Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

PADOVA – Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di vedere quasi tutti i lavori firmati da Bruno Fornasari, sempre con il fidato Tommaso Amadio al suo fianco, e targati Filodrammatici di Milano. Appunto quasi: da “Nerds” fino a “S.U.S.” passando per “La Prova” o “Martiri”. Una scorpacciata alla quale mancava all'appello proprio questo “Mattia”, primo testo che li aveva proposti alla ribalta e che adesso è stato ripreso da due differenti cast (dieci componenti per gruppo) di giovani come prova d'esame della triennale Accademia Teatrale Carlo Goldoni dello Stabile del Veneto. Mattia, dal “Fu Mattia Pascal” pirandelliano, è sì una trasposizione dal romanzo dell'autore siciliano ma asciugata, resa contemporanea, alleggerita, snellita da tanta polverosità anacronistica.

30.JPGE' possibile rifarsi una vita? Oppure se sia lecito o ragionevole o anche solo giustificabile chiedersi, dopo essersi costruito una posizione, una casa, una famiglia, un lavoro, se ci sia ancora uno spiraglio, una porta aperta per non essere più quello che abbiamo per tanti anni voluto essere. Ci si sente in gabbia, stretti, soffocati e la voglia di fuggire fa capolino. Ci sono tantissime agenzie oggi che ti possono aiutare a sparire, a cancellare ogni traccia, fisica o virtuale, e cambiare identità, passaporto, nazione. Alcuni usano le tragedie (l'11 settembre o uno tsunami, un attentato o un disastro aereo) per prendere la palla al balzo e fare quello che avrebbero sempre voluto fare: mollare le proprie credenziali e provare ad essere qualcun altro altrove.

Dicevamo, il desiderio è lecito e comprensibile, realizzarlo complicato e spesso si incappa in una serie infinita di nuovi reati. Ma andiamo per ordine, la nostra storia si svolge tra l'inizio degli anni '70, il '97, e il 2010, in tre focus che si rincorrono, finestre che si aprono e velocemente si richiudono in questa che sembra una ricostruzione dei fatti accaduti, in un'esposizione frontale che ammicca al pubblico, lo tira dentro, lo coinvolge, lo istiga a prendere posizione, ad immedesimarsi. Una coppia sposatasi troppo in fretta, due figli, una madre in coma, debiti accumulati per sopperire insoddisfazione e frustrazione con oggetti inutili, e tutto che rotola verso una destinazione già scritta alla quale Mattia (nella versione originale era interpretato da Tommaso Amadio, alter ego di Fornasari sul palco) si ribelle, pone un freno, vuole scendere dal vagone in corsa. E' possibile cambiare scenario e panorama o siamo condannati per sempre a trascinarci dentro situazioni che volevamo ma che adesso, a distanza di anni, sentiamo che non ci appartengono più? E' più coraggioso, o vigliacco a seconda da dove lo si guarda il problema, resistere e annullarsi, appiattirsi, inaridirsi su ruoli ormai sfibrati, o sparigliare le carte e mettere in discussione tutta la propria esistenza? E qual è il nostro “lato oscuro”? Quello che ci fa morire prima del tempo in un ruolo non più nostro o quello che ci vorrebbe felici in una situazione diversa da quella che stiamo vivendo ma che abbiamo paura anche solamente a pensare di poter cambiare?

A MATTIA-SITO.jpgquesta solida costruzione, chiamiamola i “mattoni” che compongono la drammaturgia, Fornasari (una scrittura mai lineare, una lingua sempre alta e popolare, mai scontata né prevedibile, il ritmo e l'ironia intelligente che contraddistinguono i suoi testi) riesce ad aggiungere piccoli tocchi sparsi di umanità, di visceralità senza scadere nel sentimentalismo, colpi seppiati di ricordi, pennellate nelle quali riconoscersi, minuzie disseminate come trappole, come zucchero a velo, dettagli che ad un primo sguardo possono sembrare inutili, laterali, comprimari, collaterali o che non aggiungano sostanza al plot centrale ma che al contrario fanno quella “calce” che cementa i momenti, che lega le scene, che compatta le temporalità, che comprime, che dà tutt'altro tono e riesce a sferzare colpi come a distribuire carezze amare, farci scivolare nella nostalgia, farci cadere nel buco di Alice, farci, per un attimo, scordare il fusto centrale dell'opera, l'idea originaria sulla quale tutto si fonda. Piccoli momenti che destabilizzano e ci portano in altre dimensioni, piccoli momenti di letteratura; l'orologio Casio che da delizia si fa croce, la digressione sul divano (unico oggetto in scena) che da pezzo d'arredamento diviene feticcio sacro, l'ingresso a piedi uniti dei Doors e l'iconica frase di Jim Morrison che ci rimbomba: “Meglio bruciare subito che spegnersi lentamente”.

Il nostro è un mondo in prestito, il nostro tempo è un prestito, i vestiti che teniamo per poco e poi dimentichiamo, gli oggetti64.JPG, i sentimenti, le persone, tutto è momentaneo, come un grande temporary shop. Il “per sempre” ha cambiato significato, ora vuol dire per adesso che è tutto quello che abbiamo nella nostra programmazione che non arriva mai così lontano nel tempo, nelle settimane. Perché? Perché non si sa mai. E allora godi, spendi alla ricerca di quella felicità che non puoi trovare pensando che tutto sia in prestito (quindi non gli dai la giusta importanza), che se lo perdi lo puoi ricomprare, che se i rapporti si interrompono fai spallucce e dici che chiusa una porta si apre un portone. Niente ha più senso, tutto è più vuoto e fa eco e ci fa paura. Ci vuole coraggio per uscire dal giro, per lasciare il tavolo da gioco, per abbandonare il sistema e non sentirsi più un ingranaggio di una macchina che deve solo macinare. Un'anatomia prima di un incontro poi di un matrimonio, di una sparizione, di una vita, del come, a valanga, tutto possa andare a rotoli senza nemmeno accorgersene nelle pressioni della vita moderna costellata di routine e mutui (parallelismi con il romanzo “Colibrì” di Sandro Veronesi) che stringe sempre un po' di più il suo cappio.

La vita per Fo45.JPGrnasari si divide tra momenti sentimentali e attimi speculativi. Ai monologhi drammatici (quello finale ha una marcia in più) si alternano costruzioni collettive, alle scene intime fanno da contraltare le coreografie (di Marta Belloni) in un'altalena veloce di sensazioni che non lascia comodi, in un ping pong che scuote e tiene incollati. Impossibile non riconoscersi in quel bivio, in quel pensiero che prima o poi ci prende, ci è venuto o arriverà. Tra gli allievi sottolineiamo nel primo cast le presenze di Federica Fresco (Vale), Gianluca Pantaleo (Mattia) e Andrea Sadocco (il croato), mentre nel secondo Angelo Callegarin (Mino), Imma Quinterno (Vale), Gaspare Del Vecchio (Bustros). Nuova linfa per il teatro.

Tommaso Chimenti 29/09/2020

ARSOLI – Ci vuole sensibilità, intelligenza e tatto artistico per poter parlare di temi caldi, purtroppo ancora contemporanei, come la questione della donna all'interno della società attuale occidentale. Con il lavoro “La moglie perfetta”, Giulia Trippetta, partendo da un reale decalogo, un volantino che veniva distribuito nel dopoguerra, è riuscita a creare un parallelo, tra parodia e profondità d'indagine, con ironia e in maniera diretta, tra gli anni '50 (favolosi fino ad un certo punto) e questi primi decenni del Terzo Millennio. Sembra che sia cambiata la facciata e la forma, nella sostanza poco. Avevamo visto dieci minuti di questo spettacolo all'interno Gloria-Sapio-e-Maurizio-Repetto-e1466842986182.jpgdel “Premio Giovani Realtà”, a dicembre scorso, dell'Accademia Nico Pepe di Udine dove l'attrice umbra (nei prossimi mesi sarà in scena nella ripresa di “Orgoglio e pregiudizio” di Arturo Cirillo, a cura di Marche Teatro) aveva vinto la Residenza Artistica all'interno del Teatro La Fenice di Arsoli (al confine tra la provincia di Roma e l'Abruzzo) diretta da Gloria Sapio e Maurizio Repetto fondatori della compagnia Settimo Cielo. Qui, per due settimane, l'attrice, che ha studiato all'Accademia Silvio D'Amico di Roma, ha affinato il testo creando una messinscena solida, d'impatto, che mai scade, che fa riflettere, che pone domande, che mette in discussione sia le donne che gli uomini, che non ci lascia comodi sulle poltroncine del teatro, che pungola ognuno nel suo privato.

gabriele-caucci-sindaco-arsoli-al-teatro-la-fenice.jpgQuesta residenza fa parte di un progetto più ampio della Regione Lazio, composto appunto da Settimo Cielo con Twain, Vera Stasi e Ondadurto Teatro, e che interessa sette spazi teatrali. Le residenze sono fondamentali per far crescere le piece, per far lavorare le giovani compagnie a fianco di tecnici e professionisti della scena, per provare le parole e i gesti sul palco e tastarne e testarne la validità nella restituzione con il territorio: il rapporto con il palcoscenico è essenziale e necessario, qui la drammaturgia respira e prende corpo e oggi sempre meno gruppi riescono ad avere spazi per poter provare, immaginare, realizzare le loro idee. I Settimo Cielo inoltre dirigono anche un interessante festival, “Portraits on stage”, quest'anno tra settembre e ottobre, realizzato in un luogo magico, il santuario di Ercole vincitore a Tivoli.

Tra questo verde abbondante, tra queste salite e colline dove i paesi stanno arroccati e un castello spunta sempre con i suoi merli a tratteggiare il panorama, a ricordarci che qui la Storia è pesante come pietre, squadrata come torri, possente come ponti levatoi, Arsoli, (per accedere alla sala teatrale si entra dal Municipio) con i suoi 1500 abitanti, annusa l'Aniene che taglia la zona tra Ciociaria da una parte e Sabina dall'altra. Siamo anche vicini al confine con l'Abruzzo, incerti se scegliere la carbonara di tradizione romana o l'arrosticino di matrice aquilana e dintorni. Vicino ad Arsoli, sorge il curioso caso di Anticoli Corrado (900 abitanti) paese di pittori e modelle: nell'Ottocento contadini ma soprattutto contadine del posto andavano a vendere la loro frutta e verdura a Roma al mercato di Campo dei Fiori. Lì i pittori abbondavano e li ritraevano mentre mettevano a posto la mercanzia, intenti a lavorare con i muscoli guizzanti. Quando si sparse la voce che questi ragazzi provenivano tutti da questo piccolo comune (qui nel tempo si erano mischiati gli Svevi con i soldati Mori, e l'andare alle fonti per svariate volte al giorno in discesa e in salita rendeva i loro corpi tonici ed atletici e le sorgenti sulfuree terapeutiche levigavano la loro pelle) gli artisti cominciarono d'estate a soggiornare ad Anticoli. Anche perché qui le ragazze non avevano nessun problema a farsi ritrarre nude. Si era così creata una comunità di pittori e artisti e intellettuali, un vero Arsoli-_-testata.jpge proprio circolo, da Fausto Pirandello, figlio di Luigi (qui sorge la Villa La Scalogna, fondale de “I giganti della montagna”) a Oskar Kokoschka, il poeta Rafael Alberti, lo scultore Arturo Martini e Caporossi e Selva, Gaudenzi e Ponzi. Passarono di qui anche Picasso o Neruda. In tutto c'erano 65 studi pittorici anche per via di una particolare luce, perfetta per dipingere, mai così diretta. Rimangono a testimonianza i grandi finestroni che ogni tanto si scorgono alzando gli occhi a ricordarci quegli anni.

