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A teatro, quando si tratta di riscritture, orma già da un po’ il nome di riferimento è quello di Letizia Russo. Confrontatasi più volte con i classici (“Filottete”, “Uno Zio Vanja”), è sempre riuscita a darne una visione allo stesso tempo alterativa e fedele. La sua penna rispetta la drammaturgia d’origine, la arricchisce senza mai snaturarla, anzi spesso ne esalta gli aspetti sempreverdi, con spettacoli di conseguenza moderni e angolari.
Stavolta, nella lente di ingrandimento dell’autrice, “I fratelli Karamazov”: “Ivan”, andato in scena al Teatro India di Roma fino al 22 aprile, è liberamente tratto dal libro di culto di Dostoevskij. Ivan2Ne risulta uno straziato e straziante monologo dalla voce del fratello che dà il nome al titolo. Intrappolato scenograficamente in un vortice di pagine e narrativamente in un limbo di silenzio e oscurità, il protagonista ripercorre ricordi chiave della sua vita scatenati dalla domanda più antica del mondo, “Chi sono io?”, applicata però al suo intero nucleo familiare. Chi sono i Karamazov? Cos’è questa famiglia dal destino terribile e cos’ha fatto per meritarselo?
La risposta, inevitabilmente parziale ma molto ficcante, viene dallo spettacolo stesso, che riapre la ferita mai rimarginata di una memoria martoriata da traumi, violenze, vuoti filosofici e dubbi esistenziali. L'interprete solista Fausto Russo Alesi non si limita però a far parlare il cerebrale Ivan, tra sé o con il piccolo Alyosha, ma si trasforma pure nei suoi peggiori incubi, un padre rozzo e un demonio dispettoso. Il suo barcamenarsi emotivo senza risparmiarsi fa esplodere la regia di Serena Sinigaglia, dove ogni piccolo gesto pesa come un macigno. Tutto è soppesato attentamente, nel pozzo claustrofobico di un’esistenza proiettata verso l’eterno, prima con odio e poi con paura, ricaduta infine nella follia.
Tutto il malessere di Ivan Karamazov rivive quindi, senza essere invecchiato di un giorno, in una pièce che nella sua voluta staticità ottiene di scuoterci nel profondo. La domanda sulla propria identità ritorna, ogni volta un pizzico più dolorosa, ricordo dopo ricordo. Fede, rabbia, passioni alte, passioni basse, forze, debolezze, sogni e incubi, racconti e leggende si avvicendano in una ferrea ring composition. E, forse, proprio in questo giace la tanto agognata risposta: cosa sono i fratelli Karamazov? La storia che unisce i più terribili frammenti dell’umano, una manciata di vite impossibili da vivere, ma incredibili da rivivere.

