma anche segno distintivo di una cultura, di una regione, di un certo modo di stare al mondo (lontano dalla violenza barbara), e un figlio che cresce in un mondo contemporaneo che certe cose se le è sempre trovate in tavola ma che 154440082-daa92a31-11f7-424a-bc2f-3023872e6235.jpgipocritamente aborra metodi sanguinari e dall'altra rifiuta a prescindere le tradizioni casalinghe, che ritiene provinciali, perché proiettato verso la tecnologia, verso mete lontane. Bisogna sempre ricordarsi da dove veniamo e avere ben chiaro il percorso, la trama, le strade tortuose della nostra esistenza senza reprimere, senza affossare, senza disconoscere pezzi del nostro dna profondo. In sottofondo, dentro, ci risuona “Father and son” di Cat Stevens. “Ho solo due cose da lasciarti in eredità, figlio mio, e si tratta di radici e ali” elargiva William Hodding Carter.
“Non è uno spettacolo, è una confessione”, attacca Sesti nel suo incedere tra il compassato e l'appassionato, la voce profonda accompagnato dalla musica di Debora Contini (ukulele e clarinetto). E' un affresco sull'Umbria, la loro regione d'origine, ma se vogliamo sull'Italia, su quel piccolo mondo antico che i giovani disprezzano per poi riaccoglierlo in età più matura. E' il circolo della vita il considerare vecchio e sorpassato tutto quello che ti circonda per demonizzarlo e cassarlo per poi scoprire, con il tempo, che non tutto era da buttare. Il cinghiale (dalla pandemia in avanti le immagini dei cinghiali che scorrazzano in città o dormono sugli zerbini sono quotidiane e ormai diventate un classico) è la terra, è il bosco, è la natura, è quasi un Dio che si fa carne per gli uomini, un Dio che sfugge al controllo e si nasconde tra rovi e arbusti, un Dio pericoloso e potente, compatto con il pelo irto che grugnisce e carica, che non ha paura di morire per difendere la propria vita e quella del suo clan. Andare a caccia del cinghiale è una sorta di corrida, un uomo solo, con soltanto un fucile, in un habitat che non gli appartiene, cercando di abbattere la bestia che sta dentro di lui come in uno specchio. I rimbombi esplodono in teatro e il respiro dell'animale braccato sembra di sentirlo ad un passo da noi, ansimante e impaurito. Successivamente cucinare e preparare quella carne che si è personalmente cacciata chiude il cerchio della vita, con il giusto rispetto che si deve per ogni essere vivente.
Ma questo è un confronto, anche aspro, tra padre e figlio, un padre con il fucile in mano (senza essere guerrafondaio) e un figlio che per distinguersi (“Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati” diceva Brecht), per creare un solco caustico e nato-cinghiale_2022_08_22T12_08_18_440848_detail_box.jpguna barriera invalicabile con il proprio genitore sceglie di diventare vegetariano. In questo caso non è solo una scelta di vita consapevole ma un gesto forte contro qualcun altro, un atteggiamento in antitesi, non propositivo ma un'ascia di guerra dissepolta, un chiaro messaggio luminoso per dire a gran voce e ribadire con puntiglio: “Io non sono come te!”. Si scontrano due mondi, uno ruspante e terreno, l'altro fatto di discoteche e surgelati, un mondo di fango e bossoli e un altro di musica alta e luci sparate. Sesti, grande affabulatore che tiene le redini della platea mentre le assi del teatro scrocchiano e i calici tintinnano, ci porta dentro la sua famiglia, aprendosi senza pudori di forma o maniera, senza i filtri del romanzato mettendo uno davanti all'altro due popoli della notte che si muovono “con il favore delle tenebre”, da una parte i cacciatori, dall'altra chi rientra dalla discoteca o dai locali della movida con il gomito alzato. “I cattivi padri sono quelli che hanno dimenticato gli errori della loro giovinezza” (Denis Diderot).
Il pubblico è la preda di Sesti, il pubblico poi diventa la squadra di caccia del padre (Patrizio) dello stesso autore quando ci si immerge nella fitta boscaglia dantesca per stanare la belva furiosa. La guerra dei mondi. Due universi che non possono coesistere: infatti tra il padre e il figlio dalle litigate si passa presto all'indifferenza fino a diventare due perfetti sconosciuti. Poi si cresce e al posto delle battaglie abbiamo bisogno di condivisione e vicinanza, di sentirci parte di un tutto e allora Alessandro si scopre non così diverso da Patrizio e tutte le dissonanze sottolineate in precedenza forse erano state acuite e aumentate ed esagerate dall'impazienza e dall'insoddisfazione di non sapere ancora chi si è; il padre che è “generoso e schivo e burbero” proprio come dice la didascalia del segno zodiacale cinese del cinghiale, il padre che è un “padellatore” ovvero uno che sbaglia il bersaglio e manca (volontariamente?) le prede. E allora il figlio riequilibra la propria rabbia, scende a patti con il ciclo della vita, perdona e chiede perdono, cerca un abbraccio, cercano di capirsi questi due mondi che sembrano così lontani (“So far, so close”), l'attore che adesso cucina il cinghiale, ma che non caccerà mai, e l'operaio cacciatore. “Nato cinghiale” è un guardarsi dentro, è un affacciarsi sull'abisso, è un avere paura delle radici per infine apprezzarle e respirarle, capire chi siamo, capire che veniamo dalla terra rispettando quegli esseri viventi che diventano cibo per la nostra tavola. “Un uomo sa quando sta diventando vecchio perché comincia ad assomigliare a suo padre”, sussurrava Gabriel García Márquez.

Tommaso Chimenti 27/11/2022

ROMA – “Enjoy the silence”, cantavano i Depeche Mode, anche se qui, in questa storiaccia non soltanto romana, c'è poco da godere. Perché Agostino Di Bartolomei non era soltanto un giocatore e non era solo un calciatore della Roma, era un patrimonio del calcio e dell'Italia ma, ampliando lo sguardo e il respiro, un patrimonio delle brave persone, di quelle sensibili, di quelle schive e introverse, parole che oggi suonano quasi come offese perché dobbiamo essere tutti iperesposti, sovradimensionati, esageratamente, in foto, nei video, nelle pose sparate. Agostino era un Ago-Capitano-Silenzioso-Agostino-Di-Bartolomei.jpgragazzo cresciuto a Roma, un ragazzo di quartiere che però crescendo, accanto al pallone, si era appassionato di libri e di arte e che apriva bocca se aveva qualcosa di intelligente da dire, altrimenti se ne restava volentieri in silenzio. “Il silenzio è una discussione portata avanti con altri mezzi”, battagliava Che Guevara. Ecco il perno di tutto lo spettacolo di Ariele Vincenti, convincente e solido come sempre proprio perché racconta soltanto quello che gli appartiene e ciò che gli si muove attorno, accanto, dentro. Ariele (ha nel nome il germe del teatro, Ariel come il personaggio de “La Tempesta” shakespeariana), con la maglia targata Barilla dell'epoca, è uno vero, sincero, onesto con i propri valori e con il suo pubblico che è popolare e fatto non tanto di addetti ai lavori ma di gente comune che si appassiona alle sue storie e ne riconosce il marchio di genuinità, con trasporto, entusiasmo.

Questo suo “Ago. Capitano coraggioso” (visto al Teatro di Villa Lazzaroni), dedicato alla memoria e a ricordare quel numero 10 giallorosso mai scordato e dalla fine così tragica, fortunatamente non ha replicato soltanto a Roma e nel Lazio (in un verace romanesco, ma comprensibilissimo) ma delle sue, per adesso, quaranta repliche molte sono state messe in scena fuori dai confini regionali, e questo ha dato una grande ariele vincenti 1-2.jpgdignità al lavoro che non si è chiuso in steccati faziosi di colori calcistici o in stupidi recinti linguistici o dialettali o ancora in reticolati provinciali. Si racconta la storia di un uomo, non di un calciatore. Un uomo che aveva coronato il suo sogno di giocare a calcio e di farlo per quella maglia che, fin da piccolo, aveva agognato, idolatrato, sognato: la Roma, la sua Roma. La fama e i soldi non lo avevano cambiato. Il suo pregio più grande era l'umiltà, low profile si direbbe oggi. E quel “Silenzio”, che campeggia nello striscione dietro Vincenti per tutto il tempo dello spettacolo, è quella quiete che ha usato come arma Agostino nella sua vita contro le banalità ipocrite del sistema e quel silenzio che siamo stati costretti a sentire con la sua mancanza e ancora quel silenzio pudico e rispettoso che tutti hanno dovuto ad un uomo sensibile che la vita aveva compresso e schiacciato come pentola a pressione.

La sua parabola sa di discesa agli inferi: il sogno della serie A, il desiderio realizzato di giocare per la sua città, per la sua squadra del cuore, l'ambizione compiuta di farsi capitano e responsabile di quei colori. Sembra una fiaba a lieto fine, di quelle da e tutti vissero felici e contenti. Oltre dieci anni alla Roma, le Coppe Italia e addirittura uno scudetto. Dove sta la fregatura? Arriva nel momento più doloroso, dopo la finale di Coppa Campioni (si chiamava ancora così perché vi partecipavano soltanto chi aveva vinto lo scudetto in patria) persa in casa Agostino-Di-Bartolomei.jpg(ancora più luttuoso) dopo i terribili e strazianti rigori contro il Liverpool (30 maggio '84), viene ceduto al Milan, dove giocherà per tre anni. Fu proprio un suo gol, con sonora esultanza, contro la sua Roma che scatenò l'odio cittadino verso quel figlio adesso ripudiato. Dal Milan ancora un gradino sotto al Cesena e poi ancora più giù in serie C alla Salernitana. A fine carriera lasciato il calcio lascia anche Roma per stabilirsi in un paesino della Campania, il tracollo è definitivo, il viaggio verso l'abisso è compiuto, concluso. Da lì allo sparo passeranno poche stagioni (30 maggio '94, 10 anni esatti dopo quella finale!)

