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TORINO – La perfezione non è di questo mondo ma l'appena visto “Le sedie” ci si avvicina, teatralmente parlando, moltissimo per empatia, sensibilità, acume, giustezza, armonia. Sostenuto da due attori miracolosi, Michele Di Mauro e Federica Fracassi, che si sostengono, complici, esaltando il testo senza mai soverchiarlo, al suo servizio senza perdere di vista l'obbiettivo, una regia (di Valerio Binasco) ispirata e visionaria quanto tangibile e immersa nell'attualità, una scena (di Nicolas Bovey) che è un campo di battaglia futuristico, distopico di sassi, pietre, calcinacci e appunto sedie. Ne viene fuori un piccolo grande capolavoro che rimarrà nel tempo e si consegna agli archivi per la concezione, il pensiero, la dedizione, la cura, il respiro che si porta ancora dietro, e dentro, lo scritto di Ionesco (dopo settanta anni dalla stesura) troppo spesso bollato come “teatro dell'assurdo” (e invece così simile ai nostri giorni) epiteto-definizione che ne ha limitato la fruizione o messo tra le parentesi di generi minori, parcheggiato in naftalina. E' un'architettura che sprizza magia, è quello che ti aspetteresti, a qualunque età, se ti parlassero del teatro e tu non ci fossi mai entrato. Ci sono più cose in cielo e in terra, spettatore, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia: appunto il teatro, questo tipo di teatro, talmente immaginifico e grottesco da fare il giro e tornare saldo con i piedi ben piantati a terra, anzi sprofondati nel fango delle nostre miserie 01_DIV9570-1392x928.jpgesistenziali. Ci si commuove nel vedere “Le sedie” perché tocca le coscienze, sfiora lievi prima di infilzare, scuote fino alle viscere con quella grazia e delicatezza, con una leggerezza che sembra un vento sottile d'autunno che ci arriva alle spalle; è il flusso della vita che non riusciamo a cogliere e nemmeno a fermare né a fotografare, possiamo solo farne poesia, inanellando termini che ci sconquassano senza trovare il bandolo della matassa, fragili, zoppicanti, tentennanti esseri bipedi sempre in precario equilibrio ma con la presunzione dell'immortalità, con la fregola ossessiva dell'eternità.

La montagna di sedie che sbuca sulla destra di questo palco inclinato, in discesa quasi intento a rotolare negli abissi oscuri imperscrutabili, sembra una lingua, un vomito, una pira indiana pronta ad essere incendiata di cadaveri, una collina di conifere secche, il cumulo di sabbia dove Winnie di “Giorni Felici” rimane incastrata, ricorda la parte finale della Mole Antonelliana, è simile, con le dovute proporzioni, agli stracci della celebre Venere di Michelangelo Pistoletto. Sul fondale una finestra aperta, divelta, distrutta e delle navi che in lontananza ci evocano i pericolosi affondamenti della città lagunare per eccellenza. Ecco, potrebbe essere un “Morte a Venezia” ma spalmato tra un “Finale di Partita” e un “Ubu roi”, potrebbe essere l'isola di Alcatraz che si abbandona soltanto con i piedi in avanti (Io ne esco), potrebbero essere gli ospiti del Titanic che ballano fino all'ultima nota di un caravanserraglio destinato ad una consapevole implosione.

Tutto è sgangherato, cialtronesco, bistrattato, consumato e quell'intonaco che manca alle pareti sembra essere finito sulle facce imbiancate dei nostri, Semiramide e il Maggiore d'Alloggio. Siamo nella controra dell'Umanità, della nostra specie, del Pianeta Terra: Di Mauro parte, nei movimenti rallentati e precisi caracollanti, con una calata vocale che ricorda Peppino Prisco fino ad arrivare, in una serie di sfumature colorate prismatiche, fino a Vasco. Incespicano gobbi, tossiscono le ultime risorse in questo palazzo sventrato dai bombardamenti (siamo nei giorni dell'ennesimo scontro tra Israele e la Palestina), gabbiani cechoviani volteggiano ma il loro gracchiare sa più di uccelli saprofagi, condor in attesa di carogne, avvoltoi che hanno individuato le carcasse. Potrebbero essere due personaggi in cerca d'autore che, impolverati dall'essere stati tenuti troppo a lungo dentro ad un 14_DIV9595-1392x2088.jpgbaule di marionette, emergono ogni sera per l'ultima, replicabile, scena, mummie che rimettono in atto l'epifania della loro eclissi. La nebbia, più una foschia indefinita, che emerge sul fondo tinta da raggi solari mal(and)ati e tossici, malsani, malvagi e cancerogeni, ricorda un Purgatorio, un limbo dove i nostri due teneri fossili ondeggiano inceppandosi come dischi rotti, annoiati, incerti tra un passo e il successivo. Si portano addosso una nostalgia sbiadita e triste mista ad una malinconia seppiata e depressa che somiglia ad un rancido hangover, e in questo buco nero tutto viene triturato senza tempo, in questa clessidra senza più sabbia per seppellirli aspettando, sornioni, tanti Godot che, se arriveranno, saranno comunque invisibili. In questa mancanza di parole, di passato dimenticato, di futuro offuscato, di tempo sospeso, si intravede l'alzheimer che desertifica il panorama interiore. Sono gli ultimi uomini e si muovono in questo paesaggio lunare, pagliacci di un circo fallito e sfitto e avvizzito immersi nel vuoto desolato, inabissati, sciupati, disfatti, sgretolati, mangiucchiati, scartavetrati, grattugiati, sviliti, sporcati. In certi passaggi ci ha ricordato il nulla devastante e debordante della recente pellicola “Nomadland”, quel senso di solitudine che esalta per ampiezza 15_RR63478-Modifica-1392x2088.jpge ferisce perché ci schiaccia.

In un incastro davvero felice, Di Mauro, a tratti carmelobenesco, è Robert Smith, frontman dei Cure, è Sean Penn in “This must be the place”, la Fracassi è un mix tra Courtney Love e Cyndi Lauper, insieme potrebbero essere Nick Cave and Siouxsie Sioux. Sono negativi di fotografie sovraesposte e bruciate, "Questi fantasmi" perduti tra dolori e rimpianti che vagano e si aggirano nelle loro vecchie stanze senza pace e senza possibilità di riposo imbevute nella loro Chernobyl, nella loro personale Hiroshima, nelle polveri sottili dell'Ilva di Taranto, della Ferriera di Servola di Trieste, delle acciaierie Lucchini di Piombino, della Thyssen Krupp di Terni. Sono gli ultimi orsi polari che vanno alla deriva su un pack che si sta squagliando in mezzo all'Antartide. In definitiva che cosa sono le sedie se non un simbolo di civiltà, di calma, di ascolto, di riunirsi, di parlarsi, di confronto, di imparare? Ma se le sedie sono accatastate allora “dopo tutto il tempo che abbiamo passato a concentrarci sul progresso dell'umanità, è il momento di ritirarci”. Un gigantesco sì perché “Le sedie” di Binasco ci rendono piccoli davanti all'inspiegabile, come granelli di pulviscolo nel cosmo. Si piange proprio per l'autocommiserazione senza possibilità di salvezza.

Tommaso Chimenti 13/05/2021

TORINO - Curioso che nella stessa città, Torino, ci siano contemporaneamente due spettacoli che hanno per oggetto cardine e feticcio delle sedie, il primo addirittura nel titolo e il secondo questo “Sorelle” (prod. TPE, Triennale Milano). Sedie che, in questo caso, non aiutano a placare, a calmare, non servono per sedersi ma creano un labirinto colorato e inestricabile dove sentirsi ingabbiati, intrappolati. Pascal Rambert ha costruito uno spazio vuoto lucente e bianco, ampio, dilatato (sarà dilaniato), un’arena dove far scontrare due sorelle che mettono sul piatto antiche nostalgie, vecchie ruggini e tutto un passato fatto di accuse, risentimenti, rivisitazioni di eventi familiari, divise in fazioni, lontane anni luce, recriminazioni patite. Partono subito in quarta, le strepitose Anna Della Rosa e Sara Bertelà, fenomenali nel dare corpo e pasta, dolore e sofferenza alle parole di Rambert, e non tolgono mai il piede dall’acceleratore. I decibel sono alti e non seguono un’armonia di rincorsa, scoppio, ricarica, addolcimento, nuovo attacco. Due donne fragili che si imputano qualsiasi nefandezza, sensi di colpa a cascata nell’impossibilità di una diversità così acre, inaccettabilità amara e acida del non poter stare né insieme né vicine.Pwl8apBA.jpeg

Rimangono in diagonale senza mai toccarsi, fanno un passo verso l’altra ma subito recedono, retrocedono, come bamboline di un carillon legate a dei fili impercettibili, a degli elastici che respingono ogni loro slancio verso l’altra. L’una è per l’altra alibi e insoddisfazione e il vedersi una davanti all’altra, come in uno specchio, altera e deforma la visuale, i lineamenti, aumenta le distanze e i dissapori come guardandosi dentro le superfici deformanti dei Luna Park. Senza allegria, senza gioia, l’una è l’abisso dell’altra, il buco nero dove si perdono l’infanzia e i giochi, il magma fangoso dove si sono impantanate tanto tempo fa pur proseguendo l’esistenza apparentemente piena e soddisfacente, una è giornalista l’altra è terzomondista, tra apparenti successi e flebili appagamenti. Dentro sono rimaste le bambine irrisolte che erano, consumate dall’astio, erose dalla violenza inespressa e taciuta e frustrata e rappresa, distrutte da quella voglia di emergere, nella ricerca della perfezione come forma d’accettazione. Senza leggerezza, senza autoironia tutto diventa tremendamente pesante.