Andrea Giovalè
23/04/2018

Alessio Bonomo esordisce nel 1999 per Sugar Music, con il singolo “Il deserto”, per poi partecipare al Festival di Sanremo d’inizio millennio, l’anno successivo, con “La croce”. Da allora sono passati 18 anni, lo spazio enorme di un’adolescenza. Ma, si sa, gli anni in musica non trascorrono sempre uniformi. A volte un lustro è sufficiente a rivoluzionare una scrittura, altre volte non basta una vita intera.
La voce musicale di Bonomo ritorna, coerente a se stessa, lentamente scivola su un tappeto musicale dal ritmo posato, dolce, avvolgente. L’autore conserva, per scelta o per indole, il proprio cuore narrativo, che lo lega saldamente a sonorità tipiche del cantautorato cosiddetto “di una volta”. Se da una parte, negli ultimi anni, proprio le dinamiche del genere vengono riabbracciate da larga parte del nuovo indie alla Calcutta, dall’altra quest’ultime si rimodellano di solito attraverso un disagio generazionale e una poetica espressiva peculiari. Alessio Bonomo, invece, si rifà anche nell’arrangiamento a precise eco cantautorali anni ’70 e ’80: Battiato, Dalla, Vecchioni (suo professore al Dams di Torino, dove, colpito, lo invitò a presentare il suo disco d’esordio “La rosa dei venti”). E questo solo per citare tre grandi nomi che saltano alla mente e all’orecchio durante l’ascolto de “La musica non esiste”.
Un sound denso e d’atmosfera è la materia prima dell’album prodotto da Esordisco, e che verrà presentato dal vivo al Monk di Roma il prossimo 16 maggio. Il disco presenta arrangiamenti curati e suonati da Fausto Mesolalla, sostituito poi, dopo la prematura scomparsa, da Tony Canto. Il secondo, fortunatamente, 2ha saputo premiare e valorizzare in postproduzione tutte le 12 tracce, incluse quelle appena delineate dal primo, compagno musicale di Alessio sin dagli albori. Gli stessi Avion Travel, con cui l’autore ha collaborato spesso in carriera, sono presenti quasi per intero, qui e là nel disco, a impreziosirlo di intensi cameo. Su tutti, spicca il caldo sassofono di Peppe D’Argenzio in “Contatto immediato”.
Nonostante tali e tante altre partecipazioni, comunque, Bonomo mantiene il suo ruolo distinto di timone e voce narrante, quest’ultima addirittura letteralmente. Dipinge con gesti delicati canzoni fugaci, o più dilatate e sognanti, alla maniera di un pittore d’acquerelli. Brani aritmici come “Un lago” o “Certe vecchiette” durano appena il tempo di mettere a fuoco una visione ispirata da versi e immagini, quasi fossero, anzi, essendo vere e proprie poesie in musica.
Il recitato, d’altronde, è pietra cardinale dell’ormai consolidato stile bonomiano. È un marchio di fabbrica, il suo personale contributo al genere cantautoriale che, paradossalmente, oggi risulta più fresco nelle sue vesti meno moderne. Dai titoli delle canzoni ai testi, tutto sembra suggerire una fuga dall’attualità: la stessa negazione proclamata da “La musica non esiste”, che continua “…esiste un’altra cosa di cui la musica è una serva e come tale va trattata”, ha il sapore di commossa recusatio. Alessio Bonomo insegue dunque un interlocutore ideale, o immaginario, o entrambe le cose, cui rivolge sovente un’affettuosa seconda persona singolare. Il suo non è un disco che lo troverà facilmente, quell’interlocutore, perché volutamente anticlimatico sulla scena attuale. Ma quest’elemento, al contempo caratteristico e caratterizzante, lo distingue (oggi come 18 anni fa) e donerà, a chi sa navigare nell’oceano calmo tra poesia e malinconia, un viaggio memorabile.

Fotografie di Piero Libelli Marsili

Andrea Giovalè 19/04/2018

Opera musicale povera e senza musica, recita il sottotitolo dello spettacolo, subito prima di specificare “scrittura scenica ispirata alle opere di B. Brecht”. La promessa, in data unica al Teatro Vascello di Roma lo scorso 9 aprile, è mantenuta: i personaggi sono, e viene più volte ripetuto, attori in scena, preoccupati di recitare innanzitutto per noi, per il pubblico. Diventiamo così lo sguardo di una società che, persino attraverso il meccanismo dell’immedesimazione, riesce a seppellire la proverbiale trave custodita gelosamente nel proprio bulbo oculare. Ma lo straniamento brechtiano di questo “Bailamme” (dal turco “bayram”: confusione, baraonda) cortocircuita la nostra pigra abitudine catartica.
Sul palco, ritroviamo un affresco sociale e politico grottesco di un mondo, tra una risata e una vena pulsante di inquietudine, di cui non possiamo tralasciare le somiglianze con il nostro. Lo spettacolo inizia per “quadri”, intervallando tantissimi personaggi diversi, peraltro impersonati con entusiasmo camaleontico da una lista di interpreti relativamente ristretta (Gabriele Ciccotosto, Silvia Corona, Arianna Iacuitto, Gioia Giulianelli, Francesco Giuliano, Beatrice Progni, Maria Sivo, Pasquale Smiraglia, Lorenzo Tracanna e Gianmarco Vettori). Ben presto, però, gli episodi collimano sempre in una vicenda unica, ampia, umana e universale. Oltre che, è proprio il caso di dirlo, cristologica.Bailamme5
La trama, infatti, affronta uno dei più grandi “e se” della narrativa esistenziale recente. E se oggi la società odierna ospitasse la venuta di un secondo Cristo? Puntuale la risposta, fantasiosa quanto cruda, cinica e convincente, dell’eccentrico universo creato e diretto da Simone Barraco. Quest’ultimo è aiutato in cabina di regia da Maria Sivo e coadiuvato da un esteso di team della Compagnia Girasole. Non ultimo spicca il nome di Arianna Manias, a gestire le voci deputate anche all’accompagnamento musicale, visto che di strumentale non c’è neanche una nota. Pregevoli anche le coreografie, danzanti o drammaturgiche, di Vincenzo Gentile, e la pletora di costumi di Davide Zanotti.
In circa 90 minuti di teatro, dunque, assistiamo al susseguirsi dolceamaro di vite alternativamente intoccabili o miserabili, con protagonisti caratteri a dir poco variopinti e dal carisma indubbio. Il custode dello Zoo Cristopher, ingenuotto elevato a messia, compare Annibale, da venditore di bestemmie a spietato neo-apostolo, Osana, prostituta dal cuore agonizzante, e la segreta élite dei potenti, nell’ingrato e impunito ruolo di burattinai della Terra. È forse questo il più grande punto di forza di “Bailamme”, come dimostri che è ancora, e sempre, possibile raccontare una storia dal respiro tanto ampio senza rinunciare a un grammo di ironia, generosa e dissacrante, o alla profondità del messaggio. Questo comincia a sussurrare la propria nenia, sottovoce, nel quadro iniziale, fino a esplodere, lirico e roboante, in quello finale. Ci lascia spiazzati, colpiti e smossi nel profondo. In una parola: commossi. Perché, Brecht o non Brecht, straniamento o immedesimazione, “essere o non essere”, in una grande storia raccontata con passione la catarsi trova sempre la sua strada.