Esemplare e significativo che giocasse con il numero del trequartista, il dieci, ma facesse il libero, giocasse in difesa, una contraddizione in quegli anni di numeri rigidi e di schemi fissi; e viene in mente la battuta finale, che poi darà il titolo alla pellicola, “Anche libero va bene”, di Kim Rossi Stuart, del bambino detta al padre. Ed è emblematico il suo soprannome-diminutivo, che poi dà il nome all'avvincente piece di Ariele Vincenti, “Ago” che sa di esplosione, di bucare la bolla costruita attorno alle menzogne che il calcio alimenta colpevolmente, il money facile, la gente che ti vede come un semidio, che bacia la terra che calpesti, che ti cerca, ti esalta per poi sostituirti con altri volti, altri calciatori più giovani, e ti dimentica, ti posiziona tra le figurine nostalgiche. Di Bartolomei in definitiva era un uomo deluso da come era andato il suo percorso, calcistico e vitale, maxresdefault.jpgdepresso proprio perché emarginato dal mondo del pallone, che era, fin da piccolo, tutto il suo mondo. Lui che, in maniera romantica (anche scomponibile in Roma-antica), voleva soltanto giocare a calcio come aveva fatto in strada fin da ragazzo. E i calciatori, si sa, rimangono sempre un po' eterni bambini e la chiusura della carriera è sempre drammatica. Totti, con il microfono in mano in uno stadio Olimpico piangente nel suo addio al calcio, disse: “Concedetemi un po’ di paura e stavolta sono io che ho bisogno del vostro aiuto e del vostro calore”. Ecco forse quell'aiuto e quel calore dei quali aveva tremendamente bisogno anche Ago che si è sentito abbandonato ma che non ha saputo chiedere se non con quel gesto finale.

Questo monologo dovrebbero vederlo i suoi ex compagni di squadra, Conti, Pruzzo, Graziani, e tutti i romanisti e tutti gli appassionati di calcio e gli appassionati di sport e anche quelli che in uno stadio non ci sono mai entrati e quelli che Di Bartolomei non sanno neanche chi sia. Le parole dolorose di questo straordinario affabulatore (andate a cercarvi nei teatri anche altri suoi lavori come “Le Marocchinate” o “La tovaglia di Trilussa”) vanno assaporate fino in fondo, fino all'amaro che ti lasciano, insieme alle lacrime, uscendo. Era un calcio diverso, meno muscolare e meno fisico, con meno tatuaggi e meno simulazioni, con meno pose ad uso delle telecamere e meno meches e brand e sponsor. Agostino ci insegnava con il suo calcio pulito l'attaccamento alla maglia, il rispetto delle regole e dell'avversario. E adesso rimane solo quel gigantesco, divorante assordante silenzio che è un'occasione per ascoltare perché “è nel silenzio che accadono le cose”. Se siete pronti a commuovervi questo è il vostro spettacolo. E oggi, come ieri, c'è sempre bisogno di commuoversi per riequilibrarsi internamente, per ripulirsi da tante inutili parole, per cercare un respiro e una pace nuova.

Tommaso Chimenti 20/11/2022

FIRENZE – O lo ami o lo odi. E se lo odi non affolli i palazzetti da tutto esaurito. E se lo ami allora applaudi e ridi e aspetti la battuta triviale e tutto quel bagaglio di politicamente scorretto (ampiamente sdoganato e superato) che è un respiro, finalmente un lasciarsi andare dopo i mille divieti, le parole boldriniane da non usare, quelle al femminile, quelle con l'asterisco. Certo il mondo è cambiato ma la sana ironia non morirà mai, basta il buon senso per capire che Checco Zalone è un fenomeno proprio perché schietto, proprio perché riesce (come fu per Albanese, come in parte lo è per Pio e Amedeo) ad incarnare lo spirito dell'italiano medio, la TRUE-1200X675-5-675x370.jpegpancia del Paese più vera ma non per questo la più bassa, quella che senza tanti fronzoli lessicali o concettuali vive e lascia vivere senza filtri (con qualche pregiudizio forse sì) e allo stesso tempo senza cattiveria, al massimo con un tocco di malizia, quel pepe frizzantino che sottolinea le peculiarità altrui (non i difetti, non c'è mai giudizio) e allo stesso modo accetta la presa in giro. Come lo stesso Zalone confessa, nelle sue gag e sketch e canzoni c'è un mix debordante di catcalling, bodyshaming e battute sul gender che lo rendono da una parte polemicamente attaccabile (Tiziano Ferro e Giuliano dei Negramaro si arrabbiarono dopo una sua parodia ai loro danni), dall'altra appunto quella liberazione, controllata e tra parentesi, un momento anche di riflessione sui nostri tempi, sul concetto di libero pensiero, di libertà d'espressione.

Sono qui a Firenze perché città dei Medici, e io mi chiamo così da borghese, e della lingua volgare, e io sono entrambi”. Un bell'impianto con una band affiatata, una cantante illuminata, e una scena che ricorda, tra il fondale e la cattedra, un'aula scolastica con il professor Checco che ci instrada tra tutte le varie forme e derive dell'Amore. Zalone ti trascina, con dolcezza e con quelle battute che sembrano semplici ma hanno dietro una grande costruzione drammaturgica, sul piano del trash (che, inutile nasconderci, piace a tutti perché è nostalgico e consolatorio, è colorato e spensierato), del kitsch che tutti allontaniamo ma che poi una parte ima di noi venera e cerca in un gioco (e giogo) continuo di attrazione irrefrenabile e repulsione cosmica. Ecco allora i Ricchi e Poveri che fanno da colonna sonora ai discorsi vaneggianti di Putin e Cutugno e Celentano, Fausto Leali (bellissima “A chi” che qui diventa “A Kiev” per denunciare l'indignazione social senza però nella vita reale muovere un dito) . Con sarcasmo, sagacia, intelligenza finissima scattano applausi non soltanto convinti ma partecipi come se finalmente la platea avesse trovato qualcuno che parla la propria lingua. “Se si candidasse alle elezioni vincerebbe a mani basse”, dice una vicina di posto (nel bel Palazzo Wanny di Firenze). Vero, anzi verissimo, altro che Beppe Grillo.

Ogni capitolo ovviamente ha a che fare con l'Amore partendo proprio dal titolo dello show “Amore + Iva”: “L'amore è come l'Iva, è una partita di giro”. Passando ai diritti civili: “LGBT+ vuol dire che puoi avere tutte le checco-zalone-1068x601.jpgsessualità che vuoi con un solo account”. Non c'è acredine in questo popolo medio-alto contro alcune istanze dei nostri tempi contemporanei, non c'è razzismo né omofobia, forse questa è un'esorcizzazione per certificare il cambiamento, per sottolineare il mondo precedente da quello del futuro. Infatti Zalone, attraverso i suoi personaggi, si capisce sempre decisamente da che parte sta: dalla parte di omosessuali (anche se sono il primo tema delle sue frecciate) e migranti. E' come se ribaltasse la questione, come se riuscisse a sottolineare e intercettare un sentimento che vive e aleggia nella nostra società e lo portasse sul palco non per ridere di alcune categorie ma per sorridere di chi ancora propone certi comportamenti. Infatti il piccolo balilla all'orfanotrofio che deve scegliere tra la famiglia tradizionale, ottusa, misera, non acculturata, e la famiglia arcobaleno alla fine propenderà verso quella con due genitori dello stesso sesso.checco-zalone-1280x720.jpg

E quindi i capitoli “L'Amore arricchisce”, ma anche “Amore è follower” perché chi mi ama mi segua con il trapper con poderoso autotune Ragady, elettrizzante la sua “Pocoricco” con passaggi autoriali niente male tra le pieghe delle rime, “L'Amore si evolve”, “quando il maschio cresce la donna si deteriora”, “Amore è grande musica” con la parodia di Riccardo Muti che suona la sigla di Pierino (senza il lupo) di Alvaro Vitali, “Amore e integrazione” con la trasformazione di alcune hit del nostro patrimonio musicale: “Fatti mandare dall'Imam a prendere curcuma” emblematica su tutti. Non possono mancare né “Immigrato” né “La Vacinada”, “Brividi” (trasformata in “Emorroidi”) e neanche “Angela”. Commovente è invece “Vincenzina” di Jannacci, appassionante è il suo Vasco Rossi dedito ormai più che alla vita spericolata a leggere i bugiardini dei vari integratori e ad analizzare le analisi del sangue, l'imitazione di Bocelli, la favola calabrese sempre a tema trans (suo cavallo di battaglia). Checco uno di noi.

Tommaso Chimenti 10/11/2022

BOLOGNA – C'è un uomo, solo e disperso e disperato e abbandonato, dentro un labirinto di ragnatele. Forse ha costruito da solo questo suo eremo dal quale non riesce ad uscire, intrappolato salta, si muove confuso e concentrico cercando balzi per trovare la via d'uscita in questo puzzle di fili e morsetti, in questa gigantesca tenda da campeggio, in questo recinto da zoo dai confini certi, in questo steccato dove può correre tra cavi e corde da eludere, schivare, zigzagare. Febo Del Zozzo, nella sua tuta nera da rapinatore di banche, una sorta di Arsenio Lupin o aspirante alla Casa di Carta (sembra scansare infatti i raggi laser di qualche allarme da celluloide), è un animale in gabbia che si arrampica, spicca in alto, tira e fustiga la rete di corde ben tese in questo bivacco dell'anima dove è consegnato come in prigione, parcheggiato, escluso, rinchiuso. E' una fitta rete di relazioni dalle quali l'uomo è schiacciato, messo all'angolo da se stesso in questo meccanismo che prevede la costruzione dei legami e legacci e successivamente lo scioglimento dei nodi, il disinnesco delle attrezzature dalle proprie asole, il disincaglio delle articolazioni. “Invettiva Inopportuna” (vista al Dom, la Cupola del Pilastro, prod. Laminarie, ERT Teatro Nazionale) è un complesso ganglo di imponenti canapi ad intrecciarsi, un'installazione contemporanea dove al suo interno vive e cerca la luce il performer che la abita (come Rezza in quelle della Mastrella) e tenta di sbarazzarsi delle funi che lo ancorano e lo fissano alla sua vita moderna fatta di infiniti rispetti e doveri, di orari e responsabilità. Si percepisce che sia stata concepita durante la chiusura del lockdown e si sente chiaramente la claustrofobia della mancanza di fiato, di respiro, di aria, di domani, di futuro.Invettiva 2.png