Come questo dialogo a due voci, o meglio come questi due monologhi che si vomitano addosso senza limiti, senza riserve, senza freni. Come la diga del Vajont che ha rotto gli argini e tutto ormai è irrecuperabile, come l’alluvione di Firenze che tutto trancia e porta con sé a valle, risucchiando, smembrando, riducendo in poltiglia i pochi grammi rimasti di sentimento. Si vogliono ferire con le parole, e ci riescono, provano disgusto per la sorella e non si contengono, ormai si scambiano tutti colpi sotto la cintura in questa anatomia di una famiglia ridotta all’osso. cXqdowOA.jpegNell’incapacità di abbracciarsi riescono soltanto ad azzannarsi, a sputarsi rancore e morte. Ma l’una è inevitabilmente anche parte della vita dell’altra, come tumore che cresce al proprio interno inestirpabile. Si infliggono sofferenza che è l’unico modo che hanno imparato cronicizzato di stare assieme. Sono ognuna una faccia della stessa medaglia arida accusandosi vicendevolmente delle stesse invidie, delle stesse gelosie. Scarpe e pantaloni neri, maglia bianca entrambe. Sono in chiaroscuro, sono in bianco e nero in un mondo a colori, tutte queste sedie (quaranta come gli scacchi in questo scontro che finirà in uno stallo da “Finale di Partita”) cromatiche e variopinte. Un Far West senza vincitori che lascerà due corpi a terra, svuotati, prosciugati senza più linfa. Un processo però necessario, di ripulitura, per poter, forse un giorno, andare avanti, ricominciare. Senza empatia né vicinanza, senza solidarietà né condivisione. Sull’orlo di una crisi di nervi rimescolano le carte delle loro esistenze lontano una dall’altra minacciandosi, aggredendosi, offendendosi, ansiose, iraconde, agitandosi, detestandosi.

Faticoso però reggere 1h 40’ di fossa dei leoni dove ci si grida, ci si morde senza tregua, guerriglia senza esclusione di colpi. Come un terremoto che non conosce attimo di respiro, la platea viene inondata da questo sfogo con il lanciafiamme volto ad annientarsi, a distruggersi. Un testo che fibrilla, che scardina, alto e intenso, pungente e sempre velenoso, appuntito come una grattugia che però si impantana nella lunghezza e nella scelta appiattente sonora e vocale delle due protagoniste (la loro prova rimane comunque superba, in apnea), -6qzRDDw.jpegsenza scarto, senza sottolineature proprio perché tutto è gridato con forza in uno stato quasi di insonorizzazione che, paradossalmente, non permette di cogliere sfumature e rilievi, contrasti e passaggi. Monocorde e urlato, dall’inizio alla fine, tra sciabolate da combattimento, all’ombra di questo padre e questa madre ingombranti anche se non invadenti, un odio declinato in tutte le forme possibili che, raggiunto il punto di rottura, il punto di non ritorno di una qualsiasi discussione, con freddezza diventa assuefazione e non crea più scompiglio in chi ascolta. Come iniziano a sbranarsi così terminano in una fine irrisolta che chiude ma non conclude questa lotta serrata, senza vincitori né vinti, senza perdoni, senza abbracci, senza futuro, senza speranza. Colpevoli entrambe ed entrambe portatrici di energie negative, manipolatrici si rincorrono e criticano per abbattersi e non per costruire un terreno comune di dialogo. Si vogliono lordare e sporcare in questa grande competizione cinica, contestandosi l’essenza stessa di essere appunto “Sorelle”: l’aver diviso lo stesso tetto, gli stessi genitori. Dilaniate da vertigini, sventrate in quest’odio condensato che non può chiamarsi famiglia. Senz'Amore.

Tommaso Chimenti

PERUGIA – “Lascia ch'io pianga mia cruda sorte e che sospiri la libertà. Il duolo infranga queste ritorte de’ miei martiri sol per pietà”.

Fine ultimo degli Stabili è anche quello, oltre a valorizzare il territorio in termini di maestranze e distribuzione in provincia, di poter mettere in scena spettacoli altrimenti impossibili. Parliamo di questioni prettamente economiche, numeriche dal punto di vista attoriale, di budget, risorse umane e finanziarie altrimenti non sostenibili. Li chiameremo “kolossal”, appellativo che si può applicare perfettamente a questo “Guerra e Pace” che riapre le porte del Teatro umbro e del Morlacchi nel contingente. Due spettacoli, dice autonomi secondo noi inscindibili, da quasi due ore l'uno, una quindicina d'attori, scelti con lume e luce, tra i quali spiccano un volto televisivo amato e conosciuto (Stefano Fresi convincente anche se ha più chiari che scuri al proprio arco) e altri nomi teatralmente spendibili (Lucia Lavia agguerrita), un regista d'esperienza acclarata (Andrea Baracco, spesso a dirigere a queste latitudini), una drammaturga tra le più preziose e prolifiche che abbiamo (Letizia Russo). Come dire, ci sono tutte le condizioni favorevoli per un risultato positivo. E infatti “Guerra e Pace” (ma era così necessario ridurre i tomi di Tolstoj e farne una cospicua versione teatrale? Forse un azzardo o un rischio calcolato?) non soffre di alcuna caduta, non incespica, non scivola ma, forse, non vola neanche. Ci spieghiamo meglio. Le componenti per un lavoro all'altezza ci sono e pare che tutti i tasselli siano messi al punto giusto per un mosaico da grande opera. Però, c'è sempre un però. Non si ulula uscendo (mica è obbligatorio farlo) e del trittico Baracco – Russo – Teatro Stabile dell'Umbria ci siamo piacevolmente ricordati nel tempo del “Maestro e Margherita” e non so se avverrà il medesimo meccanismo anche stavolta.GUERRA_E_PACE-1_40.jpg

L'impegno è comunque fruttuoso e il solo riuscire a far coincidere e collimare tutte queste energie produttive e artistiche è già un fatto da sottolineare. Rendere però Tolstoj “teatrale” pone l'interrogativo e la possibilità di sfociare a tratti in dostoevskiane atmosfere da un lato o lentamente di tentare di incanalarsi in memorie cechoviane. Comprimere 1500 pagine in qualche ora è esercizio complicato di cesoie e scelte ideologiche. Il pubblico se ne sta sui palchetti, mascherati e distanti ma finalmente coinvolti e partecipi attivi di questo rito millenario dove nella luce qualcuno parla e tanti altri ascoltano in silenzio. Se la prima parte è orizzontale e si allarga dipanandosi, la seconda è verticale, non verso il cielo ma in discesa giù a lisciare il baratro. Il palco vero e proprio, ovvero dove si svolgono le vicende, è diviso in due settori: il palcoscenico del teatro all'italiana perugino (piece difficilmente “trasportabile” in altro contesto) e la platea sgombra e priva di poltroncine accatastate a creare un fondale che farà mostra di sé un paio di volte come a gridare che il Re è nudo, che il Teatro è nudo, che siamo deboli e gracili e piccoli nei confronti dell'inspiegabile (la Pandemia?). La dinamica è un'armonia che, sempre con eguali passaggi, di pieni e di vuoti, di situazioni corali e di monologhi (ogni attore ha il suo spazio e ognuno dà il meglio di sé quando è chiamato in solitaria), di palcoscenico e poi di spostamento in platea in un continuo andirivieni come onda che insiste sulla sabbia, come schiuma che lecca la rena in un movimento gentile che assorbe lo sguardo, per contemplare meglio, consolandolo con qualche quadro “toccante” ispirato.

La cupezza delle fazioni che si scontrano dialetticamente, pro e contro Napoleone o pro e contro l'interventismo guerrigliero, fa pendere l'ago della bilancia non tanto sulla Guerra fuori da queste figure annoiate e disilluse che aspettano un segno esterno per fare la propria rivoluzione esistenziale, ma quanto sul conflitto interiore che ognuno intraprende contro se stesso con astio e senza amorevolezza.