Tra le tante opere d'arte ci ha colpito anche il decalogo de “La moglie perfetta” dove, con sarcasmo pungente, Giulia Trippetta, sua la drammaturgia, è riuscita ad arrivare in profondità e toccare corde nascoste, smuovere preconcetti dati per scontato, scardinare comportamenti “naturali” e spontanei che arrivano come bagaglio culturale da retaggi secolari direttamente fino a noi. Partendo da questo volantino realmente circolato per decenni in Europa, l'attrice ha costruito un incastro e un meccanismo di personaggi femminili sconfitti, a tratti esilaranti, ora commoventi, sempre amari e amareggiati, miscelando alcune interviste con la figura cardine dell'intera piece, questa donna intenta ad instradare le giovani future mogli verso la loro missione, la loro gabbia neanche così dorata, la loro costrizione, il loro ruolo scritto e immutabile. Siamo negli anni '50 e la tesi di fondo è che, purtroppo, non molto sia cambiato, a distanza di settanta anni, per quanto riguarda la condizione femminile nonostante le tante battaglie vinte e i tanti traguardi per la parità raggiunti.

Ben scritto, cadenzato, fluido, (il jingle che ritorna, quello de “Il pranzo è servito”, è una nenia casalinga consolatoria, tranquillizzante e inquietante come le quattro mura che affossano, atterriscono, chiudono come recinti) leggero come una carezza e ruvido come uno schiaffo all'improvviso, la Trippetta adesso è timida ora è sfrontata, desperate housewife consapevolmente lucida, ha in sé il trasformismo unnamed.jpgdi Virginia Raffaele e l'elasticità da caratterista di Paola Cortellesi (a tratti è una Verdone al femminile), una presenza tra Valentina Lodovini e Monica Bellucci, la verve di Sabina Guzzanti, l'impatto di Nancy Brilli, lo sprint della Marchesini, lo sguardo a metà tra Jasmine Trinca e la Kathleen Turner ne “La Guerra dei Roses”, ora Sora Lella adesso Sabrina Ferilli.

Chiama le sue adepte frustrate “giovani costole d'Adamo” e lo sciorinamento delle regole è talmente divertente da risultare preoccupante: “Sii bella”: “la storia della bellezza interiore è stata inventata dai brutti”. Si ride, come in uno specchio che riflette le nefandezze della nostra società che inevitabilmente ci sono rimaste appiccicate addosso. “La cucina” e “Sii dolce e comprensiva” fino a tutte le sfumature dei vari tipi di risata, capitoli dove ci si sente in colpa di aver riso ma non se ne può fare a meno. Ci si sente piccoli e miseri, impotenti e meschini. Si arriva alla violenza di genere che fa ancora più male perché raccontata con un sorriso beffardo, giustificatorio: “Parlare è importante, parlate ma zitte”. Una delle parti più up è “Le sentinelle del Patriarcato” dove la Trippetta dà sfogo alla sua gamma di qualità, al suo registro di voci e personaggi in un cortocircuito scoppiettante, frizzante, effervescente, spumeggiante: è elettrica, è imprendibile, unstoppable. Viene anche coinvolto il pubblico, perché, come diceva Martin Luther King “Non mi preoccupo della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti”. Siamo tutti sul banco degli imputati. In questo caso, una risata non ci salverà.

Tommaso Chimenti 28/09/2020

TODI – Dal santuario della Consolazione, blocco-mausoleo che fa della stabilità e della solidità il suo biglietto da visita, si sale su per una strada dolce in salita tra campi, prati e in lontananza si affaccia allo sguardo, sempre più grande e vicina, sbucando dai rovi e tra le frasche, nel suo skyline di pietre assolate e di tetti pieni di Storia, Todi, così piccola e maestosa e così carica che ci sembra di respirare il suo passato. Mentre saliamo alla nostra destra spunta un monumento ai caduti del mare, strano Todi è 410 metri sul livello del mare e l'Umbria non ha sbocchi sul Mediterraneo. Tre i punti nei quali racchiudere lo scrigno di Todi et amo: appunto la Consolazione (lì accanto un grande parcheggio, con navetta annessa gratuita, fa sì che il centro della cittadina umbra sia praticamente pedonale e auto free, questa si chiama lungimiranza politica e progresso ambientalista per una vivibilità a misura d'uomo), arrivando in paese sulla destra La Chiesa di San Fortunato con la sua facciata imponente e i suoi gradini irti, fino a Piazza del Popolo che si apre rettangolare e finisce con la Cattedrale della Santissima Annunziata. Su questi tre punti si tessono le fila a ragnatela, i punti cardinali per tratteggiare (impossibile perdersi) percorsi e sentieri, rigorosamente a piedi, linee dentro e fuori le mura spesse che danno certezze possenti come le viuzze a perdifiato in discesa fino al Convento delle Clarisse (ben quattro i conventi in Todi; chiesa e arte si intrecciano prepotentemente) residenza per gli artisti del festival Off.

Al Todi Festival (3-6 settembre; diviso in maniera intelligente tra la parte indipendente, l'Off appunto gestito dal Teatro di Sacco, Roberto Biselli e Biancamaria Cola, con gli spettacoli nel tardo pomeriggio nello spazio del Nido dell'Aquila, e il cartellone ufficiale diretto da Eugenio Guarducci con le piece serali al Teatro Comunale) si respira un'aria buona, di scambio, d'intesa, con quella vicinanza che è data proprio dall'informalità del luogo dove tutto raggiungibile, tutto a portata di mano. Due rassegne per un unico festival, due diverse concezioni dentro un più grande e ampio contenitore, due modi di intendere il teatro che si compenetrano, si danno manforte, aggiungono l'uno l'altro, si assommano senza togliere niente: una grande intuizione. 00057BF3-andrea-pennacchi.jpgL'Off (il cui titolo di quest'anno era “Futuro Anteriore”) inoltre ha creato anche una mappa di interessanti laboratori-mastarclass con Elena Bucci, Michele Sinisi, Letizia Russo, Lino Strangis, un'alta formazione di workshop e seminari. Una kermesse con un'anima profonda, non solo la bidimensionalità degli eventi. Un clima disteso, positivo dove tornare con piacere. Un respirare nuovo che riempie polmoni e retine. Un'Umbria mai ombrosa. L'Umbria al centro tra Toscana e Roma, qui dove le cose accadono, dove vengono pensate e portate alla luce: la mente vola a Luca Ronconi o Peter Stein, a Brunello Cucinelli. Qui puoi incontrare Ida Di Benedetto e Laura Chiatti con il marito Marco Bocci, o Lorella Cuccarini madrina di un convegno su Jacopone, insieme al Professor Franco Cardini. C'è fermento frizzante e quella cultura mai troppo imbellettata né compunta, mai troppo allacciata e istituzionale, mai troppo legata e incravattata e formale, ma scorrevole e fluida, professionale, competente, seria ma mai seriosa. In quest'ottica il simbolo di quest'anno è un lecca-lecca con all'interno la città, da scartare come un regalo da bambini, dolce e gustoso desiderio.

Cominciamo la nostra analisi dalla proposta di Andrea Pennacchi (incrociato fuori dal teatro con la mascherina che ritrae il Bardo), da un anno volto conosciuto al pubblico nazionale per la sua striscia settimanale all'interno del programma di Zoro “Propaganda Live” riuscendo nel tentativo di sdoganare, nei suoi racconti amari e agrodolci di crisi economica e valoriale, leghismo padano e provincialismo culturale, il veneto come lingua (rendendola contemporanea e slegata da Arlecchino e dalla Commedia dell'Arte) dandogli rispetto e sostanza, fuori dai soliti cliché biechi e campanilisti. In una sorta di conferenza stampa, con microfoni e un pulpito per gli interventi, quasi un radiodramma sull'“Enrico IV” dove Pennacchi, anche per il phisique du role, è Falstaff ma anche la voce narrante, e al suo tavolo siedono il giovane rampollo della casa reale (Riccardo Gamba, s'intendono alla meraviglia), un'attrice anglofona che legge in inglese donando accenti e pause e sospensioni nella lingua d'Oltremanica (bella intuizione, per niente scontata, Jenni Lea Jones), un musicista (Giorgio Gobbo sempre sul pezzo) che, con la sua chitarra, ci porta dentro quelle cupe atmosfere attraverso Leonard Cohen o gli Oasis, De Andrè o “Personal Jesus”. Perfetto per le scuole superiori, per svecchiare la polvere, perfetto per i ragazzi di ogni età, quelli che ancora, andando a teatro, vogliono ridere, gioire, divertirsi nel più alto e ampio senso, riflettere, giocare ascoltando. Perché l'“Enrico IV” parla si di potere ma anche di amicizia, di tradimenti, di vita, di quella teorica e di quella pratica, parla di crescita, di formazione. Pennacchi (a metà settembre sarà a fianco di Paola Cortellesi su Sky nella serie “Petra” mentre in questi giorni sta girando una serie Netflix su Roberto Baggio dove interpreterà il padre del campione di Caldogno) s'infiamma cinghialesco (suo simbolo per antonomasia), è un rugbista prestato al teatro, di quelli che in una rissa vorresti sempre avere al tuo fianco. Ci ha ricordato alcune esperienze di Marco Paolini con il gruppo dei Mercanti di Liquore. Diviene ben presto un concerto folk, dove Pennacchi si muove, agitandosi con forza, da capo ultrà, pogando ruvido a gomiti alti, che sembra proprio di essere in un pub di Liverpool, di quelli senza tanti convenevoli, di quelli dove il rispetto te lo guadagni sul campo a suon di pance e boccali di birra alla spina. Si sprecano i “mona” come i “boccia” ad infarcire dialoghi in equilibrio tra la commozione che genera la vita e l'ironia sulle nostre fragilità. Un racconto umano, umile per un interprete a tutto tondo, pieno, sanguigno, onesto, che non delude mai: “I do, I Will (Shakespeare)”.

DNA.jpg

Curiose le tre opere intercettate da Roberto Biselli per comporre il puzzle della sezione Off, cominciando da “D.N.A. Dentro la Nuova Alba” a cura del Gruppo della Creta, testo presuntuoso a cura di una compagnia al contrario affatto saccente. Un tentativo, certamente plaudibile e plausibile, però troppo pieno con infinite deviazioni e divagazioni che facevano perdere il senso di quello che stavamo guardando. Tre le storie principali che si intrecciavano: due malate psichiatriche legate con camicie di forza in un futuro distopico, un Ministro molto salviniano, due migranti che dallo Yemen si spostano nel deserto, per non parlare dei tre Dei, Plutone, Urano e Nettuno che “giocano a dadi” con il destino degli uomini oppure degli intermezzi di un comandante di un aereo che entra a sorpresa fuoricampo con i suoi dettagli di volo, per non parlare del “teatro nel teatro” o meglio il teatro che parla del teatro con una lavagna dove vi sono appunti su un Amleto paragonabile ad Agamennone. Tutto è spruzzato di fantasy. Se il racconto della ragazza internata si poteva pensare che potesse provenire da una qualche cronaca, sembrava che confermasse questa tesi il medico (Alessio Esposito, di una lunghezza sopra gli altri) con la sua verbosità prolissa di note a piè di pagina, documentazione d'archivio e teorie psicanalitiche, le altre storie non trovano nessun appiglio, nessuna convenienza per restare all'interno dello stesso plot (1h 40', lunghezza eccessiva). Tutto è veramente frastagliato, debordante al limite del fastidioso, eccessivo, per una scrittura ricca e barocca ma che aveva necessariamente bisogno di tagli netti e di una regia più sicura e decisa. Con il volume pastoso della drammaturgia si potevano tranquillamente sviluppare tre spettacoli più coerenti. 

L'autore, Anton Giulio Calenda, figlio del regista Antonio, dice di rifarsi a Foster Wallace. Ma troppi pezzi e brandelli vengono dati per scontati a discapito di una minima comprensione. Scrittura corposa, dispersiva, troppo compiaciuta che rema contro la messa in scena, e schiaccia il lavoro attoriale ingabbiandolo, che diviene faticosa per la platea per un mosaico scomposto e complicato. Una continua aggiunta che ci lascia perplessi e dubbiosi. Less is more.