Il dispositivo mette angoscia (2 km di sartie), così come le musiche straziate e i rumori incandescenti in questo buio pece che morde ossessivo, in quest'ammasso di graticce intrecciate che sembrano fagocitarci, prenderci, tenerci bloccati, tagliole e trappole in questo bosco che di fiabesco non ha più nemmeno i contorni. Siamo Cappuccetto Rosso persasi tra i rami distorsivi e i fusti conturbanti, tra i rovi contorti e le cortecce dell'esistenza, siamo Teseo e il suo filo alla ricerca spasmodica di Arianna. Tutto è preciso, annodato come una pratica di bondage, fiocchi stretti passati in carrucole da tortura, linee che diventano sbarre dalle quali poter solo urlare il proprio disappunto doloroso, la propria inutile protesta gridata e inascoltata. Del Zozzo è Dante dentro questa architettura-selva oscura che la diritta via era smarrita, uno spazio microfonato e amplificato che esalta ogni passo e colpo e rimbomba ogni esalazione di forza e violenza, ogni sudore profuso nel cercare un passaggio, un buco nella serratura, un foro nella recinzione per guardare il mondo oltre questo reticolato di oblò. E' un ragno alpinista impigliato come una falena in questo habitat mortale, tra queste corde come frontiera, come barriera, come pelle tra il dentro e il fuori.

La struttura è già drammaturgia e molto ci ha ricordato quella che predispose il Maestro colombiano Enrique Vargas per la sua opera “Come deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo”. Un lavoro che parla di fragilità, di rottura, di incastri. Il nostro Spiderman Invettiva inopportuna.jpgci dice, in un loop di cuore di tenebra: “Ad un certo punto viene il giorno dove si sfiora il fondo”. E tutti siamo chiamati in causa, nessuno escluso, la campana è ormai già suonata per ognuno di noi. Questa impalcatura, che ricorda piramidi egizie e torri medievali e fortezze mastodontiche e costruzioni mesopotamiche e strutture Inca, questa muraglia di cavi, questa cinta di cime e baluardo di gomene che pareva inespugnabile e grottescamente inattaccabile (anche il Titanic era inaffondabile) alla fine cede, viene giù faticosamente distruggendo il lavoro certosino di assemblamento e assemblaggio. I morsetti si staccano, si stancano, e rimangono dei fili appesi e sospesi senza cadavere dell'impiccato a penzolare. Le carrucole fanno un rumore sordo di espropriazione, di corpi transfughi che abbandonano la loro solidità e si fanno gassosi. Le ragnatele adesso si fanno deboli, scioglievoli come il gioco dello Shangai con le bacchette che cadono e si disuniscono e si spandono a terra. Ecco che tutta lo sforzo maniacale del costruire diventa il distruggere del telaio, l'annientamento dei fili delle Parche. Fuga per la Vittoria. Fuga da Alcatraz. L'uomo, l'ombra, la figura al suo interno, questo Prometeo Incatenato, ha trovato il crack, il colpo decisivo, il punto dove fare perno e far saltare, lentamente e clamorosamente, il banco, il piede di porco sul quale far leva, scovando l'anello debole, creando il pertugio, allargando il buco, uscendo a riveder le stelle come Houdini. Il campo di battaglia adesso fa bella mostra di sé, le nostre radici, le nostre ossa, le nostre carni aggrovigliate. In quel Campo di Marte slabbrato e disfatto sul pavimento ci siamo noi che costruiamo impegnativi formicai per poi, al primo soffio di vento, cadere rovinosamente. L'Uomo che si crede Immortale e invece è soltanto uno dei tre porcellini, quello che edifica la sua casa con la paglia. E sappiamo tutti come è andata (e andrà) a finire. Questa Invettiva non era Inopportuna. Era necessaria.

Tommaso Chimenti 20/10/2022

FIRENZE – E' la vita, già. Anche la sua conclusione, anche l'amarezza della perdita, anche lo strazio della scomparsa fanno parte del viaggio, del percorso. “That's Life” canta The Voice in apertura e in chiusura. Ed è proprio così, è il passaggio delle stagioni, è la notte che segue al giorno, è la Natura che non possiamo fermare e di fronte alla quale non possiamo fare niente se non accettare e accogliere, sentirci fortunati per ogni giorno su questo Pianeta, grati per i sorrisi, per le persone vicine, per la felicità che possiamo ritagliarci. E' l'ultimo spettacolo di Maria Cassi nel suo Teatro del Sale che riapre dopo due anni di pandemia e soprattutto dopo la dipartita dello chef e mentore Fabio Picchi che lo aveva concepito, ideato, creato e regalato alla compagna. Palco e cucina un binomio eccezionale che qui ha trovato il suo habitat ed è esploso tra sapori e arte. A prendere il posto del padre, ecco Giulio, che ha seguito le orme in cucina del genitore, solita prestanza fisica e presenza, stesso vocione caldo, colorato, familiare. Tra Giulio e Maria c'è grande sintonia e complicità, empatia, armonia, vicinanza. Infatti si riprende con le vecchie abitudini, con l'applauso a chi ha cucinato Maria-Cassi-e1635164339352.jpgper noi, con un discorso caloroso ed entusiasta, quasi motivazionale, emozionante, per poi lasciare il palcoscenico alla Cassi che, da sola (anche se dialoga spesso con la colonna centrale), spazia sui suoi cavalli di battaglia dei quali non ci annoieremo mai. L'ora e mezza scorre veloce ed è un ringraziamento alla vita, al godimento, al piacere dello stare insieme. E non nomina mai il cuoco Picchi ma nelle sue parole c'è grazia e sentimento, eleganza e leggerezza nel riportarlo tra noi senza lacrime: soltanto sorrisi per celebrare la vita, quella che ci stupisce e sorprende e quella che a volte ci tira dei brutti scherzi. “La vita senza tenerezza e senza amore non è che un macchinario non oliato, pieno di cigolii e di strappi”, sentenziava Victor Hugo. E' questo il lascito di chi non c'è più, è questa la lezione che Maria diffonde dal suo palcoscenico: “La vita deve essere vissuta come un gioco”, argomentava Platone. Picchi era il suo e nostro “Garibaldi”.

La Cassi, con le sue smorfie e gramelot, con le sue facce e boccacce, nella sua mimica istrionica e contagiosa ci porta dentro il suo mondo (un mondo antico di fiorentinità che forse non esiste più) e ci racconta la sua Firenze e le caratteristiche dei fiorentini, ai quali piace “ragionare”, ovvero discorrere e parlare sugli argomenti più disparati senza in effetti dire niente ma soltanto per il gusto appunto di chiacchierare, che scuotono la testa ad ogni piè sospinto in segno di protesta o per evidenziare che qualcosa, se non tutto, non gli vada per il verso giusto, che dicono sempre “Oioi” per lamentarsi di qualsiasi cosa. “Che vita, ah, puoi dirlo, sento sempre image (1) (1).jpgil peso di un ricordo appeso al collo” (Samuele Bersani, “Che vita!”). Ecco il confronto impietoso con l'altra sua città del cuore, Parigi, dove ha casa, città e abitanti pieni di charme e fascino, di classe e incanto contro l'artigianalità della lingua toscana, quell'essere sboccato, ma non volgare, del fiorentino doc.

Fanno capolino anche i suoi vecchi personaggi, i suoi topos, le sue macchiette esilaranti, quelli che l'hanno accompagnata da sempre sul palco e che, anche stavolta, vogliono farsi nuovamente vedere, accennano ad uscire, vogliono anche loro godersi la serata di questo nuovo debutto, di questa riapertura: c'è l'Omino che aspetta l'Autobus e come intercalare usa “Vaia Vaia”, altra locuzione gergale per esprimere dissenso e malcontento, le due Pettegole, la vedova e la zitella, che si becchettano continuamente e dalla finestra giudicano il mondo là sotto la loro strada e se ne stanno a “bracare”, ovvero a spiare e ficcare il naso negli affari altrui, il Tossico che dice sempre “bischero”, la Matta del Quartiere, tragicamente bella che offende con epiteti pesanti le ragazze al loro passaggio, l'Omino con il Cane che si assomigliano. Maria Cassi è un fiume in piena, non scenderebbe più da lì sopra e il pubblico le tributa grande affetto, un amore sconfinato, ovviamente da dividere tra lei e il Picchi, che se n'è andato ma non se n'è andato per davvero.

Vita io ti credo dopo che ho guardato a lungo, adesso io mi siedo, non ci son rivincite, né dubbi né incertezze ora il fondo è limpido, ora ascolto immobile le tue carezze” (Dalla, Morandi “Vita”).

Tommaso Chimenti 19/10/2022

CASTROVILLARI – Altri spettacoli ci hanno coinvolto, accerchiato, spostato. E noi li abbiamo annusati, digeriti, abbracciati. Perché a Primavera dei Teatri tutto è subbuglio, un felice calderone organizzato, uno sturm und drang razionale, un pensiero che si fa azione, un gesto che ritorna ad essere parola e scambio, genuino e generoso, soprattutto generatore e generante. Scena Verticale in questi anni ha fatto conoscere la cittadina calabrese sotto al Monte Pollino in tutta Italia, divenendo faro e punto di riferimento teatrale, circoletto rosso in una immaginaria cartina italica. Qui si vedono Maestri assodati come nuove compagnie che tra qualche anno potranno dire la loro. Ed è in questa logica tra affermati e novità che sta la forza di scouting da una parte e di sottolineatura dei fenomeni dall'altra, due solchi che sembrano non toccarsi mai ma che qui hanno motivo non solo d'essere ma anche di coesistenza, di vicinanza, di fratellanza, di passaggio di testimone. Nei quattro spettacoli che analizzeremo qui sotto è lampante il confronto figli-genitori che già abbiamo sottolineato come forte fil rouge di tutto il festival, cifra e scelta da parte della direzione artistica.