Andrea Giovalè
13/04/2018

Non è cosa infrequente vedere raffigurati, all’interno di una lente artistica, i conflitti e le ferite dell’Umanità che stentano a rimarginarsi, nonostante un’immagine di quiete apparente. Il dramma della mancata, o difficile, integrazione d’altronde è sempre in agguato, quando viene raggiunta una situazione di pace o quantomeno di stabilità. La regista palestinese Annemarie Jacir pesca proprio da questo giacimento con “Wajib – Invito al matrimonio”, al cinema dal 19 aprile. Delicato e atipico road movie che ritrae un padre e un figlio viaggiare nella Palestina nel rispetto della tradizione (conosciuta per l’appunto come “Wajib”) che richiede che tutti gli inviti per un matrimonio siano consegnati a mano e di persona dai familiari.
A sposarsi è Amal (Maria Zreik), figlia e sorella dei due incaricati dell’onore e onere, compiuto peraltro tra le tante e tali difficoltà tipiche di ogni pellicola su quattro ruote: da vicini villani a pneumatici forati, da errori tipografici a remore morali. La promessa sposa si vede a schermo per pochi minuti, in modo non dissimile da ogni altro invitato o familiare che non siano Shadi (Saleh Bakri) e Abu Shadi (Mohammed Bakri), padre e figlio dentro e fuori dal film, come anche i doppiatori italiani, Andrea e Marco Mete.Wajib2
Il quadrilatero familiare è completato da una figura materna assente, la cui mancanza è però elemento drammaturgico rilevante: l’attesa del suo ritorno per partecipare al matrimonio e la sua stessa imprevedibilità, legata a cause di forza maggiore, hanno il sapore di spada di Damocle prima e, dopo, di quasi deus ex machina nel rivelare, e non risolvere, la liquidità dei conflitti padre-figlio. I due, separati da una trentina d’anni abbondante, sorvolano fin quando possibile i propri reciproci dissensi, giostrandosi in un ambiente a metà tra la claustrofobia di una macchina e l’estraneità casalinga dell’invitato di turno. Il figlio, emigrato in Italia, con una compagna e una famiglia nascente, che non ha intenzione di tornare e il padre, lasciato solo a crescere una figlia sul punto di sposarsi, che teme di rimanere il solo a camminare sulla strada percorsa da una vita. I chilometri corrono e, dilazionati da un ritmo posato e elegante, ci conducono fino all’inevitabile scontro non tanto di culture o generazioni, quanto di mentalità.
La regista e sceneggiatrice inquadra il tutto con prospettive immobili o tendenti alla staticità. Vuole forse riflettere l’ambivalenza statuaria di un luogo che, con i suoi pregi e difetti, le sue bellezze e difficoltà, non riesce a disincagliarsi da una situazione pietrificata. La divisione, sociale e non, emerge nervosa già tra un padre e un figlio appartenenti, per quanto non più geograficamente, alla stessa Palestina. È un punto di vista raro, proiettato dall’interno verso se stesso, a scrutare le ripercussioni familiari, sentimentali, intime se non private di due persone testimoni e testimonial di una transizione apparentemente eterna. Lungo i due argini di questa spaccatura, però, si parla la stessa lingua e si esprime, neanche troppo in profondità, un’armonia che magari un giorno, chissà quanto vicino o lontano, permetterà finalmente di sedersi e comunicare senza nascondersi nulla. Sia pure un vizio o un amore comuni, un tramonto di cui godere assieme.