Affascinanti giochi di sguardi e riflessi il “Christophe” di Nicola Russo dove l'autore diventa un clochard tunisino a Parigi che dialoga con il se stesso, in terza persona, con il ragazzo italiano che era, in un doppio binario67 di personalità, di scambi esistenziali, una narrazione che s'intreccia tra autobiografia e il vedersi attraverso gli occhi dell'altro come in uno specchio per raccontarsi da dentro, da dietro, oltre sé, in questo dialogo dove è sia oggetto che soggetto. Uno strano incontro a Parigi tra un “barbone” (da testo) e un ragazzo occidentale, siamo nel '95, che, in qualche modo, tanto o poco, cambierà, almeno sposterà le vite di entrambi: per Christophe (che si definisce, con un errore grammaticale voluto, “il straniero”: la mente non può che andare a Camus) sarà il germe che esiste ancora un'umanità pronta a parlargli, a considerarlo una persona, per Nicola venticinque anni di macerazione interiore che lo hanno portato a questa creazione intima, confessione ed espiazione, restituzione e perdono in questa triangolazione, in questo nostro mondo dove sarebbe sempre fondamentale mettersi nei panni dell'altro, nel momento dell'incontro dell'altro con noi stessi visti con occhi altri, appunto di un regista nel registro dell'immedesimazione, del ricordo, della nostalgia della scrittura creativa. Le lettere che si sono scritti, vere o presunte, sono la testimonianza che l'arte ci salverà, che l'altro non sempre è foriero di pericolo, che tendere una mano aiuta in eguale misura sia chi la dà che chi la riceve.

D'impatto Clitemnestra.jpganche “Parla, Clitemnestra!” dove lo scontro di genere sale sul banco degli imputati. La donna del Mito con un coltello in mano si aggira, come uno squalo, come un piranha, come un barracuda, attorno alla preda, all'uomo, al maschio alfa, Agamennone, che l'ha tradita, delusa, comprata, che le ha ucciso i figli. La donna non vuol più stare zitta e in disparte, non vuole più subire violenze e angherie. Ha legato l'uomo che non può far altro che ascoltare minacce e reprimende, chiedere perdono, scusarsi senza troppa convinzione. Lei (Simona Senzacqua sempre più Sofia Loren-Ciociara) è un boia duro, un carnefice che non farà, si pensa, sconti al suo prigioniero, Lui (Gabriele Benedetti) è legato, umiliato come un Cristo sacrificato sull'altare su questo trono rialzato, patibolo medievale, in questa sorta di pubblica gogna, tortura e punizione. La tensione è crescente, il pathos è polanskiano, Lei è tagliente, Lui rincula lamentevole in una suspense dolorosa in questo confronto-interrogatorio. Il testo (di Lea Barletti) soffre della limitazione che la rima porta con sé, che la fa ben presto divenire filastrocca e cantilena, facendoci concentrare più sul suono che sulla sostanza delle parole, più sull'andamento armonico che sul contenuto. Anche quando Clitemnestra, in questo processo, cerca la nostra approvazione o chiede la nostra opinione, rivolgendosi alla platea, non lo fa mai con convinzione ma resta soltanto una pura formalità didascalica. Dal Mito si scivola nel maschilismo, da lì al femminicidio fino al populismo semplicistico, a quella retorica facile con la quale non possiamo che essere d'accordo fino al monologo finale sulla condizione della donna nella Storia ed ai giorni nostri che non riesce a dirimere l'annosa questione di genere: il problema delle donne è sempre l'uomo?

Tommaso Chimenti

SAN GIMIGNANO – E' difficile, se non complicato, trovare un fil rouge, un appiglio per raccontare, argomentare, spiegare, parlare di “Orizzonti Verticali” 2020. Certo, c'è stato il Covid che ha annullato molte manifestazioni e molte altre hanno avuto un cartellone ridotto (come questa di San Gimignano passata dai cinque giorni delle passate edizioni ai tre odierni che in realtà erano due visto che il giorno inaugurale si ripeteva l'indomani) ma talune rassegne (vedi “Kilowatt” a Sansepolcro, sempre di santi si tratta) hanno addirittura rafforzato se non aumentato la proposta. Quindi, era possibile, era fattibile. Yes, we can. OV, diretto da Tuccio Guicciardini, anche presidente di Fabbrica Europa, e Patrizia De Bari, ha il merito di svilupparsi, da otto edizioni, sul palcoscenico naturale della cittadina senese nota per le sue innumerevoli torri, quelle rimaste in piedi perché in antichità erano molte di più. Qui, tra le pietre che sembrano sempre assolate e ingiallite, dorate e calde, si aprono piazze, come Piazza Duomo, o piazzette, come quella delle Erbe con le due torri gemelle a guardia imperiose e cupe a scrutarle da sotto che mettono le vertigini, rovine come la Rocca di Montestaffoli, dove il vento spira e spazza, cortili, come Piazza Pecori di mattoni accoglienti.Patrizia De Bari.jpg

I tanti turisti che affollano la città, nel classico tour toscano, vedono di sfuggita, si fermano il tempo di un gelato, passano e tirano dritto, si soffermano per una foto svogliata, nel mordi e fuggi che è diventato questo andare, scattare e postare senza tregua. Ma il festival, quest'anno, ha offerto veramente pochi spunti, poca spinta e poca linfa. Ma, mi si dirà, era bene comunque ripartire o non far cadere un anno nel dimenticatoio, non farci sopraffare dalla pandemia, reagire con l'arte e con la cultura. Possiamo essere in qualche modo d'accordo. I festival sono anche un modo per compattare le comunità anche se quella di San Gimignano non sembra così legata a quest'esperienza artistica e sembra più sopportarla che supportarla. E' un in più che poco aggiunge alla proposta di visita di un giorno a ciabattare tra i vicoli, scegliendo l'uovo d'alabastro, i Pinocchi in legno (chissà perché qui?), i mortai in marmo per fare il pesto, e poi tutta la gamma di prodotti alimentari, dal pecorino ai pici, dal cinghiale ai salumi. San Gimignano è una chicca incastonata nel tempo ormai dedita, almeno all'interno delle mura, al commercio al dettaglio, al turismo, la gelateria, il bar, il ristorante, il bed and breakfast, che l'hanno fatta diventare un grande abbuffamentificio. Si salva da questo enorme e intenso Bianchisentieri (5) LH.jpgmangia mangia (e non magna-magna, attenzione) di code di turisti che sgranocchiano sempre incessantemente qualcosa, la Galleria Continua, spazio d'arte contemporanea che ogni anno ci risolleva morale e spirito con le sue ampie installazioni che fanno respirare la mente, ci aprono le finestre dell'ipotalamo. Forse OV dovrebbe intensificare i rapporti con il museo (sempre gratuito) e creare sinergie, performance che possano legare i due concept, le due idee. Ma questo è un altro discorso.

Appena digitiamo sul web Orizzonti Verticali, bellissimo ed enfatico nome che racchiude lo sviluppo verso il cielo, l'ambizione a toccare le nuvole, lo slancio verso il divino, quasi Torre di Babele, rispetto all'ampliamento sul suolo, il primo risultato che appare è un sito di arrampicate e attrezzature per la montagna. Sul programma di quest'anno poche parole, pochi appunti sparsi e flosci sul taccuino, fatto di flash, parole chiave sbiadite su piccole performance, una presentazione di un libro, momenti, morsi di quello che avrebbe potuto essere. Soprattutto danza contemporanea, un'installazione partecipata vagamente confusa, una lettura spacciata per teatro (un leggio non fa primavera), un'interessante esperienza condivisa, quasi un memoriale, quasi una veglia funebre, un ricordo collettivo, una restituzione di vari artisti di un pezzo della loro, giovane o millenaria, esperienza di palcoscenico, con una decina di artisti (amici sodali della direzione) che leggevano o recitavano qualcosa legato al proprio passato sulla scena. Il festival non c'era come un arcipelago fatto da tante isole non comunicanti tra di loro.

Ma lo spirito di fondo, mi si dirà, era un altro: ricominciare come avrebbe detto Adriano Pappalardo. Bene, ma non benissimo. Ed allora concentriamoci sulle due parentesi che, in qualche modo, ci hanno tenuti lì ad osservare o ad ascoltare, non certo inchiodati alle sedie ma comunque con un buon grado di partecipazione se non emotiva almeno intellettuale. Leggera, quasi fosse planata da un altro pianeta, la performance, onirica e sensuale, certamente sinuosa, “Bianchisentieri” (a cura di Giardino Chiuso, la compagnia che organizza la kermesse) che si sommava ed incastrava Bianchisentieri (2) LH.jpgsull'esperienza partecipativa “Sentieri di carta”. Cominciamo dalla seconda: un palco davanti al duomo, che pareva un ring con tanto di corde, dove poter attaccare con la colla pagine di libri precedentemente strappate e, se si voleva, firmarle. Idea aperta a chi volesse dare il proprio contributo scrivendo qualcosa su questi fogli già carichi d'importanti inchiostri. Pagine che, una volta concluso il festival, saranno ritagliate, incorniciate e messe all'asta. +Chi comprerà pagine autografate da semplici sconosciuti? Ha dato il suo contributo anche il cantante Alberto Fortis, uno dei pochi nomi spendibili e di qualche rilievo. Su questi “Sentieri di carta” si è incastonato “Bianchisentieri” con la danzatrice Camilla Diana fluttuante con la sua gonna di fogli arrotolati, in movimenti dolci, vestita di carta, sotto i piedi carta in un universo di carta, fragile e tenero. La carta che viene dagli alberi nel nostro mondo dove a leggere sono sempre meno persone.

Infine l'eventovirginio-gazzolo.jpg conclusivo “Sto felicemente dimenticando tutto” (espressione presa in prestito da Sebastiano Vassalli), che ribadiamo somigliava ad un congedo, ad un saluto finale senza che questa sensazione togliesse niente all'impatto totale, poco coerente ma con punte alte di personalità e attorialità, carrellata di artisti con le spalle alle pietre in una lingua di luce che sembrava il Muro del Pianto di Gerusalemme, sciorinando pezzi e parti, poesie e stralci in una sorta di “cavallo di battaglia”. Da sottolineare Giancarlo Cauteruccio con il suo “Mi fa fame”, lo splendido e strepitoso Virginio Gazzolo, oltre ottanta candeline di energia purissima e immensa presenza sul palco padroneggiandolo, Carla Tatò con la sua recitazione sincopata e stoppata, particolare, originale e personale, i versi contemporanei di rottura di Giulia Martini. In un tempo che dimentica tutto e tutto scorda, felicemente o meno, dove alcune delle malattie più urgenti e annientanti sono l'alzheimer e la demenza senile, “dimenticare” non è mai una buona soluzione, un'opzione accettabile: “Perdona i nemici ma non dimenticare mai il loro nome” diceva John Fitzgerald Kennedy, per quanto questo possa valere. Ricordare invece deriva da riportare al cuore. Preferisco, preferiamolo.

