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Quando gli adulti smettono di pensare, gli animali sono le coscienze dei giovani

BOLOGNA – Arrivi alle Ariette, dopo Monteveglio in questo spicchio tra Bologna e Modena, passeggi nel bosco, scruti le nuvole, tocchi l'erba, noti il verde e ti sembra impossibile associare la quarantena, o lockdown per i più esterofili, ad un tale stato di grazia, ad una tale apertura, ad un tale respiro. Qui dove tutto è ampio, lontano a perdita d'occhio e non riesci a contenere tutto il panorama con lo sguardo. Nessun senso di chiusura, di costrizione, di clausura, di recinto. Qui la quarantena, in Valsamoggia, la volontaria reclusione rispetto ad altri nostri stessi simili, è una condizione normale, consueta per il contadino che si sveglia all'alba e va a letto al tramonto e che ne ha di cose da fare, consueta per l'attore che prova e scrive e annota pensieri e parole che diventeranno il prossimo spettacolo. Appunto, attori e contadini, le due anime paritarie delle Ariette, gruppo che prende il nome dall'appezzamento, dalla terra sulla quale poggiano le mura del deposito degli attrezzi, trasformato in teatro, della loro abitazione, dei loro piedi e di quelli dei loro animali. Già, gli animali, la parte più vera e onesta, incapaci di fare il male per80191300_3097519597036384_8408984730230381835_o-890x500.jpg il male, più puri e ingenui, gli animali che sono i grandi protagonisti in questa inquieta fiaba noir, ultimo loro progetto che pare proprio scritto dalle loro sapienti mani e che invece arriva dalla penna della scrittrice francese Catherine Zambon, il testo-riflessione “E riapparvero gli animali” letto in uno dei tanti incontri zoom. Una volta letto se ne sono innamorati perché parlava di loro, a loro, e sembrava proprio essere uscito dalle loro dinamiche, dal loro stare in mezzo al mondo grazie al teatro, in mezzo alla natura e alla solitudine grazie all'amore per la natura e tutti gli esseri viventi.

Prima che si accendano le lucine, tra sagra di paese e Festa de L'Unità, a rischiarare la notte e il racconto, si cammina per i campi, per queste dolci colline, una passeggiata che è sempre salutare alla scoperta della fatica del coltivare, dell'impegno e dell'amore che ci vuole, quotidianamente e costantemente, senza pause, per far crescere verdura e frutta, curare e prendersi cura e finalmente essere ricompensati con la fioritura, la germinazione, i frutti. E' tutto un gioco di tensione tra il lavoro dell'uomo e la forza delle cose naturali, le intemperie e tutto quello che l'uomo non può controllare. Passiamo vicini ai pomodori come alle patate, alle zucche e zucchine ma sentire raccontare da Stefano Pasquini, nelle vesti di Cicerone, di coltivazione e arature rende tutto più concreto, tattile e allo stesso tempo poetico e sognante. C'è la fatica ma anche la soddisfazione,download.jpg c'è la gioia ma anche la durezza del lavoro manuale. E ancora un campo di asparagi e un pergolato di nocciole. E ci narra di cinghiali e ghiri, istrici e caprioli che apprezzano (come gli spettatori quando alla fine delle loro piece ci rifocillano sempre con preziose pietanze preparate, cucinate e coltivate dalle e con le loro mani) i loro campi e coltivazioni in un continuo equilibrio, sempre da rimodellare, tra l'uomo e la natura che non è sempre bella bucolica da cartolina ma a tratti è selvaggia e ruspante e rustica e ruvida.

Un inciso doveroso sulla compagnia Teatro delle Ariette: pare scandaloso che nei loro 25 anni di storia (hanno preso il podere nell'89, si sono formati come gruppo teatrale nel '96) non abbiano mai ricevuto o conseguito un premio, né l'Ubu, nemmeno quello “Speciale” (negli ultimi anni lo vincono in cinque ogni edizione), né l'ANCT, né Hystrio, né Rete Critica, né Le Maschere né l'Enriquez, un vero sacrilegio da colmare. Ritornano gli animali negli spettacoli delle Ariette da quel “Bestie” del 2006 visto a Volterra. Attorniati da un tramonto arcaico di nuvole rosa, l'odore forte d'erba medica, un barbagianni impagliato così come una volpe e uno struzzo recuperati in una scuola molti anni fa a fare da contorno.