“Guerra e Pace” è un evento (un mese di programmazione) e come tale va festeggiato e innalzato, sbandierato e portato in alto: Stefano Fresi (che sia in tv o al cinema o in teatro gli fanno sempre suonare il piano sapendolo maneggiare con maestria) ha le spalle larghe e regge bene l'impianto anche se, come impostazione e tonalità vocale, è più predisposto verso le sfumature leggere e tenui, nelle corde gli manca un po' di dark e di colori drammatici, Dario Cantarelli ha una voce inconfondibile che lo eleva, Emilia Scarpati Fanetti ha eleganza innata signorile e di sostanza eterea, Woody Neri è grintoso e non cede un millimetro, Alessandro Pezzali, pur eccedendo troppo nella sua risata luciferina, è sempre presente e tosto, sponda perfetta. Ci ha colpito, per freschezza e senso dello spazio scenico, GUERRA_E_PACE-1_50.jpgEmiliano Masala, che ha versato cuore e testa, mentre il giudizio diventa oscillatorio e bifronte su Lucia Lavia nella prima parte, anche se il suo personaggio ha sedici anni, a corse, salti sul tavolo e tutto un armamentario infantil-vezzeggiativo che non la aiuta, mentre sul finale sciorina un consistente monologo drammatico (somiglia molto alla madre come gestualità e pathos) che la riabilita. La scena, prima di essere abitata, viene addobbata dagli stessi attori con l'oggettistica necessaria, per poi nuovamente esserne privata in questo andamento di riempimento e svuotamento che, trovando un parallelismo con la scrittura, certifica i grandi discorsi attorno all'esistenza e la frivolezza nello scorrere del tempo lasciandosi vivere passivamente nel vuoto senza prendere decisioni, senza muovere le fila.

In questa infelicità diffusa, la Guerra sembra essere l'unico calmante, solo balsamo ad ogni sorta di ferita, mentre la Pace, che tutti agognano ma che nessuno vuole in verità (perché la Pace porta responsabilità individuali nel mantenerla), è soltanto una tregua nel Risiko che altri stanno giocando. La morte è sempre evocata, aleggia, personaggio solido, eloquente più di mille parole. Perché la Guerra è un modo per sentirsi vivi, di tirare a campare. Si sente un retrogusto ferroso di annientamento, un sapore rancido di dissoluzione, febbrile di macerie per ripulire, ricostruire, ricominciare. Che, in definitiva, è l'alibi di chi non sa vivere nel proprio tempo, in quell'hic et nunc che ha a disposizione: azzerare l'oggi concreto a favore di un domani illusoriamente migliore proprio perché ancora non esiste. Non c'è niente da salvare tra tutto questo dolore imbevuto come bustina di tè dentro una tazza bollente di frustrazione. Da ricordare la pubblicazione del libro a fascicoli del disegnatore belga Francois OlislaegerDiario di uno spettatore clandestino” che ha prodotto tavole e schizzi sulla costruzione della piece, bozzetti realizzati durante le prove, prodotto vibrante assolutamente raro. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. “Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol, che t'avvelena il cor!

Tommaso Chimenti 06/05/2021

Domenica, 02 Maggio 2021 16:55

"Grounded": nel blu dipinto di grigio

GENOVA – 2021 anno molto importante per il Teatro Nazionale, a 70 anni dalla sua fondazione, e per Genova, a 20 da quel famigerato e mai scordato G8. Potremmo dire: “2021 Odissea nello Spazio”, visione che ci suggerisce l'imponente, mastodontica ed elettrizzante struttura che sorregge “Grounded”, spingendo in orbita le profonde analisi che il testo di George Brant instilla, nella regia illuminata e concreta di Davide Livermore e sostenuta dalla celestiale interpretazione, pungente e coriacea, di Linda Gennari. E' uno spettacolo dal respiro internazionale, dal gusto e sapore che travalica i nostri magri confini; la senti, la percepisci la grancassa che si gonfia, l'importanza nella sua semplicità: una grande attrice, piccola nei confronti della macchineria che la sovrasta e schiaccia, che invece riesce a domarla, a tenerla a bada, a prenderne le redini, a danzarci sopra come l'Avatar sul suo drago, come Amazzone al galoppo, come Aladino sul suo tappeto volante. E' questo incrocio e ossimoro di dimensioni che crea squilibrio e frizione, energia, elettricità; sembra che da un momento all'altro le due piattaforme, il pavimento e un cielo posticcio da Presepe, contornate da neon che la rDavide Livermore Ph. Eugenio Pini.jpgendono vicina ad astronavi uscite da “Incontri ravvicinati del Terzo tipo” o “X Files”, possano comprimere e strizzare questa figura sottile e verticale, una Linda Gennari in stato di grazia e in formissima, in un monologo (1h45' senza togliere il piede dall'acceleratore) intenso, vibrante, tambureggiante come una poesia futurista, una Giovanna d'Arco furente e pasionaria che sprigiona una forza, una concentrazione, e dona un magma di sensazioni e un ventaglio di sentimenti con cambi di registro repentini, dalla dolcezza di mamma all'essere un carrarmato, uno schiacciasassi, una macchina da guerra.

Freddo e caldo insieme, schiaffo e carezza spostano il pubblico, lo fanno oscillare, tenuto sul filo come burattino, sospeso come lo è la protagonista su questo trapezio sorretto da cavi, ondeggiante come transatlantico tra le onde, ora in salita, adesso in discesa come un Tagadà al Luna Park di vetri e plexiglas trasparenti, di tubi e acciaio da Titanic, come un'anatomia di un'ascensore (per l'Inferno). Infatti questa continua salita e discesa, desiderando, raccontando, agognando il blu da parte di questa Top Gun al femminile sprezzante del pericolo, anzi gaudente dell'adrenalina che il volo su obiettivi da bombardare possa regalarle, è, paradossalmente, l'infilarsi nel buco nero dell'esistenza, alla ricerca del senso perduto, quel blu che era vita e sogno diventa incubo e labirinto dentro le pieghe del mondo terreno che le cambia attorno e la trasforma nonostante tutte le sue resistenze. Una pilota, abituata ed addestrata a rischiare la vita per dare la morte ai nemici, si trova “costretta” dalle circostanze della vita ad essere “Grounded”, la peggior offesa e incubo per uno che solca le nuvole: atterrato, appiedato, fermo, statico, con i piedi per terra, parcheggiato. Non più il blu ma il grigio terra dove tutto è piatto e sano e sicuro. Ed è proprio quella salvezza, quella stabilità, che la svuota, la spolpa, la prosciuga. Da bombardatrice dei cieli, sposandosi e diventando mamma, il suo ruolo cambia; adesso starà a terra, guidando un drone da milioni di dollari, e ucciderà i “cattivi” a distanza di migliaia di chilometri, in tutta sicurezza, come se fosse davanti ad un videogioco, senza enfasi, nessun pathos, zero guerriglia. Un lavoro sedentario, da ragioniere, poltrona e joystick.

Linda GennariGrounded_3 ph Federico Pitto.jpg è slanciata, elegante, una fiamma (nell'accezione dantesca di anima) che sale nel blu marino, è decisa e dolce, combattuta tra una fragilità che la sbriciola e l'essere Joe Temerario, “faccio mille acrobazie col mio aeroplano e diecimila volte ho già toccato il cielo, perché come un falco io arrivo a tremila metri e poi mi butto giù in picchiata, ma che emozione ogni volta sfidare la vita rotolando nel cielo sopra il mio aeroplano”. La sensazione della velocità è irrefrenabile a confronto con la scrivania, a combattere nella sua lotta interiore dove è proprio lei a rimanere dilaniata come morsa da cani inferociti, da Cerberi famelici che le strappano le carni in questo dilemma intestino che le ha dato quella serenità che la sta facendo sfiorire, sformare, sfilacciare. Chiusa e stretta tra la voglia di andare e quella di restare. E' proprio questo scollamento tra l'andare a bombardare in poltrona tornando sana e salva ogni sera a casa, come se Ulisse avesse timbrato il cartellino e ogni notte avesse dormito accanto a Penelope, che la turba profondamente non riuscendo ad essere contemporaneamente una borghese che fa la spesa e gioca con la figlia e dopo poche ore distrugge minareti e lancia razzi in mezzo al deserto annientando corpi dei quali vede soltanto il calore attraverso i suoi strumenti di precisione che tutto sentono e analizzano.Grounded_2 ph Federico Pitto.jpg

La Gennari è dolente e rabbiosa, dividendosi tra i chiaroscuri e il senso di colpa, è affascinante e accattivante come un serpente, come una mantide religiosa, come uno scorpione che ti attira a sé, compressa tra deliri di onnipotenza e friabilità e incertezza estreme. Ma "Grounded" è anche una critica al lavoro esternalizzato degli ultimi decenni, al lavoro tolto all'uomo e dato alle macchine che avrebbero dovuto aiutare l'uomo e non sostituirlo. Se volessimo forzare la mano alla drammaturgia potremmo anche avventurarci in un parallelo tra il teatro in presenza e il volo e tra lo streaming e il drone.

Tommaso Chimenti 02/05/2021

Ph: Federico Pitto

CHIANCIANO – “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale” (Bertolt Brecht).