Tommaso Chimenti

CAGLIARI – Il ruolo dello skipper ha molti punti di contatto con quello del regista. Entrambi devono avere polso saldo e sempre la situazione in pugno, hanno un luogo da gestire e persone da muovere in uno spazio con codici prestabiliti, devono dirigere, spostare, decidere, avere una chiara visione d'insieme, fuori e dentro la scena. Lo skipper ha a che fare con una barca a vela, con i marinai e con il mare, il regista con il palco, gli attori, gli imprevisti. Mondi che appaiono lontani ma ruoli simili per determinazione, consapevolezza, forza, presa di coscienza. Due mondi che difficilmente si incontrano in un'unica persona e lì convivono senza sgomitare, si sommano invece che annullarsi, si autoalimentano. In Francesco Origo il regista non potrebbe fare a meno dello skipper e il timoniere non potrebbe mai evitare di confrontarsi con il direttore di scena. Origo, sessantenne genovese, da venticinque anni ha “sposato” la Sardegna, il suo mare, le sue coste, senza rinunciare al suo primo amore, il teatro. Secondo il suo credo “la disciplina del mare non è tanto dissimile da quella dell'attore”. Skipper e regista devono essere attrezzati nel “solving problems”. Entrato a sedici anni nello Stabile di Genova, sodale con Valerio Binasco e allievo di Carlo Cecchi, nel 1995 decide che è tempo di salpare, lasciare le comode acque del teatro “istituzionale” le cui dinamiche gli andavano strette, cercare altri porti, scoprire nuovi golfi artistici ed esistenziali.117770327_10213625312105500_5955601277048757124_o.jpg

Un uomo vero, burbero quanto generoso, a tratti accigliato ma sempre pronto al confronto, alla condivisione, all'incontro. Cerca costantemente “la verità nascosta del teatro”. Si definisce “abitante del mare”. Lo senti parlare ed è un'enciclopedia di date, aneddoti, ricordi, personaggi del palcoscenico come di ingegneristica navale: potrebbe, grazie al suo artigianato, al suo fare, al suo mettere le mani in pasta, smontare un teatro e rimetterlo in sesto come smantellare una barca e rimontarla più solida di prima. Il suo è un caos ordinato dove tutto trova la giusta collocazione invisibile agli altri, tanto nebulosa all'esterno quanto chiara nei suoi occhi sempre vivaci e guizzanti. Sono vent'anni che, con la sua Compagnia Cajka, di stanza 3GC2670GCavallo-660x330.jpga Quartu Sant'Elena, ha intrapreso il curioso, e unico nel suo genere, viaggio teatrale, vent'anni di giri principalmente attorno alla sua amata Sardegna (ma anche Liguria e Norvegia e Grecia), portando il teatro nei porti, facendo recitare i suoi attori sulla sua barca a vela, un carrozzone viaggiante non su asfalto e gomma ma su onde e schiuma: un'occasione rara, un modo alternativo di vivere il mare, di vivere il teatro visceralmente. Una frontiera aperta. Anche Gian Maria Volontè era skipper e amava andare per questi mari.

Cajka in russo significa gabbiano e come non associare la libertà del volo di questo volatile bianco alla libertà del veleggiare, a Jonathan Livingstone (oltre che a Cechov, naturalmente), all'arrivare come gli antichi Fenici dove da terra ci è precluso il passaggio. La Compagnia di Francesco Origo ha cominciato il suo viaggio a fine luglio per iniziare questa ventesima stra-ordinaria (e faticosa) tournée l'11 agosto a Santa Teresa di Gallura, proseguendo il 14 a Stintino, il 19 a Portoscuso, il 20 a Sant'Antioco, il 22 a Teulada e il 23 a Nora per “La Notte dei Poeti”. Ho avuto la fortuna e l'opportunità di seguire la compagnia, imbarcandomi dal 18 al 25 agosto, in navigazione, nel montaggio, nello smontaggio, nella condivisione della vita in barca a vela, negli spazi ristretti che profumano di legno. Quattro persone, il regista Francesco Origo, l'attrice Barbara Usai, l'attore Enrico Bonavera (il nuovo Arlecchino del Piccolo Teatro di Milano sostituendo Ferruccio Soleri), il sottoscritto, e Pi, meticcio di otto anni mix tra un Pointer con il muso da Beagle. 35.000 miglia in 20 anni di navigazione con tre diverse imbarcazioni: prima Olivetta, poi Kahara ed infine George, 15 tonnellate di acciaio (tre del solo bulbo per stabilizzare) per dodici metri di lunghezza comprata in Grecia con già alle spalle un giro del mondo con il vecchio proprietario (di Nancy, la barca batte bandiera belga) e comprata grazie ad un crowdfunding sul web chiamato “La cultura non si affonda”. Origo è di Genova, Bonavera è genovese, così come ligure è anche l'indispensabile, inesauribile, indistruttibile, insostituibile factotum, il tecnico e attore Giuliano Pornasio anche lui trapiantato in Sardegna. Impossibile non pensare alla parabola di De Andrè. Siamo lontani dalla Sardegna di Briatore e del Billionaire, lontano da Alghero e Porto Cervo. Dal punto di vista teatrale dici Sardegna e ti vengono alla mente le “Nozze di sangue” 117876245_10213622871644490_2241925821305734095_o.jpgdella Sinigallia come il “Macbettu” di Alessandro Serra o l'attore Leonardo Capuano.

I Teatridimare hanno diverse produzioni in repertorio: “Le furberie di Scapino”, “Gastromachie” dove alla fine cucinavano, in stile Ariette, zuppa di lenticchie alla campidanese, “Bustric salvato dalle acque” con l'attore toscano, tratto dalla Tempesta shakespeariana, “Voixdeville”, “Blu” portato anche a Fredrikstad in Norvegia e messo media.jpgin scena nella stiva della nave dove i cadetti del Paese scandinavo si preparano (una sorta di Amerigo Vespucci della Terra dei Vichinghi), “Ballate amare”, “Exitus”, “La principessa d'Elide”, “Gli illusionauti”, e due pezzi scritti e diretti da Enrico Bonavera: “Arlecchin dell'onda” e “Il vino e suo figlio” andati in scena in quest'ultima edizione.

In barca gli spazi sono compressi, l'umanità è tanta, la vicinanza porta conoscenza e rispetto, bisogna stare attenti a non sbattere la testa come a non cadere nei piccoli gradini: potrebbe essere una metafora dell'esistenza. La mancanza di privacy cementa la compagnia, l'affiatamento. Il mare, cristallino, qui ha più correnti della DC anni '80. L'Ichnusa, la birra sarda simbolo acquisita qualche anno fa dalla Heineken, qui è una religione monoteista: non avrai altra birra all'infuori di me. Su questi mari sono passati i Fenici e i Greci, i Romani e gli Arabi, gli Spagnoli e i Normanni.

La prima tappa è nel cortile della tonnara Su Pranu a Portoscuso, ormai purtroppo abbandonata, che l'amministrazione comunale vorrebbe utilizzare e recuperare, un luogo fascinoso e pieno di storia, di fatica, di lavoro, di mare, di generazioni. Il panorama è deturpato dallo skyline fatto di ciminiere fuori uso e industrie vuote con conseguente forte disoccupazione. Una zona che soffre. Gli addetti alla lavorazione e alla pesca dell'oro rosso del Mediterraneo si chiamavano “tonnarotti”. Il vento è fine, facile s'insinua felice. Le anziane stanno davanti alle porte di casa mentre i ragazzi sono in spiaggia. Corde arancioni sparse spesse come polsi di fabbri. La barca a vela è attesa e pazienza, rollio e sciaguattio, gusto dell'arrembaggio, vento in faccia, fronte che brucia, cavalcata e dolcezza, pellegrinaggio ecologico e carezza.

Intanto Bonavera mi racconta di Grotowski e del Terzo Teatro, 118359455_10213625352506510_1429317451501138503_o.jpgdi fisioterapia, della quale è appassionato e competente, di tai-chi, del quale è seguace e praticante, di Eugenio Barba (è stato due volte ad Holstebro in Danimarca in due momenti differenti della propria vita e carriera). Pi, cane dolce e docile, con una macchia marrone a forma di cuore sulla striscia bianca in fronte, abbaia forsennato soltanto sugli applausi; mi fa venire in mente “Vita di Pi”, anche se in quel caso c'era, sulla barchetta alla deriva, una tigre. Dici “barca” e ti vengono in mente Ulisse e le sirene, Salgari e Mompracem, i pirati e Moby Dick, Verne, “Il vecchio e il mare” è d'obbligo, “La tempesta” del Bardo un must. Non intonate “Gente di mare” per favore. Il logo del ventennale dei Teatridimare lo ha disegnato, con il suo classico tratto pastellato, l'attore ma anche artigiano Roberto Abbiati. Il basilico non può mai mancare nella cucina di un genovese, piccola ma si fa notare un'effige di Lenin, le frequenze fisse su Rai Radio 3. Oltre che skipper e regista, Origo è anche chef. In barca a vela tutto ha una sua logica, una sua razionalità, tutto s'incastra, come un tetris. E poi c'è lentezza e pensiero, un suo dispiegamento e spiegazione, i passaggi da compiere come nodi da esprimere, movimenti da portare a termine in una naturalezza meccanica che diventa spontanea, continui rituali, spostamenti di mani in coreografie da allacciare, sganciare, staccare e mettere, lasciare e posizionare nuovamente, trovare un equilibrio ondivago. I Cajka sono zingareschi, picareschi, gitaneggianti, estemporanei, corsari.

Origo mette un cd 118404116_10213631795387578_6618040089570476956_o.jpgche dei ragazzi curdi gli regalarono ad Istanbul che apre lo spettacolo “Arlecchin dell'onda”. Bonavera è attore di razza, capace, il palco è il suo recinto preferito, lì dà il meglio di sé, istrionico, di temperamento, si sente a casa e si annusa che ha mestiere e sa sentire la platea e i suoi tempi, instaura un feeling sotterraneo con il pubblico, ha bisogno dei ritorni, dei rimandi, delle eco, delle risposte. Il suo Arlecchino si agita nell'angiporto che “non è più mare ma non è ancora terra”, qui puoi trovare furbi e furfanti, mercanti e prostitute, commercianti di schiavi. Appare un Pulcinella che, alla fine, darà un senso profondo alla drammaturgia. Bonavera lavora sulle onomatopeiche, sui suoni, sul gutturale, ha una mimica espressiva e movimenti che riempiono il palco. Con Origo si conoscono da quando sono poco più che adolescenti. Bonavera è elfico, un po' Paolo Rossi, a tratti benignesco. Ecco il dramma dei migranti che annegano in fondo al mare, le violenze subite dalle donne, fino al ricongiungimento, straziante e drammatico, tra i pesci e i relitti dove non esistono più le miserie e le sciagure, i dolori terreni e le schifezze che l'uomo perpetua sui propri simili. I cambi di registro, dal frizzante alla tragedia, regalano risate e commozione, calore e pugni nello stomaco. Il mare che dà, il mare che toglie.

Il Maestrale e lo Scirocco sono i protagonisti della traversata da Portoscuso a Sant'Antioco. In un secondo momento si aggiungerà anche il Libeccio. La calura ti sforma, ti sforna. Giriamo al largo della Secca del Mangiabarche, il nome è veritiero e tutto un programma, luogo citato anche da un romanzo di Massimo Carlotto, padovano ma che da decenni ha scelto la Sardegna come sua casa e rifugio. Le foche monache sono tornate in queste acque, tra queste grotte. C'è un fascino estatico nel solcare il mare senza ferirlo inquinandolo. In quest'angolo di Sardegna, passando alla nostra destra accanto all'Isola di San Pietro con la sua Carloforte ancora “dominata” dai genovesi di Pegli, si affacciano dal mare l'isola della Vacca, quella del Toro e infine quella del Vitello ad increspare le correnti che qui tirano e spazzano. Il mare intanto è passato dal celeste all'azzurro, dal blu al nero. Il comandante sa sempre cosa fare, che scelta prendere anche quando l'onda sferza, anche quando il vento sferraglia, come nel nostro caso, a 30 nodi. La mia faccia “ottocentesca”, definizione del Capitano Origo, dopo la burrasca diventa “picassiana”, sempre parole dello skipper. Mal di mare, mal di terra. A Sant'Antioco ci avvertono che nella notte attraccherà una carretta del mare di algerini già avvistati dalla Capitaneria di Porto. Qui gli attori, Bonavera e Barbara Usai, reciteranno proprio sull'imbarcazione con il pubblico sulla banchina. Lo spazio ristretto cambia radicalmente lo spettacolo rendendolo più intimo e vicino ed esaltando la relazione, l'alchimia, l'amalgama tra i due in scena, più vicini, più complici, in sinergia per portare questo racconto fatto di sale e sole, di ferite aperte e strazi lancinanti fino al cuore della platea, toccandola, accartocciandola, stringendola: “Laggiù, in fondo al mare118290605_10213622993367533_8343967196122787046_o.jpg, si diventa tutti di cartapesta”.

