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Monticchiello diventa itinerante: "Isole d'istanti" è un tempo sospeso che esce dalla memoria

MONTICCHIELLO – Vivere d'istanti e non distanti, vivere d'istinti e non distinti. A volte un apostrofo fa la differenza, è il senso, il nesso che esplica, che potenzia, illumina, fa esplodere ed emergere. Il Covid non ha fermato il Teatro Povero di Monticchiello ma lo ha solamente cambiato, mutato, modificato, destrutturato forse in una chiave da prendere in considerazione anche per le prossime annate. Invece che il palco frontale in Piazza della Commenda, come di consueto, quest'anno sono state predisposte varie stazioni, una sorta di Via Crucis senza tragedia, o “Isole” come le hanno chiamate i drammaturghi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli (riuscitissimo il loro esperimento), fino a far diventare l'appuntamento in Val d'Orcia una piece itinerante per piccoli gruppi scaglionati. Sicuramente più movimentato e interattivo, si ha l'impressione di prendere la cittadina percorrendola, di tastarne con le suole le pietre antiche, di scrutare le porte, godere dei suoi angoli nascosti, i gerani alle finestre, di toccare con mano palmo a palmo i metri, le facciate, i lampioni, ogni dettaglio che altrimenti sfuggirebbe. L'impostazione di quest'anno (diminuite le repliche, se prima erano dal 25 luglio al 15 agosto, quest'anno si è preferito accorciare dall'1 al 15 agosto) va incontro anche alle nuove generazioni che hanno bisogno di più freschezza e meno staticità. E' “Isole d'istanti” (54esima edizione dell'autodramma dei cittadini di questa preziosa gemma a sette chilometri da Pienza), flash di vita quotidiana che, come voyeur, osserviamo affacciandoci alle loro finestre, buttando l'occhio interessato alle “vite degli altri”, entrando nel loro quotidiano.116879851_1418053745072609_2663525803923806433_o.jpg

Tredici stazioni (un'ora e mezzo il cammino teatrale) partendo proprio da fuori le mura e attraversando simbolicamente quella Porta che ci fa entrare nella magia del sogno, nel solco del segno del tempo che si è fermato e che riemerge a respiri, a boccate, a momenti, riportandoci dentro bolle sospese. Si cammina, ci si ferma, si ascolta. Intanto il panorama della Val d'Orcia stordisce per bellezza, ci abbraccia a perdita d'occhio, sembra non finire, si vedono come puntini cipressi e olivi a impreziosire la tela baciata dal sole. Il fil rouge di fondo è lontano, fortunatamente, da tante elucubrazioni che negli anni avevano infarcito i testi monticchiellesi, soprattutto i massimi sistemi dell'economia e temi sociali messi in bocca ad attori non professionisti, dialettali, stonavano e divenivano non credibili. Invece stavolta è la semplicità delle scene che ha reso questo nostro 116892752_1418052368406080_7152040079617485786_o.jpgwalking tra pozzi e finestre, tra giardini ed orti, un lungo respiro, commovente e sincero, vero, che è andato a sondare le radici di questo luogo, a toccare l'anima antica di queste persone che inventandosi il Teatro Povero hanno fatto ricco, di spirito e di attenzioni, il loro borgo e noi che siamo fedeli osservatori.

Non può mancare una riflessione sul coronavirus che diviene metafora di assedio, di dentro e fuori, di difesa e chiusura come di accoglienza. I bambini sono stati tra i più colpiti e i meno considerati nel dibattito nazionale e al netto dei decreti attuativi: “Non ci possiamo nemmeno toccare”, brilla come un esplosivo, e poi: “Prima ci dicono di starnutire nel gomito e poi, per salutarci, ci dicono di darci il gomito”, geniale. Si passa poi alla grande dicotomia, a livello ministeriale, tra turisti e spettatori, con i primi ben accetti, perché devono spendere, e i secondi messi in disparte. Ma il teatro da queste parti non è e non è stato soltanto palco, recite, testo da imparare, costumi da cucire, luci da puntare; il teatro è stato la molla, il cardine, è divenuto la comunità stessa, il perno, a volte il pretesto, attorno al quale ruota da oltre mezzo secolo la cittadinanza di Monticchiello: “Se non ci incontriamo non esistiamo”, urlano con un filo di voce. Poi ci sono i ragazzi (nuovi hikikomori) che si sono abituati allo stare chiusi in casa, le quattro mura che accolgono e che fiaccano, che consolano, che ovattano, che proteggono dai problemi del mondo là fuori, che tengono al riparo dal relazionarsi con gli altri, meglio un videogame, la realtà virtuale o le chat dove tutto sembra vero ma non lo è, dove tutto è impalpabile.

Presente ma anche il passato si affaccia aprendo le persiane; ecco i ricordi dei matrimoni in casa o il cinismo dei padroni contro l'ignoranza dei mezzadri. Presente, passato ma anche futuro: 117035948_1418054611739189_6689255727403117703_o.jpgtristemente divertente l'episodio della “Bank of Valdorcia” (da sottolineare la prova di Pierluigi Bonari) che vuole convincere a trasformare queste terre cariche di storia e natura in resort e palazzi, relais e tower, facendo investimenti, rilasciando bot, facendo prestiti, modificando il territorio, modernizzandolo, snaturandolo, cementificando. Il momento più emozionante è quello nello spicchio angolare dove un maestro insegna, siamo ad inizio Novecento, a tre bambini. Il maestro è Arturo Vignai presente fin dalla prima edizione del '67 e che mai ha saltato un anno (ha 87 anni e tanto da raccontare). Una frazione delicata, una pennellata, una carezza tenera e calda che finisce in un abbraccio sentito, vicino, gonfio. Non può mancare una critica all'ecologia radical chic, di quelli (buona presenza quella di Alessia Zamperini) che hanno scoperto l'orto e il bio, di quelli che vogliono 117120011_1418054395072544_3491979561980374262_o.jpgtornare alle radici, alla terra, a coltivare, ai lavori con le mani e poi continuano ad inquinare, a rilasciare plastica nell'ambiente, a sporcare, contaminare, deturpare, riempiendosi la bocca con falsi proclami che poi, alla luce dei fatti, dissentono e non rispettano.

Ci si sposta veloci in questo Giro del Paese in 90 minuti, agili come api sulle corolle, scivola via lasciandoci sulla pelle un profumo buono di Storia, di Vita, di sano. Imprescindibile il sindaco con le sue continue dirette facebook, un primo cittadino che sbaglia le parole (alla Cetto Laqualunque), ora siamo immersi dentro una banda felliniana che suona dietro ad un funerale (da ricordare Daniele Mangiavacchi, sempre grande presenza) fino all'emozionante chiusura, proprio in quella piazza che ogni estate zampilla di pubblico e calore, di applausi e parole, che quest'anno è vuota e desolata, buia e sgombra. Una signora (Rosanna Picchiacci intensa) parla con una sedia vuota davanti a lei, con un amico immaginario, fin quando non si apre una porta (un'altra porta, come all'entrata) che ci “vomita” fuori, ci restituisce alla vita, fuori dal sogno, da quest'atmosfera ovattata e crepuscolare, nitida e ombrosa allo stesso tempo, lontana come nostalgia e pulsante come un battito.

Tommaso Chimenti 09/08/2020

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