La compagnia LST in questi venti anni ha spacciato la sua droga culturale, ha immesso il suo sguardo stupefacente su Toscana e dintorni. Il suo regista, e anima, Manfredi Rutelli, ha collaborato in questi anni con le sue regie al Festival Orizzonti di Chiusi, alla creazione del festival FermentinFesta dedicato alla formazione attoriale e alla direzione del Teatro degli Astrusi entrambi a Montalcino, alle ultime rappresentazioni del Teatro Povero a Monticchiello, e nella direzione del Teatro Caos di Chianciano. E quest'estate si è allargherà fino a San Miniato dove, con Simone Cristicchi in scena, daranno vita al “Paradiso” al Dramma eRnzg3CQ.jpegPopolare. LST dicevamo, Laboratorio Stabile Teatro, è una compagnia teatrale, di quelle che, con sforzo e caparbietà, battono la provincia, i piccoli teatri, quell'off che è linfa. E' la provincia che fa l'Italia, è la provincia che ha più bisogno di idee, di freschezza, di ventate di nuovo, sono i teatrini sperduti che formano questo tessuto, questa ragnatela di rapporti, i cosiddetti “presidi culturali” portati avanti con testardaggine e cocciutaggine da questi gruppi che sfornano attori convincenti, testi contemporanei e portano un po' di luce dove altrimenti arriverebbero soltanto le urla della televisione.

Sempre a cura dell'LST, nei mesi scorsi avevamo assistito a “La Stazione” di Umberto Marino, stavolta hanno messo in scena “Il dio del massacro” di Yasmina Reza, testo portato in tournée nei grandi teatri qualche stagione fa, nella versione con quattro nostrani assi attoriali: Alessio Boni, Anna Bonaiuto, Michela Cescon, Silvio Orlando. Roman Polanski ne aveva tratto il suo affresco cinematografico, spostando la vicenda dalla Francia agli USA, dal titolo “Carnage” con calibri come Jodie Foster e Kate Winslet. Insomma, ce n'erano di punti di riferimento da eludere, di trappole da evitare, di copie da cercare di scongiurare.

Il parco attori a disposizione di Rutelli ha feeling, tempi, buon ritmo e soprattutto amalgama e complicità che, in testi come questo, sono essenziali e in ogni dinamica e scontro si percepisce la velocità d'esecuzione, la cadenza, la cura, le giuste sospensioni, le attese, gli slanci, soprattutto jJJr2uTA.jpegle battute con intenzione; è tutta questa polvere di stelle, tutto questo ammasso invisibile di cose che stazionano shakespearianamente tra cielo e terra che sul palco si animano e danno impulso alla vita in scena che si alimenta dei suoi protagonisti che, come detto, non deludono anzi sono frizzanti, in parte, mai sopra le righe, mai esondanti, sempre nel rispetto del testo e mai cercando di prevaricare il compagno per il fine ultimo dell'ego personale.

Nella conversazione ci si astenga da osservazioni intese a correggere: poiché offendere la gente è facile, migliorarla difficile, se non impossibile” (Arthur Schopenhauer). “Il dio del massacro” (visto in una prova per pochi intimi al Caos) in questione è tutto un gioco sottile di incastri, di cambi repentini d'umore, di scivolamenti, e scivolate a piedi uniti, in bassezze come di grandi discorsi filosofici ad avallare ora l'una ora l'altra tesi; quindi i tempi sono tutto, diventano vitali ed energetici, danno corpo e sostanza alla parola. Teatro appunto di parola questo che vede due coppie di genitori affrontarsi, in un interno borghese, dapprima civilmente, dopo che il figlio di una coppia, identifichiamola come “manageriale”, ha picchiato il figlio della coppia chiamiamola “di sinistra”. Escono fuori rapidamente, dopo situazioni di stallo e finta educazione posticcia messa sul piatto della civile convivenza e parvenza, tutte le differenze di visione del mondo, di status, difendendo ognuno il proprio figlio e quindi, di riflesso, se stessi e le proprie scelte e convinzioni. I figli sono un pretesto, un paravento dietro ai quali nascondersi, quando fa comodo, o esaltarli quando conviene al cognome e al casato.

Tanti cubi smontabili, componibili, spostabili e sovrapponibili (le nostre aree di comfort zone a compartimenti stagni che, per opportunità, possono essere divisi, segmentati o uniti a seconda delle situazioni nelle quali ci troviamo a doverci destreggiare) al cui interno oggetti entrano ed escono, vengono parcheggiati o immessi nella scena come conigli usciti dal cilindro. Cubi bianchi mentre tutti gli altri oggetti che ruotano attorno a questa commedia dark-noir (che parla a tutti noi perché demolisce la nostra società e il politicamente corretto che tanto va di moda rendendoci piatti e scialbi) sono rossi, di un rosso acceso, rosso peccato, rosso sangue, rosso scontro, rosso violento: il telefono, il catino, i tovaglioli, il phon, i fiori, i libri, i piatti, i bicchieri, le ciotole, il cardigan, il lampadario, le unghie, il liquore che stanno bevendo. E' un contrasto cromatico che ci accompagna dall'inizio alla fine mentre sale la tensione, mentre i decibel schizzano, mentre l'atmosfera si surriscalda e diviene bollente e urticante.

Enrica Zampetti (energica, soprattutto nel finale) e Alessandro Waldergan sono la coppia più agiata, soprattutto il secondo (fisicamente, e per timidezza e garbo e gentilezza e postura, ci ha ricordato lo scrittore Fabio Genovesi), che abbiamo apprezzato in svariate versioni, è sempre lucido, pungente, centrato nei cambi di registro, ha tatto e precisione nelle battute come è ficcante nelle punzecchiNgY4pkTA.jpegature mantenendo concentrazione senza perdere mai di vista il fine ultimo del teatro: il racconto, il passaggio, la storia, il personaggio come ingranaggio. Mihaela Stoica (molto attiva e presente, dà il cambio di passo ai vari momenti, è il la, la spinta, l'incipit della valanga) e Gianni Poliziani (tiene il polso della situazione, è il metronomo, dirige dall'interno le operazioni) sono invece la coppia più riflessiva che però mostrerà, messi in discussione e sotto pressione, il loro lato oscuro e isterico. Un gong, come sul ring, chiude le scene e apre immediatamente al cambio di climax: le coppie si confrontano e adesso sono schierate l'una contro l'altra ma i ruoli si invertono e gli aggressori diventano aggrediti, i boia declinano nelle vittime, i carnefici ribaltati nei sacrificati, oppure la solidarietà maschile cementa gli uomini come quella femminile unisce le due signore contro le idee dei due coniugi, le alleanze si consolidano così come le coalizioni si sfasciano. I piani si ribaltano velocemente e le fazioni si creano come precipitosamente si sfaldano, basta una parola o un silenzio per far scattare qualcuno o allontanare un, fino a quel momento, sodale. Le frivolezze e le buone maniere lasciano il posto alle accuse e un salotto compunto diviene terreno di scontro e battaglia, agorà dove far rispettare le proprie usanze, dove gli altri non sono solo avversari ma anche nemici, dove mors tua vita mea diventa motto da urlare sul campo di Marte.

Anche chi è largo di vedute e progressista presto scende dal piedistallo delle sovrastrutture dell'educazione e delle buone maniere per atterrare volentieri sul terreno scivoloso della violenza, della minaccia, della forza. Si vogliono dare lezioni a vicenda, i toni si alzano e l'inciviltà prende il posto della compostezza. Gli uni sottolineano agli altri le mancanze dei loro figli e quindi della loro famiglia che viene continuamente messa in discussione. r3cFdy2w.jpegI “pacifici”, sulla carta, diventano così provocatori, gli “aggressivi” rintuzzano e colpiscono in contropiede, si puniscono miscelando finta moderazione e calma apparente con crisi nervose e attacchi impulsivi all'arma bianca, insinuazioni e scuse, prediche e offese, colpe e sfide in un'altalena di sensazioni e sentimenti che chiedono alla platea, continuamente, di posizionarsi e schierarsi adesso con l'una ora con l'altra coppia. Un testo che ti tira per la giacca, ti smuove e ti scuote perché parla del nostro Occidente imploso, del nostro voler regolamentare anche la violenza dentro “canoni accettabili”, di voler legiferare ogni aspetto della vita rendendola noiosa, paludata, fangosa e soprattutto falsa e pesante. Diventano cinici, cattivi, corrosivi: in definitiva sono/siamo criceti dentro la nostra ruota a correre a perdifiato per non pensare, intenti a non renderci conto, dolo(ro)samente, la reale forma della nostra condizione, animali all'ingrasso che devono bruciare energie e aggressività altrimenti si estinguerebbero.

Il fatto che l’uomo sappia distinguere il giusto dallo sbagliato prova la sua superiorità intellettuale sulle altre creature; ma il fatto che egli possa agire in modo sbagliato prova la sua inferiorità morale rispetto a qualsiasi creatura che non può farlo” (Mark Twain).

