Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza di navigazione e rispetta la tua privacy in ottemperanza al Regolamento UE 2016/679 (GDPR)

                                                                                                             

TORINO – Nell'ultimo guado dell'esistenza, tra un impalpabile possibile e un indefinito nebuloso proseguire, sospesa tra questa terra e il declino oblioso, la (non casta) Diva dell'antichità sta e serpeggia logorroica, si muove raccogliendo i cocci in frantumi del frantoio del proprio passato, riassumendo nefandezze squallide e tesori d'amore candidi, riportando alla luce pepite di memoria intatta e affranta. La triangolazione di “Cleopatras” (prod. Tpe e Colline Torinesi, che apre la stagione '21-'22 dell'Astra di Torino) Giovanni Testori, drammaturgia, Valter Malosti, regia, e la formidabile, titanica, gigantesca Cleopatras-Anna-Della-Rosa-©-Tommaso-Le-Pera-min-scaled.jpgAnna Della Rosa, in scena, si esalta in un connubio faticoso, corpo a corpo voluttuoso, all'ascolto tra invenzioni letterarie e un lombardo d'antan, schizzi di popolare infarcito d'aulico, espressioni volgari acide e architetture linguistiche arcaiche per un gramelot suggestivo, compatto e solido e ruvido. La nostra eroina, come una frontman di una rock band, microfono in mano e sguardo ben piantato sul pubblico a cercarne le debolezze e le crepe, si apre alla platea, la sonda e scandaglia, la concupisce inebriante, la seduce bramosa, la avvolge con gli artigli d'aquila, quanto la allontana, la reprime, in un gioco di sfioramenti brividosi e perdite.

Con la bottiglia teatro.it-cleopatras-marcos-vinicius-piacentini.jpgdi whisky ci appare come Marilyn nelle sue ultime ore solitarie abbandonata nella camera da letto che ne decretò l'unhappy end, in alcune movenze, tempestate dalla desolazione e dallo scivolare verso l'ignoto, abbiamo potuto vedere lo sconforto di Amy Winehouse, il cipiglio di Bette Davis, il mistero di Greta Garbo, la sicurezza di Ava Gardner, l'altezzosità arrogante di Marlene Dietrich e il profilo, appunto come le iscrizioni egizie, tra Nefertiti e Marge Simpson con la sua crocchia, facendoci affiorare ulteriormente un mix tra Mina e Nina Zilli. L'imperiale Anna Della Rosa ha come unico appiglio il microfono dal filo che agitandolo pare la sua vipera flessuosa in cerca del morso fatale: bottiglia e amplificatore si fanno fallici in cerca della sua bocca, apertura verso il suo mondo, dentro le sue parole. Per lei, in abito lungo di raso lucido le cui volute e pieghe e onde paiono quelle di marmo del “Cristo velato” napoletano, è un'estenuante prova d'attrice linguistica e fisica a slalomare tra desuetudini lessicali ed eros, tra perifrasi ricoperte di pathos e un gergo da portuale, balla come favilla di fiammifero ondulando in una danza sensuale allungata e arabeggiante.

Ogni tanto un suono del telefono, quasi una sveglia che attira per un attimo la sua attenzione, la ridesta dal suo monologo a teatro.it-cleopatras-principale.jpgperdifiato, a valanga di ridondanze e artificiose costruzioni; il trillo viene dalla camera da letto alle sue spalle, crediamo d'albergo (sul comodino un teschio amletiano o proveniente direttamente dal quadro del San Girolamo caravaggesco), impersonale e anonima nelle sue linee fusion e pulite ma senza personalizzazione, dove con una siringa tossica in vena (la trasposizione contemporanea dell'aspide) si inietta il veleno, dolce amara tragica ineffabile conclusione di tutta l'affabulazione precedente, degna chiusura per chi non può più restare in questa dimensione perché tutto ha cleopatras-valter-malosti-anna-della-rosa-©-laila-pozzo.jpgbruciato, morso, addentato con voracità e violenza. Violento come solo sa essere la desolazione e l'avvilimento in cui è stata lasciata come nelle sabbia mobili, accecante, furiosa e prepotente come questa lingua macchinosa e ardimentosa che liscia e accalora, carezza dannata leggera e lussuriosa, ora focosa adesso slanciata, carnale e femminea, illuminante e cavernosa, piena d'accensioni e oscuratezze e accelerazioni, una lingua cantata e marcita, spugnosa e sugosa, martellante, conturbante ed esplicita, di rime che ora addolciscono e in seconda battuta restano refrattarie e impermeabili ad una facile comprensione.