Origo tiene il timone e guarda il vento avanti a sé: ci parla della facussa, i cetrioli che crescono soltanto da queste parti, dolci e storti, di quella volta che, andando verso la Grecia dove lo scorso anno hanno realizzato due repliche ad Epidauro, a Milazzo nella benzina gli hanno messo olio di scarto con conseguente motore ingolfato e petroliere da migliaia di tonnellate che li ha schivati per poche decine di metri mentre erano in panne e bloccati tra le onde. Un bell'Eja ci sta su tutto: è saluto e addio, è un già d'approvazione e assenso come un ormai rassegnato, è purtroppo e sospiro, è un sì, certamente, è assoluto e dubbio, è forse ed è virgola, pausa riflessiva, punteggiatura stratificata in un suono simbolo di tutte vocali che si tengono per mano. In navigazione siamo come la schiuma delle birra appena spillata, gorgogliamo, ci alziamo esaltati, ci afflosciamo sazi. In barca capisci che ogni gancio, ogni orpello, ogni leva, tutto è utile, funzionale, anzi fondamentale. I Teatridimare sono un'esperienza unica, da tutelare, proteggere, anzi incentivare, valorizzare, sostenere, espressione della libertà del teatro che si fonde con la libertà del viaggio ad impatto zero. In definitiva, come dice Origo, “la disciplina del mare non è tanto lontana da quella dell'attore”.

Tommaso Chimenti

MONTICCHIELLO – Vivere d'istanti e non distanti, vivere d'istinti e non distinti. A volte un apostrofo fa la differenza, è il senso, il nesso che esplica, che potenzia, illumina, fa esplodere ed emergere. Il Covid non ha fermato il Teatro Povero di Monticchiello ma lo ha solamente cambiato, mutato, modificato, destrutturato forse in una chiave da prendere in considerazione anche per le prossime annate. Invece che il palco frontale in Piazza della Commenda, come di consueto, quest'anno sono state predisposte varie stazioni, una sorta di Via Crucis senza tragedia, o “Isole” come le hanno chiamate i drammaturghi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli (riuscitissimo il loro esperimento), fino a far diventare l'appuntamento in Val d'Orcia una piece itinerante per piccoli gruppi scaglionati. Sicuramente più movimentato e interattivo, si ha l'impressione di prendere la cittadina percorrendola, di tastarne con le suole le pietre antiche, di scrutare le porte, godere dei suoi angoli nascosti, i gerani alle finestre, di toccare con mano palmo a palmo i metri, le facciate, i lampioni, ogni dettaglio che altrimenti sfuggirebbe. L'impostazione di quest'anno (diminuite le repliche, se prima erano dal 25 luglio al 15 agosto, quest'anno si è preferito accorciare dall'1 al 15 agosto) va incontro anche alle nuove generazioni che hanno bisogno di più freschezza e meno staticità. E' “Isole d'istanti” (54esima edizione dell'autodramma dei cittadini di questa preziosa gemma a sette chilometri da Pienza), flash di vita quotidiana che, come voyeur, osserviamo affacciandoci alle loro finestre, buttando l'occhio interessato alle “vite degli altri”, entrando nel loro quotidiano.116879851_1418053745072609_2663525803923806433_o.jpg

Tredici stazioni (un'ora e mezzo il cammino teatrale) partendo proprio da fuori le mura e attraversando simbolicamente quella Porta che ci fa entrare nella magia del sogno, nel solco del segno del tempo che si è fermato e che riemerge a respiri, a boccate, a momenti, riportandoci dentro bolle sospese. Si cammina, ci si ferma, si ascolta. Intanto il panorama della Val d'Orcia stordisce per bellezza, ci abbraccia a perdita d'occhio, sembra non finire, si vedono come puntini cipressi e olivi a impreziosire la tela baciata dal sole. Il fil rouge di fondo è lontano, fortunatamente, da tante elucubrazioni che negli anni avevano infarcito i testi monticchiellesi, soprattutto i massimi sistemi dell'economia e temi sociali messi in bocca ad attori non professionisti, dialettali, stonavano e divenivano non credibili. Invece stavolta è la semplicità delle scene che ha reso questo nostro 116892752_1418052368406080_7152040079617485786_o.jpgwalking tra pozzi e finestre, tra giardini ed orti, un lungo respiro, commovente e sincero, vero, che è andato a sondare le radici di questo luogo, a toccare l'anima antica di queste persone che inventandosi il Teatro Povero hanno fatto ricco, di spirito e di attenzioni, il loro borgo e noi che siamo fedeli osservatori.

Non può mancare una riflessione sul coronavirus che diviene metafora di assedio, di dentro e fuori, di difesa e chiusura come di accoglienza. I bambini sono stati tra i più colpiti e i meno considerati nel dibattito nazionale e al netto dei decreti attuativi: “Non ci possiamo nemmeno toccare”, brilla come un esplosivo, e poi: “Prima ci dicono di starnutire nel gomito e poi, per salutarci, ci dicono di darci il gomito”, geniale. Si passa poi alla grande dicotomia, a livello ministeriale, tra turisti e spettatori, con i primi ben accetti, perché devono spendere, e i secondi messi in disparte. Ma il teatro da queste parti non è e non è stato soltanto palco, recite, testo da imparare, costumi da cucire, luci da puntare; il teatro è stato la molla, il cardine, è divenuto la comunità stessa, il perno, a volte il pretesto, attorno al quale ruota da oltre mezzo secolo la cittadinanza di Monticchiello: “Se non ci incontriamo non esistiamo”, urlano con un filo di voce. Poi ci sono i ragazzi (nuovi hikikomori) che si sono abituati allo stare chiusi in casa, le quattro mura che accolgono e che fiaccano, che consolano, che ovattano, che proteggono dai problemi del mondo là fuori, che tengono al riparo dal relazionarsi con gli altri, meglio un videogame, la realtà virtuale o le chat dove tutto sembra vero ma non lo è, dove tutto è impalpabile.

Presente ma anche il passato si affaccia aprendo le persiane; ecco i ricordi dei matrimoni in casa o il cinismo dei padroni contro l'ignoranza dei mezzadri. Presente, passato ma anche futuro: 117035948_1418054611739189_6689255727403117703_o.jpgtristemente divertente l'episodio della “Bank of Valdorcia” (da sottolineare la prova di Pierluigi Bonari) che vuole convincere a trasformare queste terre cariche di storia e natura in resort e palazzi, relais e tower, facendo investimenti, rilasciando bot, facendo prestiti, modificando il territorio, modernizzandolo, snaturandolo, cementificando. Il momento più emozionante è quello nello spicchio angolare dove un maestro insegna, siamo ad inizio Novecento, a tre bambini. Il maestro è Arturo Vignai presente fin dalla prima edizione del '67 e che mai ha saltato un anno (ha 87 anni e tanto da raccontare). Una frazione delicata, una pennellata, una carezza tenera e calda che finisce in un abbraccio sentito, vicino, gonfio. Non può mancare una critica all'ecologia radical chic, di quelli (buona presenza quella di Alessia Zamperini) che hanno scoperto l'orto e il bio, di quelli che vogliono 117120011_1418054395072544_3491979561980374262_o.jpgtornare alle radici, alla terra, a coltivare, ai lavori con le mani e poi continuano ad inquinare, a rilasciare plastica nell'ambiente, a sporcare, contaminare, deturpare, riempiendosi la bocca con falsi proclami che poi, alla luce dei fatti, dissentono e non rispettano.

Ci si sposta veloci in questo Giro del Paese in 90 minuti, agili come api sulle corolle, scivola via lasciandoci sulla pelle un profumo buono di Storia, di Vita, di sano. Imprescindibile il sindaco con le sue continue dirette facebook, un primo cittadino che sbaglia le parole (alla Cetto Laqualunque), ora siamo immersi dentro una banda felliniana che suona dietro ad un funerale (da ricordare Daniele Mangiavacchi, sempre grande presenza) fino all'emozionante chiusura, proprio in quella piazza che ogni estate zampilla di pubblico e calore, di applausi e parole, che quest'anno è vuota e desolata, buia e sgombra. Una signora (Rosanna Picchiacci intensa) parla con una sedia vuota davanti a lei, con un amico immaginario, fin quando non si apre una porta (un'altra porta, come all'entrata) che ci “vomita” fuori, ci restituisce alla vita, fuori dal sogno, da quest'atmosfera ovattata e crepuscolare, nitida e ombrosa allo stesso tempo, lontana come nostalgia e pulsante come un battito.

Tommaso Chimenti 09/08/2020

LISBONA – Almada è sempre un soffio, un respiro, quasi un'isola lontana e vicina a Lisbona, ai suoi azulejos, alle sue strutture che cambiano, alla sua storia. Almada la vedi, è lì a portata di mano, la fotografi in lontananza che sembra irraggiungibile e quel ponte, sempre rosso fiammeggiante, pare un elemento scenografico e cinematografico messo lì per aumentare la magia del posto, delle acque che si incontrano, veloci del Tago e feroci dell'oceano a cozzare proprio davanti ai tanti murales, carichi di espressività e socialità, nati sulle vecchie e scalcinate mura di ex magazzini e vecchie fabbriche, cantieri navali in disuso. Almada pare un'isola, riconoscibile con quel Cristo che a braccia larghe ci abbraccia e non ci lascia mai soli. Gli aerei solcano di continuo il cielo anche in questo periodo post-Covid. La fase finale della Champions League si giocherà qui, a casa di Cristiano Ronaldo marchiato a strisce senza colori. La tramvia taglia Almada e la rende raggiungibile, veloce. Da Almada, con il bel tempo, si possono vedere entrambi i ponti, il XXV Aprile rosso come il Vasco de Gama bianco, oppure a sinistra Belem e a destra in alto il Castello. Negli ultimi decenni si è trasformata; sembra piccola ma è grande, moderna con le sue piazze dove giocano piccole fontane a zampillare verso il cielo, dove gli skate sfrecciano. Ecco, se vogliamo trovare un paragone, Almada sta a Lisbona come la Giudecca sta a Venezia. Città di mare, luoghi dove si respira il salmastro. Da trentasette anni il Festival di Almada (quest'anno ancora più coraggioso di sempre il suo direttore artistico Rodrigo Francisco) è un faro nel campo teatrale europeo: in questa edizione addirittura si è passati dalle due settimane standard di programmazione (solitamente era dal 4 al 18 luglio) alle oltre tre (dal 3 al 26) rilanciando proprio quando molti hanno desistito. Anche i molti e sparsi teatri dove sono andati in scena gli spettacoli ci hanno mostrato, ancora una volta, il bisogno, la fame e la necessità di teatro di un popolo che ha vissuto il festival e riempito le sale, appuntamento atteso ed aspettato tutto l'anno: il centrale Municipal Joachim Benite che sembra una piscina capovolta con i suoi infiniti piccoli quadratini celesti a rischiarare e illuminare di luce tenue l'intorno, l'Academia Almadense moderno e funzionale, l'Incrivel Almadense cubo nero, il Forum Romeu Correia di grande impatto nel parco dove spicca la scultura delle tre braccia, con mani aperte a toccare le nuvole, l'Estudio Antonio Assuncao bianco e piccolo che pare una facciata di un palazzo messicano. Il bacalao non manca mai, nei pranzi e nelle cene condivise, momento conviviale dove potersi incontrare tra compagnie ed operatori provenienti da tutto il mondo, mentre la scelta complicata è se prendere una Sagres o una Super Bock, le birre che vanno per la maggiore in Portogallo. Almada ogni anno ci sembra più attiva e contemporanea, Lisbona più fresca e giovane, il Portogallo più frizzante e aperto. Andrebbe fatto un monumento nazionale ai pasteis de nata, il pasticcino a base di pasta sfoglia e crema.87A7431©ALIPIOPADILHA.jpg

Sospesa tra cinema e teatro ci è apparsa la piece “O criado” (quest'anno soltanto tre sono stati gli spettacoli stranieri, tutto il resto erano di provenienza portoghese) di Andrè Murracas, non a caso anche regista cinematografico. Partendo da “The servant” adattato da Harold Pinter, il regista, che è anche attore e movimentatore di oggetti per le videoproiezioni ma anche lettore e mixerista al suo tavolino da lavoro centrale, è il deus ex machina che si muove, sposta, fa, articola tra i suoi mille spazi. Il tutto in bianco e nero e il tutto in continuo parallelo e confronto, in controluce, in prospettiva, in sovrapporsi, in dissolvenza, tra la realtà, la pellicola in questione e la riproposizione nel presente della stessa scena in video, quasi un doppio, allo specchio. Ma non solo; il film e le azioni del regista-performer in teatro dal vivo sono intervallate da interviste con vari attori che rispondono, leggono parti del copione o lo provano nel privato delle loro abitazioni. Murracas è molto hitchcookiano. Come se il teatro entrasse in contatto e in dialogo (diavolo?) diretto con il cinema. Ma se l'idea può essere arguta, la sua realizzazione, soprattutto con l'avanzamento, risulta didascalica con lo scorrimento delle immagini e la spiegazione delle stesse come fosse un cineforum o una conferenza o una lectio lasciandoci distanti, un po' in sordina, laterali rispetto all'opera molto nebulosa e criptica, ben orchestrata ma poco viva. E' questa la deriva del teatro o l'evoluzione del teatro? Speriamo sia soltanto la prima opzione. Il regista diventa anche dj, si improvvisa prestigiatore ma ha poca presa ed empatia ottenendo un effetto freddino che sa di un tentativo, un esperimento non andato a buon fine, naufragato senza dolcezza, rimasto a metà strada, con il colpo in canna. E se il cinema fosse soltanto il teatro in remoto?