Ecco allora che ci colpito piacevolmente “Dammi un attimo” (testo e regia di Francesco Aiello e Mariasilvia Greco; prod. Teatro Rossosimona) che parte come una sit-com ma che, attraverso buoni dialoghi e un'ottima attorialità, ci porta dentro i dubbi e le perplessità esistenziali che stiamo attraversando: fare figli o restare figli? Dammi un attimo perché ci dobbiamo pensare e riflettere, perché siamo impauriti della vita che intorno a noi cambia così velocemente, perché c'è stata la pandemia e c'è l'inflazione e la guerra è alle porte e il precariato macina vittime se non addirittura la disoccupazione, perché siamo infelici e insoddisfatti perennemente alla ricerca di novità e viaggi che ci portino via da noi stessi. Tre personaggi (brave e pronte la stessa Greco e Elvira Scorza) che seDammi un attimo.jpg ne stanno, come scarafaggi, come mummie nei sarcofagi, sul fondo in scatolette illuminate, gabbie sì ma lucenti e colorate, le nostre case-loculo nelle quale non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, siamo auto(no)mi se il frigo è pieno, Netflix è acceso, possiamo chiuderci dentro mentre il mondo fuori che rumoreggi pure. Una ragazza e un ragazzo sulla trenta-quarantina sposati e la sorella di lui che si piazza sempre a casa loro perché non vuole stare con marito e figlio a casa propria. Da una parte si cercano fermezze e certezze e punti stabili, dall'altra si è in continua fuga dalle responsabilità, da se stessi, dalle regole. E mentre parlano di figli preparano un pane (vero) in un forno che alla fine tireranno fuori caldo e fumante addentandolo (cannibalizzando il possibile figlio?). Ci ha ricordato, per atmosfere e colori, i quadri di Carrozzeria Orfeo (è un grande complimento). Oggi, nel nostro primo mondo, giustamente la donna non vuole più sentirsi contenitore di vite ma ha i suoi spazi, il lavoro o la carriera, l'indipendenza da difendere. E' un mondo difficile, che corre troppo forte per le nostre retine che non sanno fotografarlo, per i nostri piedi stanchi che gli corrono dietro affannati. Non c'è posa né calma mentre un figlio ti costringe a fermarti e pensare, a riflettere su chi sei, su quello che sei diventato, su quali valori hai da consegnare al nuovo arrivato. E questo fa tremendamente paura. In una nuova ondata di disimpegno da una parte, programmi trash e telefonini e la ricerca del divertimento come esperienza ad ogni costo, e dall'altra di nuove paure, alle succitate aggiungiamoci anche ecologia e ambientalismo oltre al nucleare, ecco che la frittata è pronta per sfornare l'immobilismo, il vivere nel presente senza programmare troppo. E i figli sono un balzo nel futuro, quel qualcosa che che è trampolino tra noi e il domani. E forse non ce lo possiamo permettere né economicamente né emotivamente. Non siamo più pronti. Forse non lo erano neanche le nostre madri ma si sentivano “costrette” culturalmente da un ruolo cucitogli addosso dagli uomini che gli erano intorno. Una profonda analisi, una centrata riflessione, una bella considerazione, un solido ragionamento.

Cominciamo da un'osservazione: da qualche anno gli spettacoli di Mario Perrotta sono diametralmente cambiati, quasi irriconoscibili rispetto alle tematiche forti e sociali grazie alle quali lo abbiamo apprezzato, applaudito, premiato. Certo si cambia, si cresce, ci si evolve, tutto giusto, tutto legittimo, tutto plausibile. Ricordiamo però “Italiani Cincali” e “La Turnata” oppure “Un Bes” o ancora il meraviglioso “Bassa Continua” con i tre percorsi sul Po. Perrotta innamorato delle trilogie, che incuriosiscono e affascinano, fidelizzano il pubblico. E anche stavolta, dal 2018 ad oggi, si è lanciato nella trilogia della famiglia con “In nome del Padre”, “Della madre” e quest'ultimo “Dei figli” (prod. TSBolzano, la Piccionaia, FTS, Permar). Un altro impianto, un'altra forma, trasformato, sicuramente diverso. Per i nostalgici un'altra cosa, lontanissima dalle precedenti esperienze sul palco. Ma il mondo va avanti e non c'è spazio né tempo per chi vuole rimanere ancorato a vecchie idee e concetti sorpassati. Le persone, e gli artisti ancora di più, sono in continua trasformazione e mutamento, guardano avanti. Però possiamo dire, e forse proprio perché siamo nella schiera malinconica dei reazionari che non vorrebbero che niente cambiasse, che la forza e l'impatto di Mario Perrotta in scena, in queste ultime uscite, si è leggermente annacquata, ha perso di quella potenza che ci rovistava l'anima. Chiamala maturità, se vuoi, assennatezza o saggezza. Anche questo “Dei Figli” risulta assolutamente godibile, scorrevole, a tratti divertente, colorato, con buone prove attoriali da parte degli altri tre protagonisti ma il vigore, la vitalità, l'energia che invadeva la platea nelle prove di qualche anno fa era di tutt'altra intensità. Si usciva dal teatro con gli occhi lucidi, il cuore pieno, rinfrancati e scorticati. Adesso siamo più nell'ambito, che nessuno si offenda, del teatro borghese con i suoi quadri, le canzoncine (Loretta Goggi, “I sogni son desideri” o “Musica leggerissima”, arie nazional popolari rassicuranti). In una scenografia che ci ha ricordato gli habitat di Rezza/Mastrella sono posizionate delle strane strutture futuristiche, sedie ondulate. Tre ragazzi abitano in affitto nella stessa casa di Gaetano, Perrotta stesso, che sta tutto il giorno in vestaglia per poi mettersi giacca e camicia e fare brevi conversazioni in video con donne che lo pagano per essere maltrattate eroticamente, dipingendosi come un etero duro e puro mentre nella realtà è omosessuale. I tre giovani sono un'avvocatessa, uno sceneggiatore fallito e un ragazzo che sogna di occupare il Polo Nord. Le loro (s)fortune sono i genitori: o del tutto assenti, o troppo accondiscendenti o ancora assidui controllori asfissianti. Invece che “Dei figli” l'analisi verte più su “Degli Uomini”, infatti sono i maschi che hanno un problema di hikikomorità rimanendo chiusi nelle loro stanze per anni per paura del mondo là fuori, che è diventato pericoloso, indecifrabile, rischioso, incomprensibile. Oltre ai personaggi sul palco, altri cinque si affollano su schermi recitando la parte di congiunti e genitori sopra le righe e grotteschi (emergono Marta Pizzigallo e Maria Grazia Solano) dei tre giovani (tra i quali spicca Luigi Bignone). Sarà che da Perrotta ci aspettiamo sempre tanto. Ripetiamo tutto piacevole e fruibile da una platea sempre più allargata, ma vorremmo rivedere e ritrovare il vecchio spirito di quel ragazzo di Lecce che tanti anni fa si trasferì a Bologna.

Appassionato e REAL HEROES.jpgintenso il progetto di questa giovane compagnia calabrese che si è fatta le ossa e che adesso si sta facendo conoscere anche fuori i confini nazionali: stiamo parlando del gruppo Oscenica, ragazzi saggi, con la testa sulle spalle, con tanti bei progetti. Questo “Real Heroes” è una performance di teatro itinerante come ce ne sono state post pandemia, cuffie e qui, alla fine, anche i visori, ma qui c'è di più. Il progetto (che è già sbarcato in Cile, Argentina, Spagna, Grecia e Uruguay) nasce dall'incastro tra il regista Mauro Lamanna e l'autore cileno Justiniano Aguilera e infatti in audio, mentre camminiamo per Castrovillari, ascoltiamo una storia sudamericana e una prettamente del nostro Sud. Già Caparezza lo rappava nella sua "Eroe": "Sono un eroe, perché lotto tutte le ore, sono un eroe, perché combatto per la pensione, sono un eroe, perché proteggo i miei cari dalle mani dei sicari, dei cravattari, sono un eroe, perché sopravvivo al mestiere". E sono storie tremende di solitudine e abbandono che ci stringono e non ci lasciano andare, prima un padre cileno i cui due figli sono stati rapiti dalla polizia fascista, e un padre calabrese che l'usura ha messo sul lastrico e che poi ha perso il lavoro, la dignità, la famiglia, il figlio. La voce che ci accompagna è calda, gocciola una pioggerellina che non è fastidiosa, quasi rinfrescante, ci fa sentire vivi tra questi muri crepati e questo crepuscolo che s'affaccia tra i cretti della terra spaccata nella vallata e il vento che ci sbatte in faccia la fortuna del godere di libertà e democrazia: “Passeggiare è un atto rivoluzionario”. E c'è poesia urbana in queste parole che scivolano leggere tra il nostro serpentone di cuffie illuminate di blu: “I tetti sono l'ultima cosa dell'uomo e la prima di Dio”. Affascinante e soffice quest'affabulazione che ci prende per mano (ci ha ricordato “Farsi silenzio” di Marco Cacciola): se la prima storia era poderosa ma lontana, la seconda invece è tangibile e sembra di riconoscerne i confini e i contorni tra i marciapiedi divelti e le saracinesche chiuse, tra i luoghi derelitti e i negozi fatiscenti sfitti di Castrovillari. Si parla di usura, di pizzo, di strozzini, di camorra e malavita, dello Stato che non ti protegge prima per poi abbandonarti, lasciarti solo contro i mulini a vento, a lottare contro cose più grandi di te, senza soluzione, senza aiuti fin quando non scivoli nel fango, nella miseria, molti cadono rovinosamente nel suicidio. E' un racconto che ti entra sotto pelle fatto di piccole perle che riscaldano, confessioni di 6 personaggi.jpgLa casa non è un accrocchio di mattoni ma è un respiro”. E ancora: “Errare è camminare e fare errori. Errori ed eroi sono simili: siate errori, siate eroi”. Altro che Steve Jobs che voleva solamente vendermi un telefonino. Lacrime, brividi, applausi.

