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Lisma è "Giusto", un timido schiacciato dalla stupidità della massa

GENOVA – “Sguardo basso, cerchi il motivo per un altro passo, Ma dietro c'è l'uncino e davanti lo squalo bianco, E ti fai solitario quando tutti fanno branco, Ti senti libero ma intanto ti stai ancorando” (“Una chiave”, Caparezza).

Come un ballerino che fluttua dolce sulle nuvole questo “Giusto” (tra gli sbagliati) ci colpisce come uno dei migliori antieroi per eccellenza; spaventato, impaurito, timido come lo siamo stati tutti una o mille volte durante la nostra esistenza. Quella che si crea tra platea e palco non è soltanto empatia ma una sorte di sotterranea elettricità che ci accomuna in questo viaggio delicato e tenero che Rosario Lisma fa fare al suo pubblico, prendendoci per mano senza dominare, accompagnandoci passo dopo passo, mai davanti sempre a fianco, complici senza ruffianerie. “Giusto” (prod. Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, scritto e diretto dall'attore siciliano da anni di stanza a Milano) ha molto del corpo che lo abita, come Lisma è pacato, gentile, saggio, ti fidi, gli apri volentieri il cuore. Si genera subito un legame forte, di solidarietà che mai sfocia nel patetismo, di vicinanza senza travalicare nel vittimismo, noi siamo Giusto e Giusto è in noi, ci riconosciamo, è per questo che lo amiamo fin dall'inizio, fin dalle prime battute.Giusto-ph-Marco-Ragaini.jpg

E guai a chiamarlo sfigato o sfortunato o addirittura Fantozzi, con il quale certamente ha diversi tratti in comune: per il nostro sguardo il suo personaggio pennellato e pastellato, tratteggiato, soffice e tenue ci ha ricordato una miscela che lo lega a Paperino e Clark Kent, ha qualcosa del pacioso Homer Simpson impastato con il “Preferirei di no” di Bartleby, anch'egli scrivano-impiegato, qualche tratto di Meursault de “Lo Straniero” nell'accezione del non saper prendere una direzione, lo sconfitto Ettore e la gentilezza di Tintin, l'emarginazione di Holden Caulfield e l'isolamento di Gregor Samsa, l'inadeguatezza di Arturo Bandini di John Fante, l'ingenuità di Candide di Voltaire e le sventure di Marcovaldo o le depressioni di Pierrot, le avversità di Zeno dell'omonima coscienza ma soprattutto ci è sembrato di scorgere la morbidezza affettuosa di Charlie Brown. Insomma nei Ricchi e Poveri sarebbe stato quello con i baffi, degli 883 il biondo. La sua disponibilità e premura nel farsi accettare gli altri la scambiano per mollezza e debolezza e di questo se ne approfittano. Giusto si sottrae all'arena, fugge alla pugna, rifiuta la competizione, scansa l'agorà, non impugna le armi. E' uno da decibel bassi, che non vuole litigare, che non si mette in mostra e in un mondo tutto basato e incentrato sull'aspetto, sul fisico, sulla forma, sulla presa di posizione forte la sua non-scelta volontaria è un collasso, un suicidio, un azzeramento.

Dietro Lisma (sul grande schermo lo abbiamo visto in “Smetto quando voglio”, sul piccolo in “1994” dove interpretava il leghista Roberto Maroni 206-copia.jpge nel “Commissario Montalbano”), che sul palco ha postura e sicurezza che ci hanno ricordato Pierfrancesco Favino, si muovono i disegni di Gregorio Giannotta (l'artista che ha adornato l'interno della sala Dino Campana della Tosse rendendola unica), illustrazioni leggere, bozzetti infantili, schizzi commoventi e luminosi, caldi come un abbraccio materno. Alimentano la forza delle parole esili e lievi che escono dal racconto di una vita, la famiglia, il lavoro, gli affetti in sordina, in deficit e in rimessa, un doppio binario che concede e scalda, un rapporto generoso che colora questo viaggio in bianco e nero del nostro Giusto che è ancora avvolto nel bozzolo, che teme nel dispiegare le ali, a farsi farfalla per coloro che potranno apprezzarne il volo.

Giusto viene giudicato perché non è come gli altri bambini prima, come gli altri adolescenti dopo, come gli altri uomini, come gli altri impiegati; e non si fa neanche omologare, preferisce la sua ombra, la non partecipazione, il non uscire allo scoperto perché è preoccupato, fino all'immobilismo, che mostri come il Disagio o la Vergogna lo prostrino, lo annientino, lo affliggano. Si ride, si ride amaro, si ride di noi, di come siamo stati, di come saremo in altre mille circostanze. Di come spesso siamo inflessibili soprattutto con noi stessi: Giusto ci dice, perché è ancora necessario 001-copia.jpgdirselo e ricordarselo, che non dobbiamo giudicare e che ogni volta che lo hanno fatto nei nostri confronti abbiamo sentito una lama conficcarsi alla bocca dello stomaco. Si sente insignificante e inconcludente perché è il giudizio sociale che lo fa sentire tale, che lo relega nell'angolo, che, non comprendendolo, preferisce schiacciarlo, derubricandolo a “strano”, etichettarlo tra le stramberie, in quell'ordinario incolore che non vale neanche la pena di menzionare. In un mondo dove tutti sembrano superman, o almeno lo vogliono con forza comunicare all'esterno, dove tutti hanno un'opinione su tutto, il suo essere indeciso, incerto, titubante, fallace, silente, uno che ancora addirittura arrossisce, viene discriminato e ghettizzato perché è il germe del diverso che può far saltare il banco, che può far pensare e riflettere ognuno sulla propria esistenza.

Un testo, a tratti surreale altre volte grottesco, che è una favola moderna, una parabola che parla di speranza quando la speranza credevamo fosse morta, ci dice che il cinismo è la tomba della comprensione dell'altro e l'anticamera del menefreghismo che ci condanna e ingabbia, che ci racconta di rinascita, di accettazione, di coraggio nell'essere se stessi e che “nessuno si salva da solo”. Lisma ha carisma, i suoi personaggi sono un prisma, la sua carica è un sisma, ha l'impatto di un cataclisma, di emozioni una risma, ha la forza di un aneurisma, è maturo come un aforisma.

“Meglio depressi che stronzi del tipo "me ne fotto". Perché non dicono "io mi interesso"?” (Caparezza, “La mia parte intollerante”).

Tommaso Chimenti 27/02/2021

 

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