Tommaso Chimenti 17/04/2021 

GENOVA – Avete mai provato ad iscrivervi a quei siti che propongono di trovarvi velocemente un lavoro? Ecco, non sono altro che contenitori per raggranellare indirizzi mail di persone che effettivamente stanno, disperatamente, cercando un'occupazione e che verranno, da allora in poi, subissate di mail di corsi di formazione (a pagamento, ovviamente), di master, di diplomi online utilissimi per riuscire finalmente a trovare l'impiego giusto per te. La sensazione è quella del parcheggio, del limbo, della sala d'attesa mentre l'obbiettivo si sposta sempre più fino a smaterializzarsi, a diventare nebuloso e, dopo alcuni anni, chiedersi che cosa stavo cercando e, non trovando risposta, smettere di cercarlo. In Italia il tasso di disoccupazione è quasi al 10%, mentre quello giovanile (15-24 anni) sfiora il 30%. E questi dati nel Sud Italia aumentano vertiginosamente. Un Paese basato sui bar e sulle pizzerie altro che cultura, sul lavoro nero altro che la dieta mediterranea e il Patrimonio Unesco.Il mercato della carne 12_ph Federico Pitto.jpg

Diminuiscono sempre più le persone che cercano un lavoro, rassegnandosi, e andando ad ingolfare la categoria degli “inattivi” ovvero chi non studia, non lavora e nemmeno cerca più un lavoro. Mettiamoci la crisi degli anni 2000, il Job Act, il Covid e il fatto che le aziende vogliono soltanto stagisti inesperti da formare, con sgravi fiscali annessi, e che una volta formati vengono “liberati” sul mercato e rimpiazzati con nuovi ragazzi a stipendio da apprendista. Siamo in troppi e troppo scolarizzati. Anche l'università è diventata un grande parcheggio dove sostare dopo le superiori per altri cinque anni minimo in attesa che qualcosa si sblocchi e alla fine di quel corso-periodo di studio ti accorgi che da una parte sei più consapevole e quindi, dall'altra, ancora più infelice. Anche perché ti stai affacciando sul mercato del lavoro ad un'età compresa tra i 25 e i 30: il mutuo non te lo darà nessuno, la pensione scordatela, vivi ancora con i tuoi perché un affitto è difficile da pagare soprattutto in una grande città. E intanto su Instagram vedi soltanto fotografie di aerei privati, piscine e luoghi da sogno che non potrai mai raggiungere. E' il post capitalismo, bellezza.

E' di Il mercato della carne 21_ph Federico Pitto.jpgquesta grande bolla-farsa generazionale che parla l'autore Bruno Fornasari (codirettore insieme a Tommaso Amadio del Teatro dei Filodrammatici milanese) nel suo testo “Il mercato della carne” dove i ragazzi, le persone non sono nemmeno numeri ma oggetti da spostare, sostituire, neanche vendere ma illudere giorno dopo giorno di un nuovo step da inseguire, di un nuovo piccolo traguardo da conseguire per essere più appetibili nei confronti del famigerato mondo del lavoro che chiede esperienza senza averti mai messo nelle condizioni di poterla fare, che chiede che tu sappia le lingue straniere, meglio se cinese o russo o arabo, che ti chiede di essere sempre al top quando mancano le basi, l'abc della sopravvivenza. Non si parla di felicità ma proprio di sussistenza. E questa drammaturgia, messa in scena qualche anno fa all'interno del laboratorio di recitazione Oltrarno del Teatro della Pergola, scuola di formazione del mestiere dell'attore diretta da Pierfrancesco Favino, dove Fornasari era docente, e stavolta portata sul palcoscenico dal Teatro Nazionale di Genova con gli allievi appena diplomati, crea un immaginario purgatoriale dove l'attesa snervante sposta di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese non tanto l'impiego agognato ma quanto la possibilità, preceduta da test complicatissimi, di poter accedere quanto meno ad un misero e basilare colloquio. Quindi si lotta e si fatica, ci si scervella e ci si contorce non per il successo, non per il goal ma per avere soltanto la possibilità di poter essere ascoltati e messi alla prova.Il mercato della carne 49_ph Federico Pitto.jpg

Questo “Mercato della carne”, nel contingente reale, racconta anche di molto altro: i ragazzi in scena si sono diplomati lo scorso febbraio e pensavano di entrare nel mondo del lavoro attoriale dalla porta principale, invece il Covid ha annullato prima le repliche già fissate per maggio '20 e saltate per il primo lockdown al quale è seguita un'apertura dei teatri e dunque procrastinate a novembre ma a quel punto era intervenuta la seconda quarantena a zone colorate e infine nuovamente cancellate. A metà aprile, in una prova aperta a pochissimi operatori, è andato finalmente in scena, quasi un parto, un respiro, un cerchio che si chiude, una boccata d'ossigeno, la degna conclusione di un percorso triennale che senza questo approdo sarebbe rimasto zoppo, infelice, monco. Questo spettacolo è un segno di rinascita, di ritorno, di speranza, di domani. E proprio in questi giorni la scuola del TN di Genova festeggia il ritorno degli allievi in presenza. Stop allo streaming, stop alla dad, l'attore si fa guardandosi, toccandosi, sudore e carne.

La carne di questo distopico (neanche poi tanto) scritto che confeziona una decina di figure lontanissime (che compongono tutto lo spettro dei caratteri) tra di loro in uno spazio claustrofobico carico di tensione, aspettative, illusioni e conseguenti forti e acre disillusioni. Come se facessi una maratona e alla fine ti aggiungessero sempre nuovi chilometri, il miraggio della ricompensa che sfiorisce, tu che sei sempre più stanco, più depresso, meno motivato, svuotato e senza forze mentre il Mercato ti chiede sempre di stare sull'attenti, sempre pronto perché eventualmente, forse, non si sa mai che la ruota giri. E, nella penuria dei posti di lavoro, vincono le raccomandazioni (e anche l'alibi delle raccomandazioni altrui), le conoscenze, le amicizie, le promesse, i cognomi. Che tutti gli altri si scozzino in questa agorà senza dignità, tutti a cercare un posto al Sole quando tutti i lettini da abbronzatura sono stati occupati e per te non c'è più posto se non nella fredda ombra.

La regia di Simone Toni, al quale è stato appena conferito il “Premio Ivo Chiesa” proprio da parte del Teatro Nazionale di Genova (e attore per Ronconi, Castellucci e Lavia) costringe questi ragazzi in una sorta di scantinato dalle pareti a scomparsa, quasi boudoir, o separè da casa giapponese, che chiudono, limitano, soffocano. In alto campeggia la scritta “La città dei mestieri” che sembra uno di quei tanti slogan ministeriali che sono efficaci soltanto a parole ma che nei fatti si sbriciolano davanti alla dura realtà, al muro solido della mancanza di prospettive. Pare di essere dentro Pinocchio con i giovani, che non cercano neanche più il Paese dei Balocchi disfatti da alcool e droghe, che sostano, che aspettano il loro momento, il loro treno che mai passerà. Sembra di vedere quasi le folle oceaniche di migliaia di persone che si accalcano per avere una chance in un Reality pur avendo la netta sensazione di non essere all'altezza, di non sapere quale profilo stanno cercando, di parteciparvi per mancanza di alternative.

La crisi è permanente e qui in scena la puoi palpare con mano, nelle parole, nei discorsi, negli atteggiamenti, nelle posture, tutto non ha più ormai alcun senso, la vita, la morte, il sesso, il domani, la scala valoriale ha smesso di avere una logica. Ma tra il Mercato della Carne, i ragazzi cestinati nello sgabuzzino, e il lavoro ci sono sempre intermediari senza scrupoli che se ne approfittano, che si ingozzano e s'ingrassano sul desiderio di molti di uscire da quella condizione. E il gioco, al massacro, è tutto tra questi dieci nuovi schiavi e il caporale con marcato accento del Sud, tra i dieci laureati e un ignorante, maleducato, rozzo, grezzo che dispone dei loro destini facendosi pagare per dare loro la falsa illusione di un probabile, futuribile colloquio con i cinesi, i nuovi padroni. Incontro che, come accade con i miraggi, mai si potrà toccare con mano ma che sempre si sposterà un po' più in avanti, come oasi nel deserto.

C'è Il mercato della carne 60_ph Federico Pitto.jpgquella che guarda sempre il telefonino, chi dormicchia ubriaco ma quando si sveglia ragiona di genocidi e politiche economiche complesse, chi ascolta conferenze sul clima, chi è timido e introverso come Woody Allen, chi estroso e dinamico come Damiano il cantante dei Maneskin (Michele De Paola tiene botta), chi è depressa e, forse per questo, si è rifatta il seno, l'attore innamorato del “Gabbiano” cechoviano, l'uomo che esce dalla spazzatura saggio angelico con il suo palloncino come uno Smile inebetito e fuori luogo, il kapò appunto e la sua geisha. Sono rabbiosi ma anche senza forze. Potrebbero essere clandestini ad un qualsiasi confine in attesa del lasciapassare che oggi non arriverà e neanche domani e forse, vedremo un giorno, e intanto invecchi, appassisci e forse, in un futuro prossimo ti daranno quel foglio non saprai più che neanche fartene, non avrà più senso, non avrai più energie per andare dove volevi andare quando era importante arrivarci. Anche mantenere la lucidità emotiva e psichica è complicato. L'infelicità si cura con lo xanax, rimane l'assuefazione a quel nulla pallido e smorto. Non si arriva mai, siamo sempre in apnea.