Andrea Giovalè
09/04/2018

ROMA - “Solo i ricordi più veri ci trovano, come lettere indirizzate a chi siamo stati”. Con questa frase, inconsapevolmente, lo scrittore Simon Van Booy sembra avere acceso una lampadina nelle suggestioni del romanziere e drammaturgo romano Giuseppe Manfridi, o almeno fornito un prezioso spunto su cui costruire una delle sue commedie di maggior successo: Ti amo Maria!, del 1990. Dopo alcuni riadattamenti nel corso degli anni e una trasposizione cinematografica datata 1997, gli attori e doppiatori Fabrizio Pucci e Marina Guadagno riportano in vita i personaggi di Sandro e Maria, nei particolarissimi e intimi spazi del Teatro Stanze Segrete a Trastevere, dove lo spettacolo rimarrà in scena fino all’8 aprile. Ti amo Maria 2 Far indossare a Ti amo Maria! semplicemente i leggerissimi e sfavillanti abiti della commedia, però, potrebbe risultare fuorviante; ricollegandoci al tema portante dello spettacolo, cioè i ricordi di una relazione passata e il proprio ruolo nel presente di tutti noi, sarà naturale percepire la presenza sotterranea di toni oscuri e dolenti. Ti amo Maria!, dopotutto, è una storia di solitudine e di ferite mai rimarginate, causate dal rimorso e dal tempo, sempre ladro di cose mai dette. In un condominio di una non specificata città, poco prima di rientrare nel suo appartamento, Maria scopre di esser stata seguita dal vecchio compagno Sandro, che l’attende nascosto sul pianerottolo: è proprio in questo spazio, una sorta di zona grigia, di limbo fra interno ed esterno, fra realtà e sogno, che la coppia di un tempo lontano avrà modo, accompagnata dalla sensualità malinconica del jazz, di confrontarsi, più e più volte, tra rabbia e paura, ma non senza il piacere, maldestramente nascosto da Maria con un atteggiamento freddo e annoiato, di ritornare a esser vicini. Sandro si dimostra il personaggio più interessante, o almeno quello psicologicamente più d’impatto: un uomo che rinuncia all’orgoglio ma non alla dignità, cui basta rivedere il suo fantasma dal vivo, anche in questo modo, di sfuggita, sul pianerottolo di un condominio. Proprio per questo, l’interpretazione di Pucci dovrebbe forse lasciare l’impeccabile veste di doppiatore alcuni passi indietro, e farsi graffiare maggiormente dalla sottile drammaticità nevrotica di alcune scene, slacciando qualche bottone in più. In ogni caso, per entrambi gli attori si tratta di una prova notevole e interessante, che convince lo spettatore lasciandolo andar via mentre, a sua volta, torna dai fantasmi del proprio passato.

Alfonso Romeo - 6/04/2018 

(Foto di scena: Sebastiano Vianello)