Ed eccoci a quello che a nostro avviso è stata la più bella ed esplosiva sorpresa tra le proposte osservate, le “Confessioni dei sei personaggi” di Baglioni/Bellani, giovane compagnia umbra (abbiamo seguito negli anni loro lavori come “Gianni” e “Mio padre non è ancora nato”) sempre affiatata, centrata, precisa. Un velatino sul fondale, oggetti sparsi di grande gusto e pathos vintage e una telecamera ad indagare come si può fare, tra thriller e noir, alla ricerca del dettaglio, della minuzia per arrivare, come detective, a sperare di risolvere l'annoso caso pirandelliano. Come sono andate le cose, approfondendo ambiti e scene, scenari e dialoghi sospesi, entrando nella psicologia dei gesti, scavando dentro i giorni che hanno scavato come goccia fino alla tragedia finale. Ogni personaggio prende la parola e si fa corpo, ora in Caroline Baglioni adesso in Stella Piccioni, simili intercambiabili, entrambe puntuali, caparbie, tenaci. Mentre l'una recita l'altra la riprende come camera(wo)man in presa diretta (cinema e teatro si fondono) e il tutto viene riproposto sul velatino-grande schermo. La regia è curata, razionale senza essere cervellotica, passionale senza quell'istintualità che porta a debordare. E' un microcosmo accurato, centellinato al millimetro, che descrive e spazia, un dispositivo che amplia e racconta, un meccanismo intellettuale che ci interroga. Entriamo dentro il perimetro della storia con loro, siamo dentro il dramma, lo viviamo e finalmente sentiamo le varie voci dei Sei in una sorta di diario di quegli anni, di quei giorni. Capiamo il prima, gli antefatti in questa macchina perfetta di momenti e ricordi che riaffiorano come un colpo di tosse o uno sputo, un rigurgito per buttarci in faccia la loro verità, ognuno secondo il loro punto di vista, ognuno annegando nei propri sensi di colpa, senza perdono, senza salvezza, in quel substrato infame e infamante, in quel limbo tra paradosso e sconfitta, schiacciati dall'esistenza senza riscosse né rivincite. E' una sorta di confessionale aperto, al quale abbiamo libero accesso da guardoni onanisti. Queste “Confessioni” sono ben costruite, ben architettate, pensate, ideate, strutturate, calibrate: un vero piacere. Davvero robusto. Questo è il teatro contemporaneo che ci piace, quello che dice: “Sul palco si gioca a fare sul serio”. Usciamo felici e turbati.

Tommaso Chimenti 08/10/2022

CASTROVILLARI – Primavera dei Teatri rimane primavera anche se siamo ad inizio autunno. Per varie vicissitudini, lo scorso anno lo storico festival della Calabria del Nord, PdT è saltato e quest'anno è slittato da fine settembre fino alla prima settimana di ottobre ma questo non ha influito sulla ricerca dei nuovi linguaggi nella nuova drammaturgia non soltanto di casa nostra. La rassegna, diretta da Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano, quest'anno ha raddoppiato gli sforzi con un prologo a Catanzaro con diverse proposte internazionali. A Castrovillari, dove tutto è nato e dove tutto ritorna, abbiamo potuto seguire otto tra spettacoli e performance. Castrovillari sembra sempre la stessa, sembra sonnecchi con il Pollino sopra con la sua croce e le nuvole grigie a fare da cappello, le strade sempre con gli stessi disegni e graffiti che nessuno copre e nessuno migliora e nemmeno nessuno che ne propone di nuovi. Tutto è fermo anche se il fermento c'è, si sente, si percepisce, basti guardare i tanti giovani che affollano i luoghi del festival, il Teatro Vittoria e il Sybaris nel Protoconvento dove i ragazzi pullulano. Non cambia nemmeno l'immancabile Osteria della Torre Infame, che piace proprio perché rimane fedele a se stessa nei decenni: con il proprietario Nicola neo presidente del Castrovillari Calcio in Serie D e gli spaghetti al fuoco di Bacco, cotti nel vino e piccanti, che sono un must irrinunciabile e da soli valgono il viaggio (come non ricordare il caposala Pasquale). Oltre agli spettacoli ci sono stati i commossi ricordi di Maria Grazia Gregori e di Renato Palazzi, due grandi critici teatrali milanesi che ci hanno lasciato nell'ultimo anno. E c'è stata anche la presentazione del volume scritto da Gigi Giacobbe, altra firma prestigiosa stavolta messinese, su Bob Wilson. Come ogni anno ci attira molto la locandina che stavolta propone un uomo gonfiabile, una sorte di omino della Michelin, tutto avvolto dentro il cellophane, quello da scoppiare, quello per salvare gli oggetti fragili. Siamo teneri, siamo delicati e allo stesso tempo vogliamo stare sotto una campana di vetro per non romperci anche se, vicino a noi, come nostro compagno di viaggio esistenziale, c'è un cactus che, anche se piccolo, potrebbe farci esplodere, potrebbe far scoppiare la nostra scorza, il nostro scudo e armatura.Giancarlo Cauteruccio.jpg

Quello che abbiamo notato, nella maggior parte delle proposte, è stata una solida riflessione sul tema figli-genitori e spesso figli-padre. Chissà, forse parlare troppo delle madri e troppo di Genitore 1 e Genitore 2 ha scaturito un'ondata dissonante. Forse i padri mancano oppure non sono più le figure dei No decisi oppure c'è troppa confusione tra i ruoli. Ma la sostanza sono gli spettacoli, dai quali abbiamo attinto, ai quali ci siamo abbeverati di nuove riflessioni e spunti. Come “La Divina Calabria” di Giancarlo Cauteruccio che non smette di stupirci: idea geniale quella di prendere un locale sfitto sulla via principale, accanto ad un bar dai tavolini affollati e un kebab dagli odori e suoni e lingua araba. Tra caffè e carne bruciacchiata messa dentro pane e stagnola ecco che si apre l'antro della Sibilla Cauteruccio che, sull'immancabile carrozzella beckettiana, feticcio e firma, ha aperto il suo temporary shop dove all'interno un cantore, lo stesso Maestro cosentino-fiorentino in dark, due coriste-vocalist-cantanti in nero e sullo sfondo un performer in un'azione che ricordava il riscaldamento pre-nuoto, lo stretching, la ginnastica per cercare di non affogare nello Stige dei nostri peccati. L'eco rimbombava tra le pareti bianche, immersi nelle luci rosse rotanti di sirene, con questa acre Divina Commedia (canti scelti dall'Inferno, 1, 3, Purgatorio, 1, 2, 5, e Paradiso, 1, 10, 33) tradotta in lingua calabrese che pizzica e morde. Il Maestro si contorce sulla sedia a rotelle, con gli occhiali scuri da sole (non vedente tra Tiresia e Finale di Partita), mentre luci d'allarme come piccoli fari girano su se stesse creando un fremito uditivo e visivo e sonoro. Bianco delle mura, neri gli abiti, rosse le luci per un'immersione totale, da ascoltare anche senza capire. Si percepiscono la musicalità e le assonanze, i suoni e le armonie fragorose. A volte sono solo sospiri e respiri, gemiti, altri sono grida e urla. Siamo dentro una grotta moderna mentre fuori le chiacchiere sono attutite dalla musica, le auto continuano a strombazzare, il mondo è lontano. Un Dante in carrozzina in questo rito per poche persone alla volta. Se Cauteruccio è bloccato, il performer, lo snodabile Massimo Bevilacqua, sullo sfondo è in continuo movimento, i canti, delle brave Anna Giusi Lufrano e Laura Marchianò, addolciscono e sottolineano questa potente esibizione.

L'incastro tra il drammaturgo Mariano Dammacco (e la sua attrice di riferimento e sodale Serena Balivo) e il performer a tutto tondo Roberto Latini non è riuscito alla perfezione in questo “Danzando con il mostro” (prod. ERT - Lombardi-Tiezzi) rarefatto affresco giocato più sulle epifanie e sulle apparenze che su una precisa corposa sostanza. Due personaggi in scena, che non capiamo, tra dialoghi surreali (il pubblico ride, e molto purtroppo, sulla reiterata parola “Cog-lioni”, detta proprio così, staccata e con questa scansione) che più che dipingere un habitat metaforico creano una confusione di immagini, sovrapposizioni, spaesamenti, nebbie, fraintendimenti. Dopo poco non si riescono più a cogliere i confini dei personaggi, scivoliamo, cadiamo, chi sono questi due? cosa fanno? perdendoci dentro dialoghi sospesi tra una Balivo-Franca Valeri e un Latini-Petrolini in un incedere che non NITROPOLAROID.jpegtrova un felice sbocco fluido. Diciamo criptico.

Un tempo c'è stato Antropolaroid che tanta fortuna ha portato a Tindaro Granata. Adesso arriva questo “Nitropolaroid” dei Crack24, scatto impressivo di una famiglia esplosiva. Parte benissimo questo scritto, in parte autobiografico, dell'autore Riccardo Lai. Un racconto fortemente tratteggiato dalla calata sarda, un autodramma per dirla con le parole che Strehler usò per definire il Teatro Povero di Monticchiello. A grandi intuizioni seguono acerbità e ingenuità. Lai, protagonista in scena (somiglia a Nicholas Cage), dà subito una bella carica alla platea, tra il sardo e un italiano sardizzato raccontando, da dentro, la sarditudine, la distanza, geografica e culturale, dell'isola, il mirabolante Continente da temere e da affrontare. Seguono scene e quadri, surreali e grotteschi, parodistici, e fin quando si rimane su questa falsa riga il tutto risulta fruibile e godibile. Poi sembra che gli sia sfuggito di mano qualcosa perché cambia bruscamente il clima che si fa cupo e tenebroso tra streghe e omicidi: un altro spettacolo proprio. Nella prima parte (dove la platea era tutta con loro), che ha il sapore di un Far West simpatico, con risvolti sociali e antropologici ma sempre sul difficile terreno ed equilibrio sottile di un'autoironia pungente, si ha la sensazione di una leggerezza intelligente ma allo stesso tempo siamo rapiti dalle sorti di questa famiglia rurale e da questo figlio che vuole seguire orme e sogni differenti. Qualcuno potrà dire generazionale, sì, è vero, però fatto bene. Alcune scene troppo allungate e annacquate, le streghe nel bosco ad esempio, anche se l'impianto a metà tra “Nozze di sangue” di Garcia Lorca e “Macbettu” di Alessandro Serra, sembra funzionare, tra il I Macbeth.jpgmistico e il mitologico, il sogno e la leggenda. Il ritratto del padre o dello zio (parla come un mix tra Maria Amelia Monti e Gianni Brera) sono folcloristici e curiosi, così come la scena delle tre suore (molto Marta Cuscunà). Poi, inspiegabilmente e senza alcuna ragione e spiegazione, si entra su un terreno drammatico pesantissimo che sconfessa tutto il precedentemente espresso: un Cristo in croce fino, appunto, ad una morte violenta che ci coglie impreparati ed è fuori luogo. A tratti la voglia di gag gli ha preso la mano: less is more. Dopo il crack, il punto di rottura segna anche un punto di non ritorno e “Nitro” diventa tutt'altro spettacolo che, improvvisamente, non funziona più. Purtroppo.