Se “O criado” in una scala sentimentale era razionale e controllato, possiamo assolutamente affermare il contrario per quel che riguarda “Rebota, Rebota” della spagnola Agnes Mateus, un vero vulcano cosparso di argento vivo e mercurio incandescente. Sul palco è una furia, un ciclone, uno tsunami che tutto spariglia e travolge, una forza possente e titanica, una vera rocker, un fuoco, un turbine. Ha una marcia in più03_REBOTA__f.Quim Tarrida.jpg la Mateus nella sua invettiva che parte in tono canzonatorio e brillante e si fa pian piano sempre più atto d'accusa sul tema della violenza sulle donne divenendo, alla fine, vero e proprio stato d'allarme, processo accusatorio, presa di coscienza sul femminicidio, consapevolezza e moto di ribellione ed orgoglio. Sul boccascena, come una punk dai pantaloni dorati scatenata sulla musica techno con la faccia dipinta come Joker, la performer sperimenta la sua parodia machista-latina con tutti gli stereotipi del caso, partendo dalle offese alle donne. Il suo è un canto, un grido, un urlo, s'accapiglia, s'infervora, s'agita, si scalda. Il suo è un alfabeto delle ingiurie e degli insulti che normalmente le donne, ad ogni latitudine e in ogni contesto sociale, devono subire. Il suo è un j'accuse doloroso, a tratti rancoroso, spesso retorico, pieno di furore positivo e d'impeto rovente. Diventa cascata e torrente in piena, è un diesel che si fa turbo. Dopo gli oltraggi è tempo di scartavetrare e ribaltare il vero senso maschilista delle fiabe per bambini dove la donna aspetta sempre che il maschio la salvi, la sposi, la elevi dal suo rango di subalterna. Frasi al veleno, “nel calcio non ci sono omosessuali” o “se una donna non si sposa vuol dire che è lesbica”, fanno da contraltare con fasi più pop e leggere. E' un Leo Bassi in versione femminile, vulcanica, senza peli sulla lingua, è un Puk che non fa sconti, che non cede, che non molla la presa, che ti mette all'angolo con le spalle al muro, davanti alle responsabilità della società, degli uomini e delle stesse donne che accettano, subiscono, non si ribellano. Funambolica, elettrica, sconquassa, percuote, distrugge, è un carrarmato, un caterpillar, uno schiacciasassi che non si incrina, vera pasionaria, amazzone intensa, energia pura, spinosa, mai doma. L'elenco delle donne uccise per mano maschile tra le quattro mura domestiche in Spagna è un pugno nello stomaco ma è quando, da circense, diventa il bersaglio di un lanciatore di coltelli, metafora della condizione femminile, che il discorso si fa ancora più cupo fino a quando la Mateus non mette la testa, per minuti interminabili, dentro una carriola piena di terra ricordando lo struzzo ma anche pratiche di tortura: “Le donne dimenticano per sopravvivere, le donne perdonano”. Dall'alto cadono centinaia di palline (il rimando agli organi sessuali maschili è evidente e voluto): it's raining men!

Altro tema cruciale della nostra società è senz'altro la religione, i suoi fanatismi, i suoi deliri, le sue allucinazioni, i suoi isterismi, le sue farneticazioni, le sue esagerazioni. La religione vista come uno scudo, come un parafulmine a tutto ciò che accade, una protezione, un tetto sotto il quale rifugiarci nel mezzo del temporale della vita, un riparo conservatore e consolidato, accondiscendente e consuetudinario e consolatorio. Ma quando a diventare fanatico religioso e osservante alla lettera della Sacre Scritture è un adolescente le cose si fanno problematiche perché mette in CM_0842.jpgcrisi una serie di dinamiche e comportamenti assodati, crepano l'ordine costituito delle cose, il normale andamento di regole e divieti, mina l'autorità dei professori, quella dei genitori. “Martir”, testo di Marius von Mayenburg, per la regia di Rodrigo Francisco (in Italia l'hanno realizzato i Filodrammatici di Milano un paio di stagioni fa), ci porta dentro la trasformazione della psiche di un ragazzo, nel suo avvicinamento al Vangelo fino a considerare il mondo moderno come sponda naturale per le parole millenarie degli apostoli, applicando le parabole dei santi come leggi inamovibili che tutto regolano. La messinscena è ampia e aperta, bianca, pulita, un quadrato con tante finestre che adesso si fa scuola, ora casa, infine chiesa. Teche linde alle pareti dove poter scrivere (come sono gli adolescenti, teli bianchi, spugne che raccolgono) versetti e frasi, citazioni bibliche e virgolettati che danno un senso alla vita, che la spiegano, la chiariscono, vetrate come lavagne. La religione come appiglio e piede di porco per dare una definizione all'insondabile esistenza degli umani. Il ragazzo (molto convincente il protagonista) che diviene ogni giorno sempre più devoto e pio, bigotto ed osservante, che rifiuta il contatto con le ragazze, che entra in aperto conflitto con la madre e con la professoressa, nodo e fulcro della vicenda. Chi è il Martire? Chi vuol farsi Martire? Chi è vittima e chi invece si fa passare per vittima? In questo gioco al massacro ci si scambia la pena di una croce da portare per divenire quei “Martiri” che la società può tollerare, sopportare, santificare, con i quali solidarizzare e non, per senso di colpa, emarginare.

Interessantissima la riflessione del giovane regista e drammaturgo Tiago Correia che incentra la sua riflessione sul “Turismo”, quella massa di persone che si spostano, mangiano, fanno foto, si muovono, prendono mezzi, hanno bisogno di servizi, incrementano l'indotto di un Paese inevitabilmente trasformandolo a suo gusto e misura snaturandolo intimamente. Il Portogallo, negli ultimi anni, ha sponsorizzato dinamiche per far sì che i pensionati europei, prendendo lì la residenza non paghino le tasse per i primi dieci anni.1533_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira.jpg Un bel colpo, un Paese sicuro, tranquillo, con una buona qualità della vita, un clima mite anche d'inverno e nuove strutture per i suoi nuovi cittadini. E' ovvio che il turismo, e di rimbalzo l'economia, per soddisfare chi viene a spendere nel nostro Paese, lo voglia a sua immagine e somiglianza, a cominciare dal cibo, ai costumi, tutto si frantuma, si globalizza, diventa meticciato, le tradizioni si perdono, tutto si annacqua tra souvenir (prodotti comunque in Cina) e mete sempre meno esotiche ma anzi frequentatissime. Non esiste più un luogo che non ha visto turismo e turisti che sì comprano, dormono e cenano ma che trasformano le città in gadget, ninnoli, soprammobili, cartoline. Le città così violentate perdono la loro anima, i residenti che lasciano il centro affittando a prezzi astronomici. Quello che è successo con Venezia, città fino alle sei di pomeriggio invivibile e dopo deserta. Quello che è successo a Forte dei Marmi in Versilia con i russi che sono arrivati in massa a comprare le ville. Si crea una bolla finanziaria e immobiliare per le quali per i residenti che lì ci vivono tutto l'anno, i prezzi diventano insostenibili, i servizi ai quali poter accedere irraggiungibili in quella che era ed è ancora casa loro ma, in pochi decenni, esclusi, emarginati dal mercato. Se ci mettiamo anche che per attirare capitali stranieri (negli ultimi anni cinesi, russi, arabi) devi abbassare il costo del lavoro, va da sé che in molti Paesi del mondo, compreso il Portogallo e l'Italia che vivono di turismo, tra qualche anno, dopo l'ennesima fuga dei cervelli, in patria non rimanga che lavorare nella ristorazione o nella ricettività alberghiera. Un magro panorama.

La messinscena è europea, di grande respiro internazionale con un uso delle luci evocativo e serafico e sensuale, le immagini riprese in presa diretta e riproiettate sulla scena, il rumore costante di aerei che atterrano e partono per il mordi e fuggi low cost. Se tutti possono andare dappertutto allora il prezzo si abbassa compresa la qualità in nome di una quantità che diviene dozzinale, grossolana. Le Nazioni si trasformano in divertimentifici, in succursali estive per stranieri con il portafoglio gonfio. Basti pensare alla Grecia alla quale è rimasto il mare e le isole. I Paesi diventano quello che i turisti sperano di trovare, le persone del luogo v1211_© Jose Caldeira_© Jose Caldeira 1.jpgengono sostituite, bisogna imparare le lingue altrui per potergli vendere l'ennesimo ricordo a pochi euro. E' un gioco che in pochi anni può distruggere ecosistemi di usi e costumi centenari inseguendo il Dio denaro e cercando di soddisfare le richieste, la domanda che gestisce e trasla l'offerta. Dimmi cosa vuoi e sarò in grado di dartela in un cortocircuito di competizione internazionale per attrarre più rotte possibili, intercettare più flussi. Vengono scoperte nuove mete, si costruiscono aeroporti, sorgono città che non c'erano, servizi, possibilità, il lavoro c'è per tutti, sottopagato ma c'è, fin quando non viene aperta un nuovo mercato che attragga maggiormente. Perché nel mondo del turismo, dove tutti sono andati dappertutto, è la novità quello che cerchiamo sempre, il nuovo, il mai visto. Appena il turismo di massa si sposta da un luogo ad un altro vengono mese sul lastrico generazioni e popoli, famiglie intere. Il turismo è una droga, è un doping che pompa quelli che all'inizio sembrano soldi facili ma che gonfiano i conti, le spese, l'inflazione. Il turismo è come la prostituzione, vittima delle ondate e delle voglie. Gradualmente gli Stati perdono i loro connotati, la propria identità sbiadisce, diventa movida e alcool, ristorantini, code, musei. I piatti tipici si avvicinano al gusto del forestiero per poterglieli vendere più facilmente, storie millenarie di popoli si inchinano a tripadvisor, si genuflettono a booking e tutto prende il sapore di una Disneyland al retrogusto del “menù turistico”, quelli dove non mangi ma ti riempi e ti rimane quella sensazione di pienezza senza che il palato sia realmente soddisfatto. Le città diventano “a misura di turista” e non “a misura di cittadino”, il turismo che usa ed abusa, consuma e sporca e se ne va lasciando i problemi a chi la abiti 365 giorni l'anno. Turismo e responsabilità spesso sono due rette parallele. Una bellissima intuizione, una regia fresca, una dialettica efficace per smuovere il dibattito.