In una società come la nostra, tra stimoli televisivi, letterari, pubblicitari, cinematografici, politici e persino teatrali, abbiamo la percezione di conoscere ogni cosa. Conosciamo i nostri desideri a menadito, i nostri limiti, le nostre capacità e le nostre paure. Abbiamo paura, ad esempio, di tutte le malattie che non abbiamo, dai nomi altisonanti e che vediamo rappresentate, per l’appunto, ogni serie televisiva su due, sul grande schermo, o quelle di cui sentiamo parlare al telegiornale. E per quanto riguarda le cose, anzi, le malattie che non conosciamo? A rigor di logica, non possono intimorirci. Ma forse dovrebbero.
Questa è la prima, ma non ultima, riflessione che emerge da “Monsieur Sjogren e il coraggio di una donna”, andato in scena al Teatro Brancaccino di Roma, in data unica, lo scosjogren 1rso 29 marzo. Dalla penna di Elena Tommasini e di Stefano Sarcinelli, anche regista, interpretato dal duo Sarah Maestri-Adelmo Togliani, lo spettacolo è ispirato dal libro “La sabbia negli occhi” (da cui anche l’omonimo film di Alessandro Zizzo, con lo stesso Togliani) di Lucia Marotta, presidente di A.N.I.Ma.S.S. Onlus (Associazione Nazionale Italiana Malati Sindrome di Sjogren), che ha co-prodotto la pièce teatrale con Accademia Togliani. La Sindrome di Sjogren è una condizione auto-immune e degenerativa rara, che colpisce in gran parte donne e che, soprattutto, è sconosciuta ai più. Benché, dunque, la malattia produca nel tempo sintomi terribili, il dolore più grande viene inflitto proprio dal non sentirsi compresi, o quantomeno creduti.
La partita si gioca quindi tra la donna, un’empatica Sarah Maestri (“Notte prima degli esami”, “Il pretore”) capace di rappresentare entrambi gli opposti di un complesso dramma psicofisico e la sua sindrome personificata da Adelmo Togliani (“Boris – Il film”, “Un matrimonio”). Quest’ultimo, senza perdere un colpo né calare un secondo di intensità, si trasforma da gentiluomo d’altri tempi tutto eloquio e rime baciate a essere grottesco, sporco e maleodorante, sudiciamente e scarsamente vestito. Nella battaglia, che si fa presto guerra, la vittima non perde soltanto la padronanza del proprio corpo, ma quella dei suoi affetti e delle sue certezze. Eppure, quando le rimane da sacrificare solo la sua anima, proprio la donna trova una rivincita nel riconoscimento medico della sindrome, ormai partner di una vita. Creduta e riunitasi alle altre donne che soffrono come lei, ecco che rialza la testa, la voce e lo sguardo di fronte a un nemico che, spogliato (dentro e fuori di metafora), si rivela poco più di un germe fragile e impotente. Perché conoscere il proprio destino equivale a dominarlo, almeno abbastanza da non averne più paura, da non esserne schiavi.
Il tutto si svolge in un dialogo continuo tra l’uomo e la donna, che lascia intravedere stralci allegorici di conflitto sessista, arricchito peraltro da un ampio citazionismo musicale e culturale. Durante lo spettacolo, abbiamo modo di assistere a brevi numeri cantati, danzati, così come capita di ridere o trattenere il respiro. È un viaggio temporale all’interno di una stanza, che guarda al passato e al futuro attraverso il racconto, il ricordo, le emozioni e le parole. E niente, meglio di un’esperienza del genere, è più adatta a insegnare, con l’inganno furbo (e giusto) dell’intrattenimento.
Sjogren 2La stessa Lucia Marotta, autrice di tre libri narrativi e divulgativi (oltre al già citato “La sabbia negli occhi”, la fiaba illustrata “La Principessa Luce – Lo gnomo Felicino” e “Dietro la Sindrome di Sjogren”), attraverso questo spettacolo ci mette in guardia dalla presunzione di conoscere ogni cosa, che forse è essa stessa il nostro peggior male. La Sindrome di Sjogren, tutt’oggi, non gode ancora nel nostro ordinamento dello status di malattia rara, campagna per cui si batte A.N.I.Ma.S.S. Onlus e, di riflesso, “Monsieur Sjogren e il coraggio di una donna”. Aperto infatti un sottile sipario rosso, davanti ai nostri occhi si muove, canta e balla la prova vivente (presto in tournée nei teatri italiani) che in determinate situazioni ogni piccolo aiuto può fare la differenza tra una spirale di sofferenza e una vittoria che vale una vita. Anche un gesto apparentemente minuscolo, quale sollevare una cornetta che squilla e parlare.
Andrea Giovalè
4/4/2018

 