La riflessione (in scena Paola Berselli) che nasce dalle parole della Zambon è tosta: in un futuro prossimo distopico, altre infezioni e virus si sono propagati soprattutto dagli animali che da allora sono considerati contagiosi, da denunciarne la presenza, fino all'eliminazione. In una sorta di Chernobyl, prima si è distrutta quasi completamente la fauna per poi riorganizzarla con le regole settarie ed asettiche dell'uomo che eliminando gli animali ha perso la sua componente vitale, il suo guizzo, la sua verve. Gli animali concepiti solo come carne da macello. Le persone che avevano abbandonato le città e che vivevano distanziate e lontane le une dalle altre in campagna. Una vita non vita. I randagi tutti abbattuti, sterminati. Non si potevano prendere aerei, né passare da una regione all'altra, né abbracciarsi, bisognava sempre essere rintracciabili e tracciabili. Insomma, il lockdown che abbiamo vissuto ma ancora più estremo e spalmato nel tempo. Questa pulizia radicale (ricorda la “soluzione finale” dei nazisti nei confronti degli ebrei) fa sì che la vita diventi sinonimo di paura, non più gioiosa, nell'abbattimento di qualsiasi forma vivente per timore che possa infettarci, passarci virus.

Quindi da una parte la quarantena, simbolo dei nostri giorni, dall'altra si apre invece il dibattito sulla presa di coscienza personale, al di là di quella civile e collettiva, su che cosa come individuo sia giusto fare, se rispettare alla lettera qualsiasi regola impostaci dall'alto oppure se pensare con la propria testa.E riapparvero gli animali.jpg La protagonista infatti parlando di sé ci dice che lei era silenziosa, stava nella massa silente, accettava senza prendere parte, senza protestare o alzare la voce, cittadina non attiva che si nascondeva dietro e dentro le regole. E qui viene in mente la poesia di Brecht “Prima vennero a prendere gli zingari...”. In questo mondo del futuro gli uomini erano contro le bestie, gli uomini contro gli uomini che volevano salvare gli animali, e infine le bestie si stavano ribellando contro gli umani. L'odio produce sempre frutti avvelenati. Un regime totalitario che vuole vietare, come pretesto la salute pubblica, assemblee, comitati, convegni, cortei, manifestazioni. Una favola metaforica che ci mette con le spalle al muro chiedendoci: “Tu da che parte stai?” e che cosa fai per affermare la tua idea. Un finale terribile e ancora più nero (da Fratelli Grimm) nel quale si evince che gli animali non sono fuori di noi ma sono una componente essenziale della Terra, insieme al mondo vegetale, e che gli uomini sono solo una parte del tutto e nemmeno la più importante.

Quell'uunnamed (2).jpgomo che si prende la briga di decidere (crede di essere Dio), regolamentare le altre forme viventi ad uso e consumo proprio. Gli animali sono la nostra parte più irrazionale e fresca, quella rimasta del fanciullo, della bellezza, del gioco, della vita per la vita e non del cemento e degli appuntamenti, dell'asfalto e delle macchine, dei telefoni e della tv, tutte cose inventate dall'uomo essenzialmente per ritenersi immortale. “E riapparvero gli animali” (tutti i mercoledì di luglio, replica speciale aggiuntiva giovedì 30) apre la discussione sul nostro futuro, sulla paura che ci divide, sulla militanza, sugli animali che sono la gioia vitale senza tutte le sovrastrutture che ci affaticano quotidianamente. L'animale non perde tutto il tempo che lascia per strada l'uomo moderno a preoccuparsi delle inutilità, delle futilità (è l'uomo che ha inventato non a caso l'orologio, per avere l'illusione di poterlo soggiogare dentro quadranti, lancette e agende e calendari) disperdendo il tempo nelle briciole. L'animale vive, mangia e tenta di scappare dai predatori, sentendo dentro di sé ogni attimo che gli scorre sotto pelle, non dando per scontata la vita perché sa che è dura e feroce. E' per questo che, mediamente, vivono meno degli umani, perché ogni secondo è pieno, non annacquato. Se, e quando, l'uomo si autodistruggerà, gli animali certamente torneranno, faranno tranquillamente a meno di noi.

Tommaso Chimenti 13/07/2020

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