Dopo “Riccardo 3” arriva la seconda parte della trilogia shakesperiana frutto dell'incastro tra Vetrano/Randisi e Francesco Niccolini: “I Macbeth”, prod. Arca Azzurra (seguirà Amleto). L'impianto è quello di R3, una struttura di contenimento coercitivo, un carcere manicomiale di loculi e catene dove sono rinchiusi i personaggi delle tragedie del Bardo o persone che si sono così tanto immedesimate da credersi loro e sentirsi tali. Hanno tic e sentono fantasmi dentro le loro teste, dentro le loro orecchie che ritornano e non li lasciano in pace e i loro dialoghi arrivano direttamente dalla letteratura inglese seicentesca con innesti di quella cultura contemporanea voyeuristica televisiva che ben si presta alle vicende di cronaca nera del Belpaese. Così al Macbeth vengono aggiunti Olindo e Rosa e il caso Varani e tutto prende senso e “questa notte atroce e insanguinata” la sentiamo più vicina, più nostra, più tangibile, meno lontana, meno impossibile. I tratti sono cupi, barbari. Ancora manca qualcosa oppure questo secondo step troppo ricalca il primo passaggio da assimilarli.

Tommaso Chimenti 06/10/2022

MILANO – Sono i due interpreti che più hanno impressionato positivamente al Milano Off Fringe Festival per presenza scenica, carica emotiva, padronanza del palcoscenico, per le loro storie toccanti e struggenti, per la consapevolezza fisica e drammaturgica. Stiamo parlando di Sergio Del Prete, attore campano protagonista di “Sconosciuto”, e Pierluigi Bevilacqua che ci ha portato dentro le spire foggiane di “Frichigno!”. Due storie che hanno molto in comune: ovviamente quello che salta agli occhi è questo Sud che è poco madre e molto matrigna, un Sud che corrode lentamente i suoi figli, che toglie la terra da sotto i piedi, che incastra, impantana, ti affoga nel fango, ti lascia nelle sabbie mobili senza fune, impotente, senza forze, prosciugato. Un Sud lontano dalle cartoline dei turisti che d'estate accendono le luci su sole e mare mentre durante l'anno tutti si scordano, o non vogliono vedere, quello che succede nell'immobilismo, nell'omertà, nell'impossibilità di un futuro degno di questo nome.

E da qui nasceSconosciuto.jpgSconosciuto. In attesa di rinascita” di e con Del Prete, attore solido, che fisicamente riempie il piccolo palco di led a creare un recinto luccicante, che abbaglia quel che non puoi fuggire, la tua sorte che ti insegue come la tua ombra e che non puoi lasciare, che non riesci ad abbandonare. In fondo un'apertura a semicerchio quasi cuccia da cane, tenuto alla catena, forno per passare guccinianamente dal camino, o bocca dell'utero, partorito nuovamente con fatica e sudore e sangue. Come sottolinea il titolo questa è, dovrebbe essere, una rinascita, nuovamente risputato, e rispuntato, alla vita. Ed è un incedere di violente parole d'angoscia e attimi dove la parola d'ordine è “paura”, paura di perdersi, paura di non sapere chi siamo, paura di andare come paura di restare, sempre sospeso, traballante, claudicante tra mille forse, zoppicante tra vorrei irrealizzabili e creduti lontani e impossibili da raggiungere.

In questo clima, in questa periferia, in questo grigiore che dai palazzi arriva a macchiare e lordare anche le pareti dell'anima, la speranza è la prima ad arretrare, a scomparire, a chinare la testa di fronte a quel mondo fisso, eterno, che pare statuario, nell'impossibilità di cambiarlo, nell'impossibilità di felicità, nell'impossibilità di realizzarsi come persona, come individuo, cercando qualcosa in più del sopravvivere e dell'arrivare a domani. Una Napoli lontana anni luce da pizza e sole, da Vesuvio e Maradona, forse più vicina ai fondali naturali di Gomorra o a quelle Vele che non volano. Quello che ci dice Del Prete (ha il phisique du role di Raiz degli Almamegretta), investendoci con le sue parole di battaglia, è un mondo purtroppo già visto e sentito, ma l'attore ci mette forza e convinzione, rabbia e lacrime, una sorta di miserere e buoni propositi che si incagliano negli spigoli oggettivi della realtà sempre Sconosciuto. in attesa di rinascita.jpgpiù acida e fastidiosamente appuntita, scarnificante. C'è poesia e risentimento, rassegnazione e abbattimento, e ogni volta che vede un piccolo barlume nella sua progressione drammaturgica subito rincula verso un abisso consuetudinario a macerarsi nel solito porcile che sterilizza i sogni, che toglie le energie necessarie per poter pensare di cambiare le cose. Le key board sono il non sentirsi adeguati a nessuna situazione, il non ritenersi degni e adatti, la bassa autostima, il vivere con il freno a mano tirato in un continuo vorrei ma non posso logorante, stancante, sfibrante, ammorbante, deludente pieno di solitudine, di desideri ammosciati, di luci fioche, di zero soddisfazioni, con il domani uguale a ieri, con l'oggi in loop impercettibilmente peggiore di ieri. E i debiti e le mancanze e un intorno che propone orizzonti di rifiuti e televisori accesi sul nulla colorato che trabocca manesco e urlante dai vari canali starnazzanti, i silenzi di schiamazzi vuoti che fanno male, “terra bugiarda, terra di veleno, terra in cui l'amore non basta”. “Come fai a riconoscere la bellezza se cresci in mezzo ai palazzi abusivi?”. E' il ghetto che ti mangia, è la distanza che ti tiene lontano, che ti emargina, è l'assenza di abbracci, è quella mano allungata che non riesce mai a toccare l'oggetto del desiderio che diventa sempre più piccolo inasprendoti, inacidendoti, incattivendoti, spezzandoti dentro. Sergio Del Prete, immerso in una bella scrittura pungente, ci racconta queste “nostre vite scassate”, con la furia, tenera e allucinata, di un De Niro in “Taxi Driver”, con decisione, risolutezza e chili di personalità.

Stessa pasta e impronta per “Frichigno!” (Piccola Compagnia Impertinente, testo ricco di Enrico Cibelli): stavolta siamo a Foggia, anni '90, e Pierluigi Bevilacqua (corpulento e corposo, in una parola: di sostanza) dà spazio al suo repertorio che miscela comicità esondante nella prima parte alla quale segue un'amara riflessione acre in quella conclusiva. Illuminante e geniale l'incipit, la molla che tutto fa scattare, l'incastro di due personaggi lontanissimi, uno del grande panorama mondiale, l'altro, anche se ugualmente pubblico, vicino, terreno, tangibile, locale. Come avere un binocolo e poter vedere Seattle e l'intorno a te e poi metterli insieme, sullo stesso terreno comune, nella stessa diapositiva. Miscelare Kurt Cobain, eroe musicale con la sua fine annunciata che aveva distrutto l'era del rock e del pop con il grunge e sovvertito le regole dell'establishment musicale, con Zdenek Zeman, allenatore di Praga, contro i poteri forti, allenatore del Foggia dei Miracoli. Li accomunano gli stessi anni, nel '94 Cobain si spara, la stagione di serie A '93-'94 è l'ultima di Zeman con la squadra pugliese rossonera; e il frontman dei Nirvana e il Boemo vivono dentro, come ribellione, come rivalsa, dentro gli occhi e il petto di un adolescente che trova in queste due “divinità” un appiglio, un antidoto alla solitudine in una città sempre descritta dal Sole 24 Ore come maglia nera d'Italia per mancanza di lavoro, prospettive, qualità scadente di vita, dei servizi, abbandono scolastico, criminalità, fiducia nelle Istituzioni. E Zeman, con la sua squadra tutta votata all'attacco, è come se dicesse a questo ragazzo, e a tutti i foggiani, che finalmente “possiamo pensare in grande”, che “ce la possiamo fare”, che “non siamo sempre gli ultimi”.

La genesi di Frichigno poneFrichigno.jpeg le sue basi con gli americani venuti a liberare lo Stivale dal Nazi-Fascismo: giocando a calcio, quando c'era un fallo il soldato a stelle e strisce gridava “free kick”, ovvero punizione, facile la trasposizione per assonanza in frichigno che, se si vuole, sembra più ricordare un giocatore brasiliano tutto dribbling ubriacanti e colpi di tacco. Se nella prima tranche Bevilacqua è associabile a Checco Zalone (soprattutto quando canta l'inno del Foggia strimpellando, male, le corde di una chitarra), nella seconda si trasformerà in Roberto Saviano. Zeman che porta la fantasia al potere, che è contro il doping e contro il sistema Juventus, uno che non si piega pagandone le conseguenze, uno che non è omertoso, che insegna che, con la fatica e sudore, i risultati si possono ottenere. E Zeman cambia la percezione del mondo per i ragazzi di Foggia di allora, gli dice quello che gli adulti, la scuola e la politica non sono riusciti, o non hanno voluto, dire loro: bisogna lottare, rimboccarsi le maniche, sudare, e dove non si arriva con il talento si può arrivare con la corsa, con la tenacia, allenandosi più degli altri, perché se ti impegni tutto diventa possibile, se rispetti le regole: “Il risultato è casuale, la prestazione no” è l'emblema che se fai le cose per bene prima o poi verrai Pierluigi-Bevilacqua-1068x713.jpgpremiato senza dover scivolare nel vittimismo. Zeman ha ridato una verginità ai foggiani (e al Sud), non li ha fatti più vergognare di ciò che erano, gli ha dato un motivo d'orgoglio, di appartenenza: “Non avevamo più paura”, “Esistiamo anche noi”.