Fotografie di scena: Giancarlo Fiori

Ready Player One” è, innanzitutto, un romanzo di successo pubblicato nel 2010 (in Italia nel 2011), dello scrittore e sceneggiatore Ernest Cline. Prima ancora che imparassimo a distinguere l’onda contro-culturale che ci avrebbe travolto di lì a poco, il libro si fondava sulla nostalgia insaziabile delle generazioni cresciute dagli anni ’80 in poi, sotto la stella pop del gioco di ruolo, del videogioco di massa e delle realtà virtuali, nei cinema o nei social network. Il romanzo, peraltro opzionato già mentre nasceva, diventa oggi un film di Steven Spielberg, sceneggiato dallo stesso Cline insieme a Zak Penn (“X-Men: Conflitto Finale” e “L’Incredibile Hulk”, tra gli altri cinefumetti).
Nel 2045, il mondo è ormai ridotto a resto agonizzante di se stesso, con povertà e inquinamento oltre i limiti del sopportabile. Nessuno però se ne cura, dal momento che un genialoide visionario (no, non Spielberg) ha creato Oasis, un universo digitale in continua espansione dove potersi creare una seconda vita. RP1Giocare, amare, divertirsi, arricchirsi, essere felici: non c’è niente, dentro Oasis, che non sia a portata di chiunque, e questo ne fa il rifugio perfetto per tutti.
Inutile dire quanto fosse ambizioso trasporre a schermo la mole di riferimenti meta-culturali che il libro mette in gioco, tra film, videogame, anime e tutto il resto. Altrettanto inutile, ex post facto, ragionare su quanto l’uomo giusto per farlo fosse proprio Spielberg, regista di sconfinata esperienza e incorruttibile adolescenza visiva. A quasi 72 anni, Steven è ancora tra i più taglienti e puntuali samurai del “mostrare, non dire” hollywoodiano. Le spiegazioni da fornire agli spettatori fuori target (a patto di trovarne, forse, tra i nati nel primo dopoguerra) pioverebbero a tonnellate. Si riducono invece al minimo sindacale, nascoste nei meandri di un’orgia visiva di botte da orbi, luci strobo, proiettili e chilometri orari da capogiro.
Si dice che uno dei segreti del cinema sia non entrare in competizione con l’immaginazione dello spettatore. Eppure alcuni film, film come questo, vi si sostituiscono, la soppiantano e, in tutta onestà, non la fanno rimpiangere. Non vi è una sola sequenza nella digitale Oasis che manchi di colpire al massimo del suo potenziale, prima estetico e poi pirotecnico. Intanto, la realtà le fa da contraltare perfetto, con la sua asciutta claustrofobia di possibilità e condizioni. All’interno di questo conflitto, più esistenziale che ambientale, dei ragazzi si “giocano”, è proprio il caso di dirlo, il controllo del mondo virtuale con una crudele corporazione aziendalista. Qui, Spielberg trova pane per i suoi denti, inscenando l’ennesima battaglia di età e valori inversamente proporzionali. Giovani protagonisti di buone intenzioni (Tye Sheridan, Olivia Cooke) si scontrano con adulti d’ostacolo per loro (Ben Mendelsohn, l’antagonista) o per se stessi (Mark Rylance, guida spirituale postuma).
Le interpretazioni attoriali non sono intaccate dalla mediazione dei loro avatar, le identità create all’interno di Oasis, anzi, ne vengono esaltate, traslando il gioco degli alter ego sul piano narrativo dei personaggi. Un equivoco che, seppur marginalmente, ci provoca: cosa, nella sfera dei sentimenti, resiste oltre i confini del mondo fisico? È un tranello che Spielberg non resiste dal sottoporci, declinato in salsa cinematografica. Ecco quindi figurare, nell’autentica miriade di riferimenti pop, alcuni tra i nostri primi amori del grande schermo: T-Rex e King Kong, solo per citarne un paio, e un’intera sequenza prelevata, con rispetto e gusto del proibito, da uno dei film alla base del culto cinematico moderno. Non bastasse il resto, ci pensa quest’ultima a renderci impossibile ignorare la personale sigla del regista-direttore d’orchestra, un timbro a fuoco al contempo personale e universale. Il suo più grande punto di forza.

Andrea Giovalè 22/03/2018

Dall’8 al 18 marzo Mariné Galstyan è stata protagonista assoluta del Sala Uno Teatro di Roma con “Se la terra trema”, storia di una donna, scritta e interpreta da un’altra donna: la regista, scrittrice, acrobata e ballerina Maria Inversi, che in questo testo ha sdoganata anche tutte le doti da poetessa.


Se la coincidenza della data d’esordio con quella della Festa delle Donne non pare assolutamente casuale, la sua vicina con le recenti elezioni politiche è altrettanto significativa. Il monologo è costituito infatti da un costante flusso di coscienza di una donna, di cui non si conoscono né nome né provenienza o direzione, ma di cui diventa ben presto chiaro che la tragica situazione in cui si trova abbia un forte legame con gli avvenimenti geopolitici del nostro presente. Sola, abbandonata o forse dispersa, questa donna si risveglia in luogo desolato e distrutto – un bosco, sì, ma pieno di macerie-, vittima anch’esso dell’evento catastrofico che ha segnato la vita della protagonista. Non sapremo mai di cosa si sia trattato. Potrebbe essere stato un terremoto, come il titolo lascia presagire. Ma non per forza. Tant’è che come ci ha raccontato la stessa Inversi l’idea dello spettacolo è nata prima dei recenti sisma che hanno colpito il nostro Paese e non solo. Il suo fulcro è bensì «l'idea che le guerre siano sempre state dannose e che gli europei vi abbiano una responsabilità immensa». E anche alla guerra ci viene effettivamente da pensare o, meglio, alla fuga da una guerra, dati i ricordi che piano piano emergono nel racconto che la nostra donna fa a sé stessa prima ancora che al pubblico. 29257746 1339574492814633 9008773145506611200 o


È una donna che è fuggita dalla sua terra, costretta ad abbandonarla a malincuore nella speranza di trovare un futuro migliore, ma che nel suo viaggio verso la Terra Promessa ha perso tutto, compresa la vista. Una cecità fisica che rende la protagonista ignara della sua posizione quanto lo sono gli spettatori, ma che le permette di guardarsi dentro come mai prima pare aver fatto. Lo spettacolo mette in scena così un viaggio, ma non verso un luogo, bensì nell’intimo di questa donna, che con il suo vissuto diventa simbolo e voce di tante donne e tanti uomini. Anche letteralmente. La sua lingua è infatti uno slang poetico in cui si intrecciano numerosi idiomi: non solo italiano, ma anche tanto francese, spagnolo, inglese, tedesco e non solo. Un multilinguismo come segno della sua peregrinazione nel mondo, ma anche della trasversalità dei suoi temi.