“No future” urlavano i Sex Pistols ma a differenza degli anni '70, quando curavano il male con la protesta e i buchi nelle braccia, adesso con un telefonino, gli aperitivi e una parabola ci hanno silenziato. Per essere scelti i ragazzi devono avere in dote dinamismo, ottimismo e intraprendenza ma il Mondo ha succhiato ai candidati queste qualità perché quel Mondo si nutre di quella determinazione, di quella costanza e di quella voglia di arrivare e la spolpa fino all'ultima goccia prima di passare alla nuova informata di giovani da sgonfiare. I tentativi di suicidio sono all'ordine del giorno. Un testo acido, critico che non ci fa vedere la luce, anche se alla fine vengono aperti i grandi finestroni laterali e le porte a far circolare aria, ossigeno e chiarore, lucentezza, luminosità e splendore. Dopotutto il teatro è il luogo dove l'impossibile diventa possibile, dove il non credibile diventa incredibilmente plausibile. Dopotutto, come diceva il grande Eduardo, “il teatro non è altro che il disperato sforzo dell'uomo di dare un senso alla vita”.

Tommaso Chimenti 17/04/2021

Ph: Federico Pitto

PISA – “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare” (Pastore Martin Niemoller).

La batteria in primo piano, come terzo protagonista a tutti gli effetti accanto alle due sedie da scuola elementare, ci ha fatto sobbalzare alla mente quelle operette rock, quel teatro punk proprio dell'Europa del Nord, quella mixture caratteristica di 2568_big_La nostra maestra è un troll 2.jpgcerte performance che sfociano nel punk dove non riesci più a distinguere monologo e concerto. E infatti Sandro Mabellini, regista che si cimenta sia nel teatro di prosa che in quello per ragazzi (dicotomia tutta italiana, all'estero la linea di demarcazione non è netta), è di stanza da molti anni a Bruxelles e in Belgio, tra Jan Fabre, Jan Lauwers e Milo Rau, i motivi di visione e gli accessi al contemporaneo esondano e pullulano e le possibilità di abbeverarsi e alimentarsi a nuove forme sceniche è pressoché quotidiano. Il mash up di arti che si fondono e si inseguono sul palco è cosa consolidata, non crea scalpore né stupore. Alle nostre latitudini una batteria in scena diventa già “Wow”. Forse, andando indietro con la memoria, sovviene a riguardo quel “Roccu u stortu” per la regia di Fulvio Cauteruccio con la compagine musicale de Il Parto delle Nuvole Pesanti che dal vivo argomentava, grattava, solcava, cospargeva le scene di note piene e mai sazie.

Detto della batteria rossa e delle due sedie (non può non arrivare in superficie la recente polemica sui banchi monoposto con rotelle comprati dalla ditta Arcuri-Azzolina-Conte per 700 milioni di euro e inutilizzati), sul fondale campeggia il titolo dello spettacolo, “La nostra maestra è un troll”, segno che Mabellini aveva già utilizzato con il precedente “Trainspotting”. Il regista, appassionato di letteratura e drammaturgia d'Oltre Manica, ha preso il testo di Dennis Kelly, per intenderci l'autore delle serie tv “Utopia” e “The third day” e del musical “Matilda”, foriero di spunti e riflessioni sul potere, sulla ribellione, sulla nascita dei regimi, sul bullismo, e ne ha tratto una storia frontale piena di simbolismi, leggera per animi 2570_big_La nostra maestra è un troll 14.jpgcandidi fanciulleschi e, al contempo, scavando, instillatrice di interrogativi e aperture. Visto in presenza durante una diretta on line per le scuole al Cinema Teatro Nuovo a Pisa diretto da Carlo Scorrano, la favola noir splatter “La nostra maestra è un troll” (prod. Fontemaggiore Accademia Perduta/Romagna Teatri) vede la presenza di Edoardo Chiabolotti nella sua dolcezza e la svagatezza stralunata, tra Stanlio e Chaplin, di Liliana Benini (attrice anche per il Maestro Marthaler) nei ruoli dei due gemelli Teo e Alice. Ci piace pensare al fratello di Van Gogh e alla bambina nel Paese delle Meraviglie.

In questa scuola viene nominata una nuova professoressa-preside che è appunto un Troll, un mostro bavoso e squamoso che comincia a mangiare bambini staccando loro la testa e smangiucchiandoli amabilmente. Mentre il Troll elenca nella sua lingua norme assurde e infinite burocrazie a danni dei bambini, i professori lì dietro sogghignano e sghignazzano contenti che finalmente sia arrivato qualcuno a ristabilire l'ordine costituito, qualcuno dal pugno duro, l'Uomo forte buono per tutte le stagioni. Vengono instaurate nuove regole d'oppressione, giustificate con il fatto che i bambini sono discoli e monelli, viene regolato il lavoro minorile ed ogni protesta viene chiusa nel sangue e nel conseguente silenzio-assenso. I docenti (dai nomi ridicoli come a volte lo sono gli adulti: il Signor Piatti e Creduloni, Trabiccoli e Spunzoni fino a Banali) annuiscono grati e fieri e sadici fin quando le regole senza senso del Troll non colpiscono anche loro, ma a quel punto è impossibile ribellarsi. Le dittature nascono così, si insinuano piano piano, in molti casi supportate e spinte dalla cosiddetta “brava gente”, dalla borghesia che vuole tornare a leggi chiare e fermezza. Ricorda il crescendo del nazismo sostenuto dai benpensanti che si turavano occhi e naso.2571_big_La nostra maestra è un troll 15.jpg

Ma c'è, veemente, anche una forte critica sociale; i bambini che vessati si rivolgono alle autorità per vedere rispettati e garantiti i loro diritti chiedendo aiuto prima alla famiglia, che non crede a quello che sente, poi al dirigente scolastico, che minimizza, successivamente alla Polizia che ha di meglio da fare come organizzare il ballo annuale dell'Arma e che si nasconde dietro la frase “I troll non esistono” (sostituite troll con mafia), infine, come extrema ratio, arrivando pure al Presidente della Repubblica che li usa per le foto di rito e li liquida in politichese. Le istituzioni che non aiutano i cittadini né tanto meno le categorie più fragili. Non rimane che farsi giustizia da soli, scendere in piazza, protestare qui con grazia e delicatezza facendo comprendere al Troll le loro ragioni. Un mostro, e qui la piccola parentesi sul problema-fenomeno del bullismo a scuola, che si 2575_big_La nostra maestra è un troll51.jpgcomporta da brutto, sporco e cattivo proprio perché tutti lo vedono come tale non facendo altro che rispettare la profezia che si autoavvera. L'inclusione del diverso porta sempre benefici. Importante il tappeto sonoro e le scelte musicali, tra la risata di John Cage, il pezzo al pianoforte di Aphex Twin, l'elettronica dei Daft Punk, fino ad Avro Part e la chiusa con “Billie Jean” di Michael Jackson da battimano e battipiede, tasto che potrebbe essere più spinto se il Troll, qui immaginifico e suggestione creata dalle parole di Chabolotti-Benini, che si scambiano anche i ruoli, fosse proprio il batterista che potrebbe parlare a colpi di grancassa e rullante, che potrebbe rockeggiare duro sui piatti, che si potrebbe scatenare menando con le bacchette come John Bonham dei Led Zeppelin in un dialogo feroce tra la forza bruta prima della conversione e della comprensione.

Tommaso Chimenti 24/03/2021

SAN CASCIANO DEI BAGNI – Le avevamo lasciate immerse nei chiaroscuri e nelle ombre magiche e trasognanti che tratteggiavano tremolanti la figura di Azzurra di Montebello nel loro “Born ghost” che avevamo visto all'interno della rassegna “Forever Young” alla Corte Ospitale. Sta tutto dentro al loro nome, un nome fatto di nodi e snodi, di possibilità e deviazioni liturgiche e dialettiche: Coppelia Theatre, all'anagrafe la costruttrice di pupazzi, scenografa e visual designer Jlenia Biffi e l'attrice e autrice Mariasole Brusa. Coppelia rievocando il personaggio, inquietante e terribile, protagonista dell'“Uomo della sabbia” di E.T.A. Hoffmann dove il sogno, l'incubo e l'automa si fondono in una marmellata inscindibile di sensazioni, ritorni, ambientazioni dark e simboliste. Una compagnia 01crop-1536x864.jpgche ha una decina d'anni nata dopo che la Biffi aveva trascorso quattro mesi in Siberia, precisamente nella città di Tomsk, geograficamente sospesa tra Kazakistan e Mongolia, apprendendo le tecniche delle marionette da polso dal Maestro Vladimir Zakharov, burattinaio che ha miscelato ingegneria e teatro di figura, purtroppo deceduto tragicamente tentando di salvare i suoi burattini da un incendio che aveva colpito il suo teatro, il 2KY Theater, e laboratorio dove li forgiava e dove prendevano vita: un'esistenza epica, un finale drammaticamente teatrale.