Ed è in questo nuovo clima di giustizia e di voglia di farcela, di rialzare la testa e urlare al mondo “Ci siamo anche noi”, che si interseca l'ultima coraggiosa parte, quella dove Cibelli-Bevilacqua (in una drammaturgia sempre organica e viva) fanno i nomi e i cognomi delle famiglie che da decenni annientano e soffocano Foggia con bombe e strozzinaggio, minacce e pizzo, tangenti e corruzione, attentati e omicidi, rapimenti. Cose che non escono sui giornali, fatti che non arrivano al grande pubblico perché la Puglia è bella, la Puglia sono i trulli e il Salento, ci sono le masserie e i vip, e “lu sule, lu mare, lu ientu”. E' un j'accuse feroce e dritto, senza sconti, senza scorciatoie, con i responsabili chiamati uno per uno, con i tanti, troppi istituzionali “la mafia non esiste”, con il Comune, unico esempio, che non si costituisce parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Il '94 è la fine delle illusioni, l'entrata nel mondo degli adulti, la fine dei giochi, muore Cobain, finisce l'era Zeman e tutto ritorna grigio come prima, sbiadito. E' un urlo per la propria città, per la propria adolescenza che qualcuno si è rubato. A livello italiano dopo Tangentopoli, e l'ondata di proteste e il desiderio di pulizia, arriverà Berlusconi: “La nostalgia è un album da colorare già colorato”. Emozionale, motivazionale.

Tommaso Chimenti 28/09/2022

Foto "Sconosciuto": Guido Mencari

Leggi qui il resconto su Milano Off Fringe Festival: https://www.recensito.net/teatro/milano-off-fringe-festival-resoconto.html 

MILANO – Francesca Vitale, direttrice del Milano Off Fringe Festival assieme a Renato Lombardo, in questi ultimi anni ha viaggiato per il mondo (da Edimburgo a Orlando fino ad Adelaide) per capire, studiare strategie e portare in Italia un modello di fringe che si potesse adattare all'Italia. Nelle ultime stagioni molti ne sono nati, da quello di Roma a quello più organizzato di Torino. In quest'ottica, con il Milano Fringe attivo dal 2016, quest'anno nascerà, sempre diretto dalla stessa organizzazione, anche il Catania Off Fringe nel mese di ottobre. Questa edizione è stata molto più strutturata, composita, dettagliata delle precedenti con ventiquattro diversi spazi dislocati in città, 56 spettacoli diversi (dal 18 settembre al 2 ottobre), un sito ben curato e preciso (milanooff.com), tanti convegni mirati e workshop professionali, due giurie, quella degli esperti del settore e quella dei giovani, e soprattutto grandi premi per i vari vincitori per esportare il proprio lavoro: il premio della “Giuria dei ragazzi” di 1000 euro, il premio “Valore Italia”, il premio “Avignon Le Off”, con ventun giorni di repliche nel famoso fringe francese, il premio “Soho Playhouse” con due settimane di repliche al fringe di NY tutto spesato, il premio “Hollywood Fringe” a Los Angeles, il premio “Barry Church” con partecipazione al “Fringe di Edimburgo”, il premio “Gothenburg Fringe” per partecipare al concorso svedese, il premio “Stockholm Fringe” per esibirsi nella capitale scandinava; e ancora il premio “Palco Off Catania” con repliche al fringe siciliano, il premio “Binario 7” con una data nel teatro monzese, il premio “Teatro Factory 32” con una recita nello spazio milanese, il premio di formazione internazionale “SRSLY”. Un bel quadro, una grande prospettiva di crescita, una spinta di promozione ottimistica per tante giovani compagnie.

Si sa, nei fringe in giro per il mondo, la miglior scelta è buttarsi nel teatro fisico, nel muto, nel gestuale. Questa la scelta del gruppo austriaco Lemour che qui, selezionati dal fringe di Goteborg, Balloon adventures.jpeghanno presentato “Love's left hand” un lavoro che, confusionariamente, ha miscelato danza, circo, comicità in un frullatore che, senza il supporto della musica, onnipresente, decade e si sgonfia inesorabilmente. Una sorta di presentatrice che propone gag ormai abusate e vecchi numeri di cabaret ammicca al pubblica, gioca con il cilindro, tra mosse, mossette, risatine, si mette una barba finta, si atteggia. La drammaturgia è soltanto musicale e nei rari momenti di pausa si sente tutto il gelo del vuoto che si amplifica e si spande dal palco alla platea, il pubblico cade in depressione perché il vuoto cosmico e siderale morde le caviglie. Guardiamo l'orologio ma il tempo, quando ci si diverte, non passa mai. Se voleva far ridere non ci è riuscito. Ma è un lavoro, fatto con la mano sinistra, che ha anche delle pretese: irrompe in scena una coppia che nell'arco di un minuto ha finito la sua parabola esistenziale di incontro, conoscenza, amore e separazione. Non risulta nemmeno infantile perché anche i bambini lo avrebbero trovato banale e sciatto. Non riusciamo a trovare un appiglio, nessuna salvezza arriverà in nostro soccorso. Tocca rimanere fino alla fine per vedere se ci stiamo sbagliando: ecco che imperversano balletti non sense tra la figlia depressa per essersi lasciata dal fidanzato e la madre mentre il compagno resta inspiegabilmente per un buon quarto d'ora sotto il lenzuolo disperato e temiamo che invece non stia soffocando. La madre si veste come il fidanzato (in una sorta di transfert da Psycho al contrario) e il tutto ha un gusto rancido tra il trash e l'incomprensibile. Ma una è la domanda più pressante che ci ronza in testa: perché tutti e tre gli interpreti hanno i calzini bucati? Non lo sapremo mai, come il terzo segreto di Fatima: insvelabile. Il teatro è moribondo, il pubblico allibito, esterrefatto, restiamo increduli tra il soporifero e pesanti silenzi. La recitazione questa sconosciuta. Senza parole era lo spettacolo, senza parole siamo rimasti noi.

Di tutt'altra pasta “Ballon's Adventures” del Collettivo Clown, certamente uno spettacolo per i più piccoli ma che mai scade nella stupidità del gesto, nel facile, nel triviale; invece ha pennellate, poesia, leggerezza, gentilezza, garbo. Già a partire dai costumi dei due interpreti, uno in giallo e l'altro in blu, una chiara presa di posizione cromatica a favore dell'Ucraina. In scena una grande mongolfiera, che muovono con i piedi come fa Fred Flintstones con la sua auto in pietra, e questi due clown goffi e incerti, sbadati e caotici, “sbagliati” come tutti i pagliacci, dalle scarpe grosse e dal cuore altrettanto ampio che si fanno i dispetti ma sono legati da profonda amicizia. Con dei semplici palloncini allungati e cilindrici compiono trasformazioni alchemiche: diventano gabbiani, poi un arco e racchette da tennis, volante di auto e cintura e tergicristalli, ombrello e sterzo di motocicletta, onde del mare e pesci, maschera da sub e pinnai fiori del nuovo mondo.jpg di squalo, bocca e orecchie di coniglio, salsiccia, fiore, ape e cane al guinzaglio (ricorda l'opera di Jeff Koons esposta al Museo Guggenheim di Bilbao), pappagallo sulle spalle dei pirati, fune, elica, spada, fin quando non vengono ingoiati e fagocitati dalle stesse gigantesche palle. Un messaggio anche ambientalista, per insegnare ai più piccoli che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. E che qualsiasi oggetto può portare felicità e stupore.

Due amici, legati da un doppio filo di dipendenza, sadico e masochista, sicuro e incerto, deciso e titubante, decidono di lasciare il nostro mondo e di imbarcarsi per altre terre forse cercando “I fiori del nuovo mondo” (compagnia Teatro Segreto, testo, interprete, regia e costumi di Ludovico Buldini). Arrivati la sera su una banchina in attesa di questa barca-Godot per salpare per altri lidi ci ricordano i migranti che lasciano tutto per cercare fortuna altrove: ma aspettano una barca a vela e il loro abbigliamento con polo, pantaloni bianchi e scarpe firmate li identifica più con Porto Cervo che con la Libia. La notte una tempesta shakespeariana sta per travolgerli e sommerge tutto tranne quel limbo di asfalto, quella boa di cemento che adesso (come l'abbazia francese di Mont Saint-Michel con la marea) galleggia in mezzo alle onde. Soltanto con una scatola magica-oracolo che contiene delle carte riusciranno a placare i marosi e i flutti confessandosi peccati per troppo tempo celati, mettendo sul piatto recriminazioni e colpe, aprendosi finalmente oltre l'ipocrisia di rapporti consolidati e incancreniti. Tra i due emerge attorialmente, e soprattutto una bella voce profonda, Diego Frisina, il personaggio timido e irrisolto. La storia è buona anche se quando si mischia il reale con il metaforico si rischia sempre di non essere credibili. La mattina dopo, quando è tornato il sereno, e i due protagonisti sono usciti indenni da questo sogno-incubo, riappare la strada e uno dei due prende effettivamente questa barca che arriva veramente a prenderlo; in quel momento il simbolismo decade e noi crediamo un po' meno a tutto l'impianto.