Tommaso Chimenti

SANSEPOLCRO – Guardi il cartellone del festival di Sansepolcro e rimuovi il pensiero sul Covid e su tutti i danni che, a cascata, sta procurando (e la valanga che nei prossimi mesi porterà nuovi scompensi) al settore dello spettacolo. Un calendario fitto, pieno, denso, corposo, una settimana d'immersione tra le pietre antiche del comune di Piero della Francesca, che quest'anno compie i 500 anni dalla fondazione, e l'innovazione delle performance che, fin dal suo debutto-scommessa (ampiamente vinta), diciotto anni fa, Lucia Franchi e Luca Ricci, i due direttori artistici, scelgono, portano, accompagnano, supportano con un lavoro costante che ha la sua esplosione nell'ultima settimana di luglio ma che anche durante l'anno illumina di cultura la Valtiberina. Innovazione e Tradizione i due capisaldi sui quali ondeggia la rassegna dove è facile scovare le novità che saranno, le tendenze che si faranno, i gruppi alle prime armi in mezzo a consolidati fenomeni. Padrino omaggiato del festival un'icona del nostro teatro contemporaneo: Roberto Latini. A lui è stata dedicata una mostra, un convegno, un premio, le letture dei testi dei suoi allievi di un corso di drammaturgia internazionale, riprese di spettacoli storici; un successo. Piece fino a notte fonda tra chiostri e angoli ritrovati, riscoperti, fresche mura secolari dentro le quali cullarsi, nascondersi, sognare. “Viaggio al termine della notte” è l'insegna di quest'annata bislacca e bisestile, la notte c'è stata, c'è, dal sapore koltesiano, ma noi ci passiamo dentro, attraverso, non vogliamo averne paura e rimanerne esclusi, autoemarginati, lontani, un viaggio che non è di piacere ma è di conoscenza e scoperta, dantesco potremmo dire, fuori e dentro noi stessi, le nostre radici, le nostre comunità di riferimento, i territori, con consapevolezza e presa di coscienza. La notte dobbiamo illuminarla, con le torce della ragione. Nella nostra analisi ci soffermeremo su quattro interessanti proposte che, per ragioni diverse, ci hanno solleticato,Quotidiana.com-foto-di-Antonio-Ficai-5-2.jpg incuriosito, attirato, avvinto.

L'analisi della realtà, dei suoi conflitti e delle sue crepe sono i nodi sui quali lavorano da sempre i Quotidiana.com, duo riminese che sfalda la banalità, s'intrufola nei nostri tempi bui e grigi, tenta di dar luce (a volte fuoco) alle pochezze e piccolezze del nostro immaginario collettivo. Ci svelano, ci scompigliano, ci scuotono. La loro poetica è intrisa di cinismo e sarcasmo, di freddezza come di fine intelligenza. Questo “Tabù” ha per sottotitolo la frase più bella di tutta la drammaturgia: “Ho fatto colazione con il latte alle ginocchia” che ricorda la noia, espressa anche dalla loro (non) recitazione neutrale-candida senza accenti che spiazza, ma anche il sesso dal quale parte tutta la loro riflessione che diviene elenco dei non detti della nostra società che si ritiene così evoluta ma che, constatando soprattutto gli ultimi tempi, sta facendo grossi passi indietro in termini di tolleranza, accettazione, integrazione, libertà di pensiero. Sempre uno davanti all'altro, sempre graffianti, i silenzi così debordanti, quel sottovoce che quasi imbarazza. Il format è il loro marchio di fabbrica, il registro è riconoscibile, le risate, come le frasi ad effetto cariche di ironia sprezzante e di veleno, si sono ridotte, come asciugate. La narrazione è ancora acida, urticante nell'esporre il ventaglio di temi o termini dei quali è meglio oggi non parlare: la menopausa, la depressione, il suicidio, il fine vita. Esprimono meno potenza entusiasmante, sparano meno botti ma la disperazione di sottofondo è ancora lì a farci bestemmiare sottovoce. Sono grilli parlanti per una danza immobile, una placidità che le-baccanti2.jpgnon si fa morbidezza, parole incastonate low profile, rispetto al passato meno flash, meno gong, meno bang. La pistola però è ancora fumante.

Le Baccanti” doveva essere un ensemble a più voci e più corpi, che la pandemia ha tagliato, distrutto, ridotto. Ma Simone Perinelli e Isabella Rotolo, il gruppo laziale leviedelfool, non si sono arresi né fatti intimorire proponendo un solo del funambolo-performer Perinelli. Purtroppo queste “Baccanti” hanno avuto un sapore leggermente didascalico e hanno risentito, pur nell'accuratezza, come sempre, di suoni e luci e scene, di rimandi a spettacoli del loro recente passato. Sembrava di veder condensati parti e pezzi di vita scenica vissuta in precedenza: i microfoni laterali e quello che scende centrale, il sound di bassi ritmato che incatena il testo e lo abbraccia abbrancandolo, le maschere giapponesi e il ramo al sapor orientale raffinato. Si sentiva sul palato un mix, un rimando (volontario?), ad “Heretico” come di “Made in China”, ritornava a trovarci “Yorick”. Noi rimaniamo ancora legati sentimentalmente ai vari “Pinocchio” e “Do you want a cracker” come a “Macaron” dove la forza, che diveniva furia, di Perinelli era vero maremoto che squarciava l'abisso e sciacquava gli scogli delle coscienze. Il suo stile, robertolatiniano, è inconfondibile ma stavolta entrare dentro le sue parole, che nel frattempo hanno perso visionarietà e poesia rispetto a come ci aveva abituato, è stato complicato. Seppur meno punk e meno dirompente, continuiamo a riconoscere a Perinelli l'arte del palco, il mestiere dello stare in scena, il talento del padroneggiare le parole e i versi, la costanza tambureggiante, l'inventiva (che a tratti si trasforma in invettiva), il genio che qui, forse, è rimasto imbrigliato nel Mito che a volte esalta e a volte tritura, a volte ti fa Dio, altre ti fa vittima.

Altro attore di razza, Paolo Mazzarelli, si fa carico dell'ambivalenza, prende la responsabilità pirandelliana del doppio, dell'essere e dell'apparire, Soffia Vento 2 1280x731 1300x731condizione sine qua non dell'attore. In un confronto serrato e intimo, ironico a scandagliare i chiaroscuri del mestiere, gli equivoci e gli equilibrismi per non perdere bussola e orientamento, in “Soffiavento” si apre una botola sul grumo che ogni artista deve comprimere e sciogliere, come se una fresca brezza d'aria di una finestra lasciata aperta avesse scombussolato i fogli diligentemente catalogati, controllati e ciclostilati di una vita. Mentre sta recitando il Macbeth si scolla qualcosa dentro e dopo non può essere più lo stesso, qualcosa cambia irreversibilmente e non si può tornare indietro. Le crepe fanno acqua da tutte le parti e Shakespeare lascia il posto ad una seduta psicanalitica, in una orazione accalorata e tossica, una confessione lenitiva e catartica. Come i cocci giapponesi incollati con l'oro. Come le ferite felici che lasciano passare finalmente la luce in fondo al tunnel. Dostoevskiano nel suo cupo personaggio come salottiero, foriero di aneddoti immerso nei personali ricordi di una vita spesa sul palcoscenico. Pippo, il nome del suo personaggio, sente le voci. Ci è venuto in mente Pippo Delbono. “Avere tutto è perdere tutto”, le sue massime stilettano, sfidano, lambiscono, carezzano e schiaffeggiano il teatro nel teatro convincente di questo ruolo che si mangia la persona, nella disperazione che affoga e resuscita. Il perdersi come attore è un ritrovarsi come uomo. Un naufragio che diventa salvifico, una parentesi che lo sveglia dal torpore: “Un artista non ha una vita, un artista è quello che fa”, un turbinio, un sistema che schiaccia. Mazzarelli è efficace e persuasivo, stabile e solido, vero nella finzione.

Il Teatro dei Borgia ci ha abituato a situazioni non convenzionali, ad usare gli spazi in maniera originale, a pensare oltre e altro rispetto al palco, al teatro, alle idee da mettere in circolo. Dopo aver visto il loro D'Annunzio, nella bocca del leone della Fiume croata, la critica-elogio del Meridione nel monologo disorientante “Sud-Orazione”, e quella “Medea” in furgone che strazia pochi spettatori alla volta dentro un van alla ricerca dei luoghi più periferici, asfaltati delle città dove prostituzione e lampioni non sono oggetti di scena, adesso ci ritroviamo dentro un'immaginaria mensa dove un eroe moderno, “Eracle, l'invisibile”, Eracle.jpgci racconta ascesa al Paradiso e discesa agli Inferi nell'impotenza, nel gelo, nel constatare come la nostra società riesca, per paura e scaramanzia, a dar più ascolto alle voci, ai rumors, che alla sostanza, più ai pettegolezzi che all'oggettività. La vita di un professore integerrimo e preparatissimo (ci è balenata alla mente la pellicola “The life of David Gale” con Kevin Spacey, altro accusato, nella vita reale però), amato da colleghi e alunni che viene spazzata via da un'invenzione di una studentessa. Si apre il girone delle maldicenze, quelle che se le neghi le affermi, quelle che se stai zitto le confermi. Non c'è salvezza, non c'è pietà per un uomo mite e buono, impreparato ad affrontare i dardi del destino e le prove del mondo che lo vogliono piegare. Se nella prima parte il citazionismo la fa da padrone in un monotono colore di sottofondo c'è un crack, una virata, prima appena impercettibile che poi diviene deflagrante, come un vetro rotto in miliardi di pezzi infinitesimali senza possibilità di ricompattarsi. Nelle parole di Fabrizio Sinisi, per la regia di Giampiero Borgia, la presenza di Christian Di Domenico, mentre prepara il pane, mentre imbusta acqua e una mela per qualcuno che non riesce più a sostentarsi e a trovare un lavoro, è un groppo in gola nella sua faticosa rincorsa per riprendersi ciò che gli hanno indebitamente tolto con il raggiro, con la furbizia, con la stupidità. E quando un uomo normale entra nel vortice della Giustizia togliersi marchi infamanti dalla pelle è impossibile come cancellare tatuaggi con acqua e sapone. La sua recitazione è un escalation, un diesel che prende corpo e si fa strada a falcate verso il disastro che possiamo solo accogliere. Scende il gelo, cala il panico. Siamo tutti come l'Ercole che abbiamo davanti, un eroe sconfitto che più perde più non si dà per vinto. C'è sempre un briciolo di apertura, di possibilità alla non rassegnazione ma ogni brano, ogni frase è un blocco di cemento, un incudine a pesare ulteriormente sulla bilancia a suo sfavore. E non ci puoi far niente, e l'immedesimazione è possibile e plausibile e nessuno si può sentire al riparo: da vedere per capire dove siamo arrivati, fin dove ci siamo spinti. Ne usciamo umiliati, svuotati e i molti applausi scroscianti non ci tirano su il morale.

Tommaso Chimenti 22/07/2020

CAMPI BISENZIO – Ci sono bambini che non vogliono andare a scuola, vedi Lucignolo e di conseguenza Pinocchio, e bambini che invece ci vorrebbero andare eccome. E' successo ai nostri figli, nipoti, piccoli la cui socialità, soprattutto quella fondamentale dell'apprendimento e della condivisione e delle esperienze quotidiane con i coetanei tra i banchi di scuola, si è bruscamente interrotta il 9 marzo con l'inizio della quarantena. Da qui parte, intelligentemente e con uno spirito connesso ai nostri tempi storici, lo spettacolo “Carlotta e la valigia del dottore” a cura della compagnia pisana Guascone Teatro (i tipi che organizzano da anni le stagioni di Bientina e di Casciana Terme, che hanno inventato “Utopia del Buongusto” e che da un paio di edizioni mettono Sergio-e-Manola-Teatro.jpgsu anche Volterra: macchine da guerra) che ha vinto la ventisettesima edizione dell'importante festival “Luglio Bambino” (la direzione artistica è sempre del duo capace e altamente competente Manola Nifosì e Sergio Aguirre) dedicato al teatro ragazzi. “Carlotta” è risultato, secondo la giuria di esperti e giornalisti toscani del settore (il presidente Gabriele Rizza, Francesco Tei, Giulia Focardi, Tommaso Chimenti, Francesca Tofanari, Dante Bigagli, Barbara Berti, Pierfrancesco Nesti, Debora Pellegrinotti), il migliore sui quattro presentati all'interno del concorso, battendo così “Emanuela e il lupo” di Nata Teatro, “La principessa triste” di Trabagai Teatro e “Cuori di pane” dei Teatrino dei Fondi. Quest'anno il tema era “la gentilezza cambierà il mondo”, il delicato simbolo un bellissimo esemplare di elefante che tiene in alto con la sua proboscide un ombrello colorato per riparare in basso una piccola mangusta che, con le mani giunte, ringrazia.