La tecnica delle marionette da polso è complessa e affascinante perché riesce a coniugare l'ingegneria robotica alla scena, la biomeccanica all'umanità, la scienza al tatto, la macchina ai sentimenti umani: delle protesi al polso raccoglie i movimenti del manovratore che ha impegnate, con meccanismi-alta-definizione-1024x1024.jpggrande sforzo e concentrazione, tutti i muscoli, tutte le dita delle mani. Zero elettronica ma soltanto piccoli impercettibili e lievi tocchi, soffi con i polpastrelli che muovono otto binari di fili, che riportano al personaggio, alla marionetta, tutta la sensibilità dell'attore: il mignolo movimenta gli occhi, l'anulare l'apertura della bocca, l'indice e il medio le gambe, il pollice la chiusura delle palpebre e il movimento laterale della testa. I gesti così diventano fluidi, non scattosi né meccanici, realistici, vivi “perché raccolgono la “sporcizia” del manipolatore” donando quella patina di imperfezione che rende l'uomo così dissimile dal robot. Due gli elementi centrali: la sensazione di vita e quella del peso, della gravità, che riescono ad unire e fondere la poesia con la tecnologia, rendendo la seconda più terrena e soffice e restituendo al pubblico un burattino non stereotipato. Il risultato è la fiducia che l'impatto con queste piccole macchine con il cuore riesce a far sbocciare negli spettatori di ogni età. Per questo il lavoro attoriale, fatto di complessità tecnica ma anche di versatilità scenica, è di fondamentale importanza. Coppelia si può tradurre nel motto della compagnia: Arte e Tecnologia.

In questi anni Coppelia Theatre è stata ospite in prestigiose rassegne internazionali come Avignone Off o il “Babkarka Bystrica” in Slovacchia, il “Festival Valise” a Lomza in Polonia, il “Bristol Festival of Puppetry” in Gran Bretagna, il “Festival Asile 404” a Basilea, il “Zone Puppet photoMauroSini-001-768x511.jpgTheatre Festival” proprio a Tomsk in Russia da dove tutto è partito, il “Festival der Gelegenheiten” a Berlino. Oltre che, tra i tanti italiani, citiamo “Mirabilia” o “Arrivano dal mare”, “VolterraTeatro”, “Mercantia” o “Kilowatt”. Ed anche i premi e i riconoscimenti sono arrivati copiosi, ottenuti con le loro produzioni, “Trucioli”, che ha raggiunto le 450 rappresentazioni e che abbiamo avuto modo di poter seguire all'interno del loro laboratorio in una replica speciale, “Star Hunter”, “Born Ghost”, che ha vinto il Bando ERT e finalista al “Forever Young”, “Chimera/Sirene” che avrà la voce di Michele Di Mauro che leggerà poesie di Dino Campana che ci condurrà dentro l'ontogenesi di una donna pesce dalla nascita fino alla sua morte, vincitore del bando internazionale “Giovani artisti per Dante” promosso da Ravenna Festival, “Witchy Things” sull'identità e gli stereotipi di genere, finalista Premio Scenario Infanzia '20 e vincitore del “Premio Internazionale Narrare la Parità”, o con “The Creature”.

L'artigianato e la creazione sta alla base di ogni loro progetto: meccanismi e ingranaggi, ali giganti o teste di mostri, trampoli o maschere in 3D, per SIT5_168-1536x1022.jpguna gestazione che nasce da un'intuizione passa alle mani per poi tradursi in oggetti che, toccandoli, si ha la netta sensazione che abbiano un'anima, un trasporto, un'alchimia profonda, pensata e solida. Dalla piece “Clockwork Metaphisic”, metafisica a orologeria, con l'attrice Ilaria Drago e la regia di Marta Cuscunà, basato sulla pittrice spagnola surrealista Remedios Varo, sono nate due “costole” per spazi non teatrali, piccoli cammeo: “Trucioli” e “La cacciatrice di astri” di dieci minuti l'uno. L'idea è quella del teatro da camera di Guido Ceronetti, per creare luoghi dell'anima, intimi, per poche persone vicine dentro allo stesso sogno colorato e fantastico nella sua accezione più alta. “Trucioli” è ispirato all'opera “La creazione degli uccelli”, quadro della metà degli anni '50 del secolo scorso della Varo che, non a caso, era figlia di un ingegnere idraulico, vissuta tra SIT5_271-Exp_media-1280x1920.jpgla Parigi di Breton, Barcellona e Città del Messico dove, era inevitabile e sarebbe stato impossibile il contrario, entrò in contatto con Frida Kahlo. Il quadro della pittrice spagnola, che si rifaceva a Bosch, vede una donna che macina stelle per imboccare e alimentare una Luna in gabbia condizione dell'autolimitazione della donna da una parte e dall'altra la donna di casa che ripete sempre gli stessi gesti.

Un teatro nel teatro perché il piccolo impianto nel quale si svolge la vicenda è un teatrino da wunderkammer, capolavoro metafisico e patafisico, un sipario a metà tra una bocca di squalo e una volta celeste stellata dove al suo interno, immersa da mini luci coperte da conchiglie, una creatura ancestrale ibrida tra donna e civetta si muove con disinvoltura dipingendo, creando e distruggendo la propria arte. Usa il pennello come se fosse un plettro e ha appeso al collo unSIT7_029-1536x1022.jpg violino e, disegnando, macera e macina miscelandoli, i colori ciano, magenta e giallo, per produrre la sua personale creazione del mondo. In miniatura è ricreato uno studio, un laboratorio fatto di tavoli ed inchiostro, di orologi e calamaio, di nuvole e occhi che si rincorrono, un opificio che tutto trasforma, tra fumi e fiamme in una magia senza età che colpisce e cattura la curiosità. I movimenti rapiscono e si perde il senso del tempo, ci si concentra su un particolare che un altro ci illumina e ci abbaglia, ci porta lontano nel tempo, quello interiore personale anagrafico, come quello dell'Uomo con la maiuscola che, tra questi piccoli grandi colpi di genio, ci fanno sciogliere e liquefare tornando all'essenza di ciò che eravamo, di quello che, sotto le sovrastrutture ancora siamo: corpi magnetici in grado di meravigliarci.

Tommaso Chimenti 12/03/2021

SESTO FIORENTINO – L'ultima volta che lo abbiamo visto sul piccolo schermo interpretava l'oste Oliviero nella serie tv Rai “Pezzi unici”, girata a Firenze al fianco di Sergio Castellitto, Giorgio Panariello, Marco Cocci, Katia Beni, per la regia di Cinzia TH Torrini. Una fiction che ha dato grande impulso e slancio ad Andrea Bruni, comico, autore, drammaturgo toscano con una carriera più che ventennale alle spalle. Una carriera variegata che lo ha portato ad indossare i panni del frontman in “Tintoria” oppure a “Bulldozer” in Rai come ospite di “Quelli che il calcio”, passando per il programma “Stiamo tutti bene”. Ma il rapporto con il teatro non si è mai interrotto, anzi, all'interno dello Scantinato, il teatro a San Domenico a Fiesole, aveva trovato la sua fucina, il suo laboratorio di sperimentazioni di linguaggi, di scrittura e attoriale. Anche due importanti premi toscani in bacheca: il “Premio Montagnani” e il “Premio Calindri”, due personaggi-faro per gli attori brillanti di qualsiasi generazione. Quindi da una parte la televisione dall'altra il teatro, prima in scena poi, nel tempo, sempre più dietro le quinte, alla stesura dei testi che, pur partendo da un'anima leggera e spensierata, nascondono sempre più il suo lato surreale, onirico, trasognante, magico, grottesco, riflessivo. A cinquant'anni è un artista a tutto tondo che dopo l'esperienza di oltre vent'anni con la compagnia Down Theatre ha deciso di confluire nell'associazione Zera, fondata con Alessia De Rosa, suo nuovo spazio d'ideazione scenica. Bruni adesso ha voglia di misurarsi con qualcosa che alzi l'asticella.andrea-1.jpg

A Sesto Fiorentino, dove vive e dove i suoi genitori avevano un forno iconico che ha sfamato intere generazioni di ragazzi, il teatro non è soltanto il Teatro della Limonaia. Da anni sono nate e stanno crescendo molte realtà parallele perché la voglia di fare e vedere teatro non si può ridurre ad una sala da 99 posti. C'è il teatro parrocchiale “San Martino”, c'è la compagnia Atto Due, esiste da almeno un decennio il progetto per la costruzione di un teatro nell'ex area Ginori. Ma esistono altri spazi che potrebbero essere usati allo scopo come, ad esempio, il Centro Espositivo Antonio Berti che, tra una mostra e l'altra, potrebbe essere utilizzato per sala prove o messinscene. Proprio qui, in questi giorni, Bruni e De Rosa si stanno confrontando con un nuovo testo con l'attore Ciro Masella.

Mi volevo lasciare alle spalle l'etichetta di “comico toscano” - ci racconta nella sua barba bianca Andrea – adesso cerco qualcosa in più rispetto ad una comicità vuota, che non lascia niente se non il rumore di una risata che come inizia finisce. Sono mosso dalla curiosità e rifuggo le etichette”. In questi anni il suo percorso di scrittura parla chiaro: dai monologhi commoventi al femminile “In assenza” passando per il gothic “Desmond”, continuando con l'introspettivo “L'uomo che piantava gli alberi”, proseguendo con “Deriva” sul tema migranti, arrivando ad “Antefatti” una sorta di “Rumori fuori scena”, fino ad “Oblò”, la crescita è stata continua, senza rinnegare il passato ma cercando nuove sfide, nuovi step che lo hanno portato al concepimento di due piece importanti, corpose.