D’altro canto il suo essere poliglotta, viaggiatrice, ma anche cantante, ballerina e poeta la lega fortemente alle due donne che l’hanno ideata e messa in scena. Due donne che il mondo lo conoscono bene avendolo viaggiato e studiato molto. Non dimentichiamoci che la Inversi è la laureata in lingue e che la Galstyan ha un forte legame con la sua terra d’origine, l’Armenia, dalla quale lei stessa è emigrata. Uno spettacolo ricco quindi di spunti di riflessione – autobiografici o politici -, intenso, struggente, che certamente non lascia indifferenti, pur non risultando sempre di facile fruibilità.


20/03/18 – Virginia Zettin

È sempre complicato restituire al pubblico un carattere nella sua espressione più autentica. In particolare se si tratta di personaggi realmente esistiti e talmente distanti da noi, dalla nostra epoca, da vagare abbandonati sulle pagine dei libri di storia, tra polvere e stereotipi, speranzosi che un giorno qualcuno gli faccia visita riscattandone l’essenza. Per provarci, la penna dell’autore Mirko Di Martino parte dalle basi, dalla dimensione umana dei sentimenti primordiali, cioè dall’amore fraterno. Regine Sorelle porta in scena - sul palco del teatro Ar.Ma di Roma - l’affetto tra la sfortunata Maria Antonietta di Francia e sua sorella Maria Carolina, regina di Napoli. Nessuno potrebbe mai considerare le due figlie della potente sovrana Maria Teresa d’Austria come pedine importanti sul tavolo storico. Da quel punto di vista, e la protagonista Titti Nuzzolese ben lo rimarca nei suoi monologhi, loro non sono altro che regine consorti, le ennesime spose-bambine destinate a quella che anni dopo l’Imperatrice austriaca Elisabetta (la celeberrima Sissi) definirà una vera e propria tratta di schiave: sacrificate in nome della ragion di Stato con matrimoni il cui unico scopo è rafforzare la vicinanza fra Paesi alleati, Maria Antonietta e Maria Carolina si ritrovano sposate, rispettivamente a 13 e a 16 anni, con Luigi XVI e Ferdinando di Borbone: dei perfetti sconosciuti cui procurare un erede al trono, un figlio che col tempo, tra le cure di domestici, istitutrici e cortigiani, diventerà a sua volta uno sconosciuto. RegineSOR In un contesto così alienante, dove tutto conduce alla solitudine, le sorelle - che dopo la partenza da Schönbrunn non si riabbracceranno mai più - restano unite solo grazie a delle lettere; a tal proposito si dimostra acuta e coraggiosa la scelta di affidare l’interpretazione di entrambi i personaggi al corpo e alla voce di un’unica attrice, quasi come se Maria Antonietta e Maria Carolina fossero, in realtà, una persona sola. Regine Sorelle è una grande prova per la Nuzzolese, in scena con un costume di Annalisa Caramella che la divide, letteralmente, a metà: una caricaturale, ispirata ai libelli denigratori dei rivoluzionari, per impersonare la regina francese, e l’altra, più semplice e naturale, per la “napoletana” Maria Carolina. La verve della protagonista, insieme alla scenografia semplice ma dai colori accesi e pop, riesce senz’altro a dipingere un ottimo ritratto di queste due regine del rococò.
“Ma io ho paura di annoiarmi”, rispondeva infastidita Maria Antonietta ai rimproveri epistolari della madre colta da un lungimirante presagio sulle sue sorti, a causa di quella vita eccessivamente scandita da feste, spese folli e indifferenza politica; al contrario, per lo spettatore di Regine Sorelle, la noia sarà probabilmente l’ultima fra le preoccupazioni.

Alfonso Romeo – 19/03/2018

Di nuovo ambientazione militare e spazi claustrofobici per il nuovo film di Samuel Maoz, "Foxtrot", il quale ci porta in un appartamento nel centro di Tel Aviv e in un container di quattro militari al confine settentrionale di Israele. Spazi lontani fisicamente, eppure legati a doppio filo dagli eventi e dal destino beffardo. Il film uscirà nelle sale il 22 marzo: al Festival di Veneziala pellicola si è guadagnata ilGran Premio della Giuriae ha ottenuto poi la candidatura agliOscarcome miglior film straniero.