Pezzo generazionale, ma di valore e qualità, è questo “Mi ricordo”, del gruppo siciliano Barbe à Papà, scrittura e regia di Claudio Zappalà, con in scena tre brave protagoniste che tirano fuori dai loro magici cassetti ricordi d'infanzia che mischiano il piccolo particolare personale autobiografico con la grande storia che scorre con noi, attraverso noi, malgrado noi. Ne emerge un quadro per niente consolatorio della generazione under 30 confusa, con i sogni spezzati prima ancora di averli pensati o sperati, alla quale hanno tolto anche le illusioni, il lavoro, la pensione che non ci sarà, una generazione cresciuta in una scuola che non boccia più, in una università triennale a crocette che ti dà il pezzo di carta ma non forma, una generazione di ragazzi in balia di telefonini e falsi miti, like sui social e apparenza su Instagram. Un j'accuse. Tirano fuori i loro diari e appunti (hanno cazzimma da vendere e capacità interpretative Chiara Buzzone, Federica D'Amore e Roberta Giordano), come doni, come conigli da un cilindro delle meraviglie che però porta più lacrime che sorrisi, poesie, scatti di viaggi. Ne esce fuori insicurezza, incertezza sul domani, anzi voglia di vivere soltanto il presente perché il futuro, Mi ricordo - ph Vito Raia 3.jpeganche a breve gittata, fa paura, perché tutto è in rapido cambiamento e non si riesce a prendere le misure e questi ragazzi non hanno antidoti in uno dei Paesi con la più alta disoccupazione giovanile, dove i ragazzi non vanno a votare perché non si sentono rappresentati, dove è facile deprimersi e demoralizzarsi perché non si hanno orizzonti, perché la meritocrazia non è di casa qui, perché i migliori se ne vanno all'estero. Ed escono da questi parallelepipedi medaglie e cd, libri e sciarpe di squadre, polaroid e cravatte, cappelli. Sono giovani e sembrano parlare con una nostalgia canaglia di un mondo lontanissimo e soprattutto che non ritornerà, come se quella felicità non potesse tornare mai più. Si sente sfiducia e rassegnazione e un lasciarsi andare che fa male all'anima. Ma più che altro, la parola che torna più spesso è “paura” di un mondo che non c'è più e di uno che non si riesce né a costruire né tanto meno a vedere né immaginare.

E' complicato quando continuamente ti cambiano le regole sotto al naso e tutto si muove troppo velocemente e tu non sai, anche perché nessuno te lo ha insegnato, come muoverti, in quale direzione andare in questo deserto dove se la cava chi ha le spalle coperte o talenti sopra la media: ma tutti gli altri? Rimangono in quella vaghezza che va ad ingrossare il fiume degli insoddisfatti, dei consumatori compulsivi, degli infelici che si sfogano sulla tastiera. “Quello che oggi sembra imprescindibile domani sarà dimenticato”, “Quello che oggi sembra importante domani ci sembrerà ridicolo”. Senza punti di riferimento, in balia delle onde, in mezzo a cambiamenti che non si sanno fronteggiare, senza scialuppe di salvataggio è normale annaspare, galleggiare a stento se va bene, o perdersi nel vittimismo o peggio ancora nel nichilismo. I ricordi fanno male perché ti portano nel terreno caldo familiare quando tutto era più piccolo e certo, quando le responsabilità erano ovattate, quando tutto era più semplice. Questi ragazzi sembrano siano senza pelle, più soggetti alla sofferenza, senza rimedi né farmaci contro questo mondo globalizzato che ogni giorno sembra sempre più grande tanto da soverchiarli, fagocitarli in un solo boccone, dove tutto è da consumare e in fretta altrimenti si perde, si sciupa, si rompe o qualcuno ce lo ruba: “Sarà così spaventoso il futuro?”, si/ci chiedono. Non possiamo rassicurarli, purtroppo. “Perché a vent'anni è tutto chi lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età”, diceva Guccini indossando il suo “Eskimo”. Non viene da condannarli questi ragazzi, verrebbe invece da abbracciarli. Sarebbe bello dire loro “Andrà tutto bene”, ma anche i cartelli sui balconi accanto al basilico si sono sdruciti e sgualciti e scoloriti.

Tommaso Chimenti 26/09/2022

SPOLETO – Gli esperti ci dicono che Don Giovanni e Casanova hanno tratti dissimili, lontani, divergenti. Eppure hanno in comune, a nostro avviso, da una parte la cupezza della disperazione esistenziale che li porta a cercare la carne non come soddisfazione ma come dissoluzione e disfacimento e distruzione, dall'altra la morte che aleggia, quasi la ricerca furiosa e forsennata della stessa, quasi fosse una punizione autoinflitta, una discesa agli inferi attraverso i piaceri smodati, attraverso l'abuso, l'eccesso, la caduta. “Don Giovanni” (3h 30' con intervallo) può essere rappresentato in forma leggera o in una versione più introspettiva, questa del Teatro Lirico Sperimentale spoletino, diretto da Salvatore Percacciolo e per la regia di Henning Brockhaus, tira molto sul lato comico, la prima parte, 02_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpge pesantemente drammatica la seconda, pur sembrando ridondante, troppo sottolineata. Rimane lievemente nel guado, nella non scelta, in un equilibrio equidistante che non soddisfa né l'una né l'altra parte restando imbrigliato in un gioco di colori sgargianti e soprattutto in una scenografia esondante, piena di riferimenti, anche non coerenti, colma di segni e oggetti che hanno spostato l'attenzione sui significati, sulla forma più che sull'analisi profonda di un testo multisfaccettato e composito come appunto il Don Giovanni. Se lo rappresenti soltanto come un donnaiolo irriducibile, un guitto, un bravo, un guappo (forse dovrebbe anche farci simpatia?) che ottiene le virtù delle fanciulle con stratagemmi, furbizie, inganni e violenze, fai un torto alla sua figura e, in maniera maggiore, a tutto il marcio, il sommovimento interiore emotivo psicologico di un personaggio che incontra la Morte, uccidendo caravaggescamente il Commendatore, e portandosi addosso come stigma, il simbolo dell'inferno. Un Don Giovanni che all'inizio entra dentro una tela da pittore, come un Dorian Grey, sfondando la parete ed entrando in un disegno più grande di lui.

Qui, nel primo atto in maniera evidente ma anche nel finale, si cerca più uno sfogo burlesco, burlone e gioviale, si fa leva sul battutistico (ad esempio un Leporello, disegnato con giacca di cuoio alla Fonzie, è raffigurato soltanto come un ruffiano bieco quando in realtà è l'altra faccia della medaglia di Don Giovanni). Si punta molto sul sesso, sugli incontri, sugli amplessi patologici, sul gioco d'accumulazione, anche se sembra che il nostro Cavaliere, rocker irrispettoso, impetuoso, libertino e arrogante, ami più la conquista seriale e sincopata e bulimica che la carnalità vera e propria: come se avendo perso la propria anima volesse cibarsi vampiristicamente di altre aure per riempire questa sua mancanza profonda e vuoto siderale succhiando la vita di vergini per ritrovare la purezza e il candore dissipati e smarriti per sempre. E ci ha lasciato stupiti la decisione di vietare la visione dell'opera mozartiana ai minori di diciotto anni: la parte più scabrosa, ad essere fiscali e ortodossi, era la locandina (scena non presente sul palco perché è un dipinto di Jack Vetriano) con Don Giovanni in piedi e una fanciulla seduta su una sedia 04_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdi spalle in una posa da possibile, ma non esplicita, eventuale fellatio. In scena invece nessun momento di nudo, nessun quadro discinto o smaccatamente violento, con i costumi delle ragazze che ricordavano il Moulin Rouge con qualche fondoschiena al vento ma niente che non si trovi in ogni sito internet pubblicizzando lingerie e pizzi vari.

La cosa però più ingombrante e imponente che ha destato in noi più perplessità è stata la scenografia monstre, curata più per colpire nella sua abbondanza e voracità che per l'efficacia e la funzionalità: tra i fondali che si susseguono forse soltanto il primo, con sette donne di schiena (una sorta di ballerine di Degas con in mostra in prima vista i sederi rotondi) e l'ultimo con uno sbaffo di vino (sangue e sesso) possono in qualche modo essere in linea con il titolo, gli altri che si susseguono, astratti, riescono a complicare maggiormente la visione di ulteriori colorazioni e cromatismi. 05_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgIn alto restano sospese decine di sedie (Ionesco?) alle quali non siamo riusciti a trovare un significato soddisfacente. Cadono dall'alto infinite paia di scarpe femminili con tacchi vertiginosi per feticisti, mentre ai lati della scena, un po' nascosti e nel buio, stanno banchetti con tavole imbandite, quasi brechtiane, e candelabri con uomini e manichini nudi di donna come se la scena che stiamo-stanno guardando sia teatro nel teatro all'interno di un locale da spettacoli hot, come le odalische nei palchetti con le bolle di sapone. Addirittura, ad un certo punto, spunta anche un orso polare bianco (sembra quello di uno spot anni '90 della Coca Cola) che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a collocare né filologicamente né come scelta azzardata e contemporanea. Insomma tanto, molto, troppo, un frullato 06_DonGiovanni_FotoLudovicaGelpi.jpgdai tanti gusti aggiunti per somma e forse non per esigenza narrativa o drammaturgica.

Le donne in bianco virgineo, mentre Don Giovanni inguaribile uomo senza onore, mentitore e traditore e bugiardo è in un giubbotto nero da motociclista demoniaco, non hanno libero arbitrio ma si lasciano prendere come burattini senza scelta né consapevolezza per poi, alla fine, cercare di fargli la pelle per punirlo moralisticamente: “Questo è il fin di chi fa mal”. Anche il Commendatore, che torna dal mondo dei defunti per colpirlo con le fiamme degli Inferi, si presenta dalla Platea (tecnica qui spesso usata per non dire abusata) con i led che lo illuminano da sotto la giacca. Più che l'opera incede e più zoppica. Infine sottolineiamo i costumi di Giancarlo Colis e tra il cast spicca Alessia Merepeza nei panni di Donna Elvira.

Tommaso Chimenti 20/09/2022

Foto: Ludovica Gelpi

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