Sono le sue ultime ore da mortale della Dea dell'Era antica, i suoi finali rintocchi con il destino in questa confessione marcia tutta di pancia, piena, ritmica, corporea, libidinosa, eccitante, meramente materiale, certamente tormentata, ogni rigurgito del passato come una ferita struggente per far sgorgare una verità nascosta prima di essere per sempre sepolta e adombrata dalla dimenticanza, dall'oscuro e dal silenzio siderale che tutto inghiotte e purifica. La Cleopatra di Testori non cerca salvezza né chiede pietà, né protezione né riparo né tanto meno perdono, per cosa poi? Per aver vissuto?

Tommaso Chimenti 06/10/2021

Foto: Tommaso Le Pera; Laila Pozzo

FORLI' – In Romagna il teatro è una cosa seria. Basti pensare al Teatro delle Albe, alla Societas Raffaello Sanzio, all'Arboreto di Mondaino, al Festival Santarcangelo dei Teatri, ai Motus o ai Fanny Alexander. Solo per citarne alcuni. E Forlì non è da meno con i suoi 110.000 abitanti e ben cinque spazi. La direzione artistica di Accademia Perduta (Ruggero Sintoni e Claudio Casadio) ha messo in piedi la prima edizione di “Colpi di scena” che se nelle annate precedenti era dedicato al teatro per ragazzi quest'anno era rivolto ad uno sguardo sul teatro contemporaneo per adulti. Tre giorni fitti di appuntamenti divisi tra il Teatro San Luigi, il Testori, il Piccolo e il Diego Fabbri, tutti a Forlì, e il Goldoni a Bagnacavallo e il Socjale a Piangipane. Colpi di sole, colpi di testa, colpi di Claudio Casadio e Ruggero Sintoni con il Premio Enriquez-2.jpgfortuna, colpi d'arma, colpi di remi, colpi di sonno, colpi di genio, colpi da biliardo. Colpi e corpi.
Due i lavori che ci hanno intrigato maggiormente che hanno riflettuto sulla diversità. Se il banale politicamente corretto ha trasformato qualsiasi sostantivo in contorte ed ipocrite perifrasi (il cieco è diventato non vedente, lo spazzino è ora un operatore ecologico, il sordo è un audioleso), per le persone affette da nanismo non si è trovato un nuovo espediente linguistico. Ed è curioso che ne “L'ombra lunga del nano” (prod. Società per Attori, Accademia Perduta), della compagnia Les Moustaches, Claudio Gaetani, un nano, interpretasse proprio un nano anche se il teatro è lo spazio della finzione. Già questa identificazione fisica tra persona e personaggio ha rotto le regole della scena dove tutto è possibile soltanto mimandolo, nominandolo o accennandolo. Sta di fatto che “L'ombra lunga” (un titolo ossimorico vista l'altezza del protagonista) parla di accettazione anche con risvolti amari. Lui è Olo, come i suffissi dei famosi nani della fiaba per eccellenza a loro dedicata (Brontolo, Pisolo,...), Lei è ovviamente 3070_small_moustaches news.jpgNeve. Insomma lui è quello dei sette che è riuscito a farla innamorare ed a portarla all'altare. Ma l'amore è una cosa, il matrimonio un'altra. E così sono sopraggiunti la noia, la routine, la scontatezza. Un bell'intro, con la voce infinita di Maria Paiato, ci apre le porte del letto nuziale un tempo fulcro di passione e oggi di dinieghi. Il boccascena è arredato di mele come fossero le lampadine dei teatri di varietà. Non si capiscono più, non si sopportano. Ma capita che un giorno il nano passi davanti ad una lampada e la sua ombra risulti immensa, sovrumana come quella di un gigante, il suo opposto. Inizia un corteggiamento serrato tra il gigante e Neve (Ludovica D'Auria convincente e conturbante) che sembra rinnegare gli anni con Olo e che adesso vorrebbe accanto a sé un uomo forte e poderoso. Non profuma molto di inclusione, anzi, la nostra eroina, eccitata, ci fa capire che non solo il sentimento è finito ