FIRENZE - “Ogni corpo immerso in un fluido subisce una forza diretta dal basso verso l'alto di intensità equiparabile alla forza-peso del fluido spostato”. Semplicisticamente, una sorta di azione e reazione. Siamo, inevitabilmente, in una piscina, anzi negli spogliatoi tra armadietti e la scena, didascalica ma efficace, di Federico Biancalani (il pubblico è posto sul palco del Teatro di Rifredi), che ci ricorda proprio le corsie di una vasca olimpionica con i galleggianti a dividere il percorso dei nuotatori. E subito la mente vola al videoclip anni '80 “Smalltown boy” dei Bronski Beat: acqua, spogliatoi, violenza, nudi, prurigine, voyeur. Già perché nel testo acuto e brutalmente psicologico del catalano Josep Maria Mirò si parla di acqua come liquido amniotico, ovvero come affetto e dolcezza e salvezza e protezione degli adulti verso i più piccoli, si parla di acqua come galleggiamento di fronte alle accuse infamanti, si parla di acqua in termini di annegamento dentro la shit storm, si parla di acqua come boccheggiamento tra le insidie di chi vuol vedere il male ad ogni costo, si parla di acqua come paura dell'ignoto, del cadere, del non riuscire a riemergere, soffocare in mezzo ad imputazioni dalle quali è difficile difendersi.
Ci sono due istruttori giovani (i gagliardi e muscolari Giulio Maria Corso e Samuele Picchi, fisico da gladiatori guerreggianti ben affiatati, affilati e allineati, credibili in tutto l'excursus drammaturgico, tranne che nello scontro fisico risultato ben poco realistico e alquanto posticcio) che sono caratterialmente agli antipodi: uno, il nostro antieroe Corso (sguardo pungente da Lucignolo provocatore e bella tenuta su quella linea sottile tesa tra l'abisso e l'arroganza), spigliato, contro le regole, scavezzacollo, l'altro (Picchi ha fatto un salto di qualità rispetto a “Tebas Land”) è più saggio, posato, con la testa sulle spalle. C'è la responsabile della struttura, Monica Bauco storica attrice con molta esperienza, qui spinge troppo sul melò, che diventa ago della bilancia tra il mondo interno che si sviluppa tra bambini e acquaticità, e quello esterno che vede, controlla, giudica gesti dal cemento delle tribune e affibbia significati a movimenti e tenerezze travisando in malafede la realtà.
C'è ne “Il principio di Archimede” (regia e traduzione di Angelo Savelli; la prima italiana nel 2018) la grande paura del nostro tempo, ovvero quella di perdere la reputazione e, grazie e per colpa dei social network e degli smartphone sempre a portata di mano e di clic e di video, che ci vogliono trasformare in giustizieri della notte, in citizen journalist, in persone in grado, senza conoscenza delle leggi e ignare delle conseguenze, di mettere online contenuti estrapolati, momenti che diventano assoluti strappati a contesti dove sarebbero stati relativizzati. Questa mania, che si fa smania, di diventare giudici della vita degli altri, di essere tutti moralizzatori delle vite degli altri, questo poter monitorare, con la spada di Damocle appunto del telefonino (ma bastano anche le voci di corridoio e le chiacchiere che in un attimo attraverso le chat di whatsapp diventano “virali”, come piace tanto dire), questo aver sempre tutto sotto controllo, questa censura preventiva, questo sorveglianza sociale reciproca, il gusto per il fake che diventa trash e gossip, questo decontestualizzare, e quindi questo rendere freddo ogni rapporto, dinamica e relazione inevitabilmente ha distrutto la spontaneità, l'allegria dell'improvvisazione facendoci sempre chiedere, prima di muoverci, se un gesto o un atteggiamento potrà essere compreso nella sua sincera e reale forma o se potrebbe essere scambiato e frainteso e giudicato “inopportuno” (altra parola che va molto di moda). Abbiamo paura e nella paura legiferiamo e vogliamo che tutto sia spiegato e chiaro, ma il mondo ci sfugge continuamente di mano e invece vogliamo ingabbiarlo, metterlo in categorie ferree uscito dalle quali sei in fallo, senza possibilità di redenzione, passibile di gogna mediatica.
Un bambino piccolo, avendo paura dell'acqua, era stato abbracciato e baciato (l'insegnante dice su una guancia, una bambina che ha visto la scena dice sulle labbra) dall'istruttore. Comincia un processo illecito alle intenzioni fatto di accuse (essere un pervertito, un molestatore) dalle quali non è possibile difendersi, i genitori montano rabbia e schiumano vendetta (Riccardo Naldini, altra colonna attoriale di Rifredi, non è così incisivo nel lasciarci nella sospensione, nel dubbio su da che parte stia la ragione), l'istruttore infangato e additato, prima di essere omosessuale poi pedofilo (anche se differente per età e vicende può far nascere un parallelismo con “Il caso Braibanti” di Massimiliano Palmese), non sa a cosa appigliarsi per tentare una difesa (tutto sembra assurdo e grottesco) e più cerca di spiegare più si infila in un ginepraio di spine alimentando il sospetto, aumentando la sfiducia attorno a sé. Un gesto che poteva essere di sostegno e supporto ad un piccolo nuotatore tremolante (l'interpretazione e la regia però ci fugano ogni possibile punto interrogativo ed equivocità annullando le ambiguità sulle quali il testo si fonda e donandoci la verità dell'assoluzione e dell'innocenza dell'incriminato che non viene mai messa realmente in dubbio) diventa la ghigliottina, il casus belli, il nodo del contendere, il crack che fa scivolare la vicenda nella tragedia, che fa ribollire gli animi mettendo da parte la logica razionale e pensando soltanto a farsi giustizia da soli.
Molto interessante la scelta del riavvolgimento del nastro, con il classico rumore del rewind delle cassette musicali, per ritornare alla scena precedente, tornare ad un prestabilito momento e da lì ripartire argomentandola, aumentandola, perfezionandola. Escamotage, usato più volte all'interno della pièce, ma che risulta sempre funzionale, fruttuoso, puntuale, una scansione che fa rielaborare gli eventi, riassestare i fatti, riallineare le prospettive. Il politicamente corretto ci distruggerà perché disumanizza e imbriglia, raffredda i rapporti, toglie la vita, il calore. Un testo attualissimo, necessario, indispensabile.
Tommaso Chimenti 04/04/2022
Foto: Pino Le Pera