Prima “Commedia Magenta” testo politico orwelliano ambientato in un mondo distopico con dieci personaggi. Successivamente con la stesura de “Il Paese che salvò il mondo” testo che indaga il rapporto tra il popolo e il potere in un domani prossimo che vede le sue speranze affievolirsi, speranze ambientaliste, ecologiste, di crescita consapevole, di politiche eque. Un giallo-thriller, una sorta di “La parola ai giurati” con un processo di fondo che vede schierarsi dialetticamente la coscienza e un Dittatore. Tredici in personaggi in azione ai quali presterà corpo e voce proprio Ciro Masella in un impianto che ricorda Alessandro Benvenuti in “Benvenuti in casa Gori” cambiando un colore, un dettaglio, un'intonazione, una luce, un dialetto, un grande impegno anche per l'attore che in questi anni ha recitato per Castri come per Ronconi, per Massini o Tiezzi, per quelli dell'Elfo milanese o per Savelli a Rifredi.

Lae262b4d4c6900bbb1817b885cccba73e_XL.jpg domanda che mi sono fatto – continua Bruni – è che cosa accade prima che tutto accada”. Sembra cervellotico ma sta tutto qui in un limbo che potrebbe essere la fine del mondo, una catastrofe apocalittica beckettiana come un brodo ancestrale generatore della Pangea come del Big Bang che ciclicamente si rincorrono. Un Io narrante che passa la parola, in questa storia misteriosa, alla dozzina di figure che si alternano e si cambiano il testimone lasciando sul campo domande e riflessioni in un testo che interroga la scienza come i grandi valori dell'esistenza oscillando dalla rabbia all'accoglienza, dal fatalismo al ragionamento, dal pensiero alla violenza. In questo paese, chiamato esemplarmente Buoncammino (definito poeticamente “un vestito fuori misura”), si deve prendere una decisione fondamentale; c'è un processo in atto dal quale scaturiranno conseguenze, dopo il quale niente sarà più come prima e non si potrà più tornare indietro. unnamed.jpgLasciarsi andare all'isteria del momento, allo sconforto del qui ed ora, alla tragedia del tempo o cercare mediazioni e spiegazioni, aprire tavoli e dibattiti, creare alleanze e relazioni? E' una favola per adulti, una parabola ricca di insegnamenti, che ci riporta al processo contro Ceausescu come a quello di Gheddafi o che può avere attinenze e verosimiglianze con Trump. La grande domanda di fondo è se la democrazia ha fallito la sua missione e se ha creato un'umanità senza speranza: “Il tribunale non è un tipo di teatro?” si chiedono. I personaggi poco alla volta spariscono dall'agorà lasciando al duello finale tutto il suo carico evocativo tra Asimov e Fahrenheit 451, oscillando tra gli spari e la melodia di una musica, lo spavento e la bellezza, la voglia di Comunità e il desiderio di Vendetta. Non resta che riaprire i teatri, non resta che dare nuovi spazi alle compagnie sestesi, non resta che vedere in scena le parole di Bruni attraverso la bocca di Masella. Manca poco e manca tanto insieme.

Tommaso Chimenti 05/03/2021

GENOVA – “Sguardo basso, cerchi il motivo per un altro passo, Ma dietro c'è l'uncino e davanti lo squalo bianco, E ti fai solitario quando tutti fanno branco, Ti senti libero ma intanto ti stai ancorando” (“Una chiave”, Caparezza).

Come un ballerino che fluttua dolce sulle nuvole questo “Giusto” (tra gli sbagliati) ci colpisce come uno dei migliori antieroi per eccellenza; spaventato, impaurito, timido come lo siamo stati tutti una o mille volte durante la nostra esistenza. Quella che si crea tra platea e palco non è soltanto empatia ma una sorte di sotterranea elettricità che ci accomuna in questo viaggio delicato e tenero che Rosario Lisma fa fare al suo pubblico, prendendoci per mano senza dominare, accompagnandoci passo dopo passo, mai davanti sempre a fianco, complici senza ruffianerie. “Giusto” (prod. Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, scritto e diretto dall'attore siciliano da anni di stanza a Milano) ha molto del corpo che lo abita, come Lisma è pacato, gentile, saggio, ti fidi, gli apri volentieri il cuore. Si genera subito un legame forte, di solidarietà che mai sfocia nel patetismo, di vicinanza senza travalicare nel vittimismo, noi siamo Giusto e Giusto è in noi, ci riconosciamo, è per questo che lo amiamo fin dall'inizio, fin dalle prime battute.Giusto-ph-Marco-Ragaini.jpg

E guai a chiamarlo sfigato o sfortunato o addirittura Fantozzi, con il quale certamente ha diversi tratti in comune: per il nostro sguardo il suo personaggio pennellato e pastellato, tratteggiato, soffice e tenue ci ha ricordato una miscela che lo lega a Paperino e Clark Kent, ha qualcosa del pacioso Homer Simpson impastato con il “Preferirei di no” di Bartleby, anch'egli scrivano-impiegato, qualche tratto di Meursault de “Lo Straniero” nell'accezione del non saper prendere una direzione, lo sconfitto Ettore e la gentilezza di Tintin, l'emarginazione di Holden Caulfield e l'isolamento di Gregor Samsa, l'inadeguatezza di Arturo Bandini di John Fante, l'ingenuità di Candide di Voltaire e le sventure di Marcovaldo o le depressioni di Pierrot, le avversità di Zeno dell'omonima coscienza ma soprattutto ci è sembrato di scorgere la morbidezza affettuosa di Charlie Brown. Insomma nei Ricchi e Poveri sarebbe stato quello con i baffi, degli 883 il biondo. La sua disponibilità e premura nel farsi accettare gli altri la scambiano per mollezza e debolezza e di questo se ne approfittano. Giusto si sottrae all'arena, fugge alla pugna, rifiuta la competizione, scansa l'agorà, non impugna le armi. E' uno da decibel bassi, che non vuole litigare, che non si mette in mostra e in un mondo tutto basato e incentrato sull'aspetto, sul fisico, sulla forma, sulla presa di posizione forte la sua non-scelta volontaria è un collasso, un suicidio, un azzeramento.

Dietro Lisma (sul grande schermo lo abbiamo visto in “Smetto quando voglio”, sul piccolo in “1994” dove interpretava il leghista Roberto Maroni 206-copia.jpge nel “Commissario Montalbano”), che sul palco ha postura e sicurezza che ci hanno ricordato Pierfrancesco Favino, si muovono i disegni di Gregorio Giannotta (l'artista che ha adornato l'interno della sala Dino Campana della Tosse rendendola unica), illustrazioni leggere, bozzetti infantili, schizzi commoventi e luminosi, caldi come un abbraccio materno. Alimentano la forza delle parole esili e lievi che escono dal racconto di una vita, la famiglia, il lavoro, gli affetti in sordina, in deficit e in rimessa, un doppio binario che concede e scalda, un rapporto generoso che colora questo viaggio in bianco e nero del nostro Giusto che è ancora avvolto nel bozzolo, che teme nel dispiegare le ali, a farsi farfalla per coloro che potranno apprezzarne il volo.

Giusto viene giudicato perché non è come gli altri bambini prima, come gli altri adolescenti dopo, come gli altri uomini, come gli altri impiegati; e non si fa neanche omologare, preferisce la sua ombra, la non partecipazione, il non uscire allo scoperto perché è preoccupato, fino all'immobilismo, che mostri come il Disagio o la Vergogna lo prostrino, lo annientino, lo affliggano. Si ride, si ride amaro, si ride di noi, di come siamo stati, di come saremo in altre mille circostanze. Di come spesso siamo inflessibili soprattutto con noi stessi: Giusto ci dice, perché è ancora necessario 001-copia.jpgdirselo e ricordarselo, che non dobbiamo giudicare e che ogni volta che lo hanno fatto nei nostri confronti abbiamo sentito una lama conficcarsi alla bocca dello stomaco. Si sente insignificante e inconcludente perché è il giudizio sociale che lo fa sentire tale, che lo relega nell'angolo, che, non comprendendolo, preferisce schiacciarlo, derubricandolo a “strano”, etichettarlo tra le stramberie, in quell'ordinario incolore che non vale neanche la pena di menzionare. In un mondo dove tutti sembrano superman, o almeno lo vogliono con forza comunicare all'esterno, dove tutti hanno un'opinione su tutto, il suo essere indeciso, incerto, titubante, fallace, silente, uno che ancora addirittura arrossisce, viene discriminato e ghettizzato perché è il germe del diverso che può far saltare il banco, che può far pensare e riflettere ognuno sulla propria esistenza.

Un testo, a tratti surreale altre volte grottesco, che è una favola moderna, una parabola che parla di speranza quando la speranza credevamo fosse morta, ci dice che il cinismo è la tomba della comprensione dell'altro e l'anticamera del menefreghismo che ci condanna e ingabbia, che ci racconta di rinascita, di accettazione, di coraggio nell'essere se stessi e che “nessuno si salva da solo”. Lisma ha carisma, i suoi personaggi sono un prisma, la sua carica è un sisma, ha l'impatto di un cataclisma, di emozioni una risma, ha la forza di un aneurisma, è maturo come un aforisma.

“Meglio depressi che stronzi del tipo "me ne fotto". Perché non dicono "io mi interesso"?” (Caparezza, “La mia parte intollerante”).

Tommaso Chimenti 27/02/2021

 

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