Il precedente lavoro di Maoz, “Lebanon” (2009), vincitore del Leone d’oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, era stato interamente girato dentro un carro armato ed era il frutto dell’esperienza del regista stesso come mitragliere durante l'invasione di Israele in Libano nel 1982. Anche per “Foxtrot” lo spunto viene da un episodio realmente accaduto nella sua vita, come racconta lui stesso: «Quando mia figlia più grande frequentava la scuola superiore non si svegliava mai in tempo ed era sempre in ritardo, così mi chiedeva di prendere un taxi. Una mattina mi sono arrabbiato e le ho imposto di prendere l’autobus, la linea 5. Mezz’ora dopo che era uscita di casa un sito di news aveva pubblicato la notizia che un terrorista si era fatto saltare in aria sulla linea 5 e che erano rimaste uccise una dozzina di persone. Mezz’ora dopo mia figlia è tornata a casa. Era arrivata in ritardo e aveva perso il bus che era esploso poco dopo».

Il film racconta proprio una storia familiare, un padre (Lior Ashkenazi) e una madre (Sarah Adler) che si trovano a fare i conti col dolore della perdita del figlio (Yonatan Shiray) e con un brutto scherzo del destino che renderà il superamento di questo lutto ancora più difficile. Maoz ha paragonato “Foxtrot” ad una tragedia classica: l’eroe, certo di stare nel giusto, è inconsapevole delle conseguenze delle sue azioni e lotta contro coloro che vorrebbero salvarlo. Lui stesso è causa della propria punizione, che corrisponde direttamente alla sua colpa: si equilibrano, si bilanciano, dove finisce una inizia l’altra. E il film stesso risponde a questa struttura circolare, passando attraverso una ideale suddivisione in tre atti (ulteriore richiamo al teatro) che poi riporta tutto alla situazione di partenza. 

Foxtrot 3

Il primo focus è sulla famiglia Feldmann, Michael e Dafna, a cui viene annunciata la morte in guerra del giovane figlio Jonatan. La compostezza e rigidità del padre, i suoi lunghi silenzi, i pianti soffocati in gola sono controbilanciati dal dolore esternato dai parenti, che si lasciano andare a lacrime ed urla di dolore. Il mondo crolla su questo uomo su cui grava il peso di un segreto custodito per anni e tenuto nascosto a tutti. L’inquadratura dall’alto dopo il terribile colloquio coi militari contribuisce a creare un effetto di straniamento: è una ripresa che schiaccia e appiattisce, è come se il mondo gli stesse crollando addosso, tutto vacilla.  

La seconda parte ci mostra la vita di Jonatan, che scorre lenta tra noia e paura, presso un isolato posto di blocco e nel container che divide con altri tre colleghi. Eppure qualcosa accade, una notte, qualcosa che mai nessuno verrà a sapere e di cui resterà traccia solo nei suoi quaderni di disegni. In queste pagine il ragazzo ha trasformato «l'ultima storia della buonanotte» raccontatagli da suo padre prima che partisse per la guerra in un romanzo grafico, che Maoz porta in vita sotto forma di animazione. Nero su bianco vengono messe in relazione tre generazioni di ebrei, dall'Olocausto al moderno Israele, sintetizzando le questioni legate al sacrificio, all'idealismo fino all'offesa del ricordo.

Infine, nel "terzo atto" la famiglia, dopo essere andata in pezzi, trova la forza di riunirsi. Michael e Dafna improvvisano un lento nella loro cucina: perché nessuno si salva ballando da solo. La vicenda prende una piega imprevista e per ironia della sorte, per un gioco crudele del destino, il film si chiude così come è iniziato

La vita è imprevedibile, anche persone fisicamente lontane (come Jonatan e la sua famiglia) o persone che non si conoscono (come Jonatan e la ragazza che arriva al posto di blocco la fatidica notte) finiscono con l’influenzarsi a vicenda, intrecciando i fili dei loro destini, spesso in modo assolutamente drammatico, come nel film. Il foxtrot, che da il titolo al film, è un ballo che ripete ciclicamente la stessa figura circolare, la stessa sequenza di passi: avanti-avanti-destra-stop-indietro-indietro-sinistra-stop. Nel mezzo si possono inserire piccole variazioni di movimento e di lunghezza dei tempi, ma alla fine, si torna sempre al punto di partenza.

Giuseppina Dente 14/03/2018

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