Con una costruzione tutta basata sul teatro-canzone (alla chitarra Francesco Bottai dei “Gatti mezzi”, fior fiore di strumentista che poi, senza abbandonare le sei corde, si trasforma anche in medico con tanto di camice bianco nei suoi spunti pungenti ed acri) Adelaide Vitolo (sua la drammaturgia, mentre la regia è di Andrea Kaemmerle, sono loro due le anime pulsanti di Guascone Teatro) è una convincente Carlotta, questa dolce bambina che vuole assolutamente, necessariamente andare la mattina a scuola. Ma qualcosa glielo impedisce. Sta qui l'aggancio con la contemporaneità, con quel maledetto Covid-19 che ha interrotto azioni date per scontate fino a qualche tempo prima e che ci sono mancate terribilmente. Un colpo di tosse, poi uno starnuto. “Con la febbre e l'influenza non si può andare a scuola” dice perentoria la voce degli adulti e della coscienza. Carlotta lotta contro quella che lei ritiene sia un'ingiustizia perché la scuola è vitale, è gioco, è amicizia, ma alla fine capirà che per il proprio bene ed anche per quello dei suoi compagni-amici se si è malati bisogna curarsi al caldo di casa con le medicine, le compresse, addirittura le supposte e a volte, purtroppo, anche le iniezioni.

Il testo unnamed.jpgha una doppia lettura, una diretta, semplice per i bambini, un'altra più fine e sotterranea per gli adulti-genitori, qualcuno ogni tanto, nel teatro-ragazzi, pensa anche a loro. Le canzoni sono in rima con ritmi che coinvolgono, spigliate, osano senza paure, sfidano in un gioco veloce di battute, ironia e sarcasmo che si rincorrono in un susseguirsi di situazioni rocambolesche tra le quattro mura domestiche nelle quali, sicuramente, si sono rivisti sia i bambini alle prese con termometri e varicella, e i genitori a cercare di frenare l'esuberanza e l'istinto dei piccoli. manifesto_lugliobambino2020.jpg“Carlotta”, anche in relazione alle altre tre proposte del concorso interno a “Luglio Bambino”, ha un taglio attuale, come linguaggio e stile e messinscena, senza cedere a facili retaggi del passato: principesse e draghi, fiabe trite e scolorite o il lupo cattivo: i bambini hanno bisogno di sogno ma anche di realtà per potersi appassionare alle storie. “Carlotta e la valigia del dottore”, al gusto di filastrocca, insegna i bambini ad avere pazienza, che non si può fare tutto quando lo vogliamo, che esiste un tempo per giocare e un altro per riposare, uno per uscire e uno per curarsi, uno per andare e uno per restare, uno per correre e uno per stare a letto, uno per andare a scuola e uno per stare a casa.

Questa la motivazione del Premio: “La giuria di Luglio Bambino 2020 ha espresso un verdetto non unanime premiando la compagnia Guascone Teatro per lo spettacolo “Carlotta e la valigia del dottore”. Il livello di scrittura era inconfondibilmente più curato e strutturato rispetto alle altre produzioni presenti in concorso. Con leggerezza e garbo, la drammaturgia è stata coerente e plausibile accordandosi ai tempi di Covid-19 che i bambini hanno appena vissuto e subito. “Carlotta” gioca con la musica e con la forma del teatro-canzone, padroneggiandola, sfoderando un doppio binario di lettura, per i bambini e per gli adulti, con una fine ironia, intelligente e acuta. Inoltre le musiche originali di Francesco Bottai hanno supportato “Carlotta” nella sua scherzosa battaglia contro il dottore, donando al tutto un'atmosfera festosa con tocchi alla Bobo Rondelli”. Nella vita bisogna essere un po' Guasconi. Lunga vita a “Luglio Bambino”!

Tommaso Chimenti

BOLOGNA – Arrivi alle Ariette, dopo Monteveglio in questo spicchio tra Bologna e Modena, passeggi nel bosco, scruti le nuvole, tocchi l'erba, noti il verde e ti sembra impossibile associare la quarantena, o lockdown per i più esterofili, ad un tale stato di grazia, ad una tale apertura, ad un tale respiro. Qui dove tutto è ampio, lontano a perdita d'occhio e non riesci a contenere tutto il panorama con lo sguardo. Nessun senso di chiusura, di costrizione, di clausura, di recinto. Qui la quarantena, in Valsamoggia, la volontaria reclusione rispetto ad altri nostri stessi simili, è una condizione normale, consueta per il contadino che si sveglia all'alba e va a letto al tramonto e che ne ha di cose da fare, consueta per l'attore che prova e scrive e annota pensieri e parole che diventeranno il prossimo spettacolo. Appunto, attori e contadini, le due anime paritarie delle Ariette, gruppo che prende il nome dall'appezzamento, dalla terra sulla quale poggiano le mura del deposito degli attrezzi, trasformato in teatro, della loro abitazione, dei loro piedi e di quelli dei loro animali. Già, gli animali, la parte più vera e onesta, incapaci di fare il male per80191300_3097519597036384_8408984730230381835_o-890x500.jpg il male, più puri e ingenui, gli animali che sono i grandi protagonisti in questa inquieta fiaba noir, ultimo loro progetto che pare proprio scritto dalle loro sapienti mani e che invece arriva dalla penna della scrittrice francese Catherine Zambon, il testo-riflessione “E riapparvero gli animali” letto in uno dei tanti incontri zoom. Una volta letto se ne sono innamorati perché parlava di loro, a loro, e sembrava proprio essere uscito dalle loro dinamiche, dal loro stare in mezzo al mondo grazie al teatro, in mezzo alla natura e alla solitudine grazie all'amore per la natura e tutti gli esseri viventi.

Prima che si accendano le lucine, tra sagra di paese e Festa de L'Unità, a rischiarare la notte e il racconto, si cammina per i campi, per queste dolci colline, una passeggiata che è sempre salutare alla scoperta della fatica del coltivare, dell'impegno e dell'amore che ci vuole, quotidianamente e costantemente, senza pause, per far crescere verdura e frutta, curare e prendersi cura e finalmente essere ricompensati con la fioritura, la germinazione, i frutti. E' tutto un gioco di tensione tra il lavoro dell'uomo e la forza delle cose naturali, le intemperie e tutto quello che l'uomo non può controllare. Passiamo vicini ai pomodori come alle patate, alle zucche e zucchine ma sentire raccontare da Stefano Pasquini, nelle vesti di Cicerone, di coltivazione e arature rende tutto più concreto, tattile e allo stesso tempo poetico e sognante. C'è la fatica ma anche la soddisfazione,download.jpg c'è la gioia ma anche la durezza del lavoro manuale. E ancora un campo di asparagi e un pergolato di nocciole. E ci narra di cinghiali e ghiri, istrici e caprioli che apprezzano (come gli spettatori quando alla fine delle loro piece ci rifocillano sempre con preziose pietanze preparate, cucinate e coltivate dalle e con le loro mani) i loro campi e coltivazioni in un continuo equilibrio, sempre da rimodellare, tra l'uomo e la natura che non è sempre bella bucolica da cartolina ma a tratti è selvaggia e ruspante e rustica e ruvida.

Un inciso doveroso sulla compagnia Teatro delle Ariette: pare scandaloso che nei loro 25 anni di storia (hanno preso il podere nell'89, si sono formati come gruppo teatrale nel '96) non abbiano mai ricevuto o conseguito un premio, né l'Ubu, nemmeno quello “Speciale” (negli ultimi anni lo vincono in cinque ogni edizione), né l'ANCT, né Hystrio, né Rete Critica, né Le Maschere né l'Enriquez, un vero sacrilegio da colmare. Ritornano gli animali negli spettacoli delle Ariette da quel “Bestie” del 2006 visto a Volterra. Attorniati da un tramonto arcaico di nuvole rosa, l'odore forte d'erba medica, un barbagianni impagliato così come una volpe e uno struzzo recuperati in una scuola molti anni fa a fare da contorno.

La riflessione (in scena Paola Berselli) che nasce dalle parole della Zambon è tosta: in un futuro prossimo distopico, altre infezioni e virus si sono propagati soprattutto dagli animali che da allora sono considerati contagiosi, da denunciarne la presenza, fino all'eliminazione. In una sorta di Chernobyl, prima si è distrutta quasi completamente la fauna per poi riorganizzarla con le regole settarie ed asettiche dell'uomo che eliminando gli animali ha perso la sua componente vitale, il suo guizzo, la sua verve. Gli animali concepiti solo come carne da macello. Le persone che avevano abbandonato le città e che vivevano distanziate e lontane le une dalle altre in campagna. Una vita non vita. I randagi tutti abbattuti, sterminati. Non si potevano prendere aerei, né passare da una regione all'altra, né abbracciarsi, bisognava sempre essere rintracciabili e tracciabili. Insomma, il lockdown che abbiamo vissuto ma ancora più estremo e spalmato nel tempo. Questa pulizia radicale (ricorda la “soluzione finale” dei nazisti nei confronti degli ebrei) fa sì che la vita diventi sinonimo di paura, non più gioiosa, nell'abbattimento di qualsiasi forma vivente per timore che possa infettarci, passarci virus.

Quindi da una parte la quarantena, simbolo dei nostri giorni, dall'altra si apre invece il dibattito sulla presa di coscienza personale, al di là di quella civile e collettiva, su che cosa come individuo sia giusto fare, se rispettare alla lettera qualsiasi regola impostaci dall'alto oppure se pensare con la propria testa.E riapparvero gli animali.jpg La protagonista infatti parlando di sé ci dice che lei era silenziosa, stava nella massa silente, accettava senza prendere parte, senza protestare o alzare la voce, cittadina non attiva che si nascondeva dietro e dentro le regole. E qui viene in mente la poesia di Brecht “Prima vennero a prendere gli zingari...”. In questo mondo del futuro gli uomini erano contro le bestie, gli uomini contro gli uomini che volevano salvare gli animali, e infine le bestie si stavano ribellando contro gli umani. L'odio produce sempre frutti avvelenati. Un regime totalitario che vuole vietare, come pretesto la salute pubblica, assemblee, comitati, convegni, cortei, manifestazioni. Una favola metaforica che ci mette con le spalle al muro chiedendoci: “Tu da che parte stai?” e che cosa fai per affermare la tua idea. Un finale terribile e ancora più nero (da Fratelli Grimm) nel quale si evince che gli animali non sono fuori di noi ma sono una componente essenziale della Terra, insieme al mondo vegetale, e che gli uomini sono solo una parte del tutto e nemmeno la più importante.

Quell'uunnamed (2).jpgomo che si prende la briga di decidere (crede di essere Dio), regolamentare le altre forme viventi ad uso e consumo proprio. Gli animali sono la nostra parte più irrazionale e fresca, quella rimasta del fanciullo, della bellezza, del gioco, della vita per la vita e non del cemento e degli appuntamenti, dell'asfalto e delle macchine, dei telefoni e della tv, tutte cose inventate dall'uomo essenzialmente per ritenersi immortale. “E riapparvero gli animali” (tutti i mercoledì di luglio, replica speciale aggiuntiva giovedì 30) apre la discussione sul nostro futuro, sulla paura che ci divide, sulla militanza, sugli animali che sono la gioia vitale senza tutte le sovrastrutture che ci affaticano quotidianamente. L'animale non perde tutto il tempo che lascia per strada l'uomo moderno a preoccuparsi delle inutilità, delle futilità (è l'uomo che ha inventato non a caso l'orologio, per avere l'illusione di poterlo soggiogare dentro quadranti, lancette e agende e calendari) disperdendo il tempo nelle briciole. L'animale vive, mangia e tenta di scappare dai predatori, sentendo dentro di sé ogni attimo che gli scorre sotto pelle, non dando per scontata la vita perché sa che è dura e feroce. E' per questo che, mediamente, vivono meno degli umani, perché ogni secondo è pieno, non annacquato. Se, e quando, l'uomo si autodistruggerà, gli animali certamente torneranno, faranno tranquillamente a meno di noi.

Tommaso Chimenti 13/07/2020

Pagina 17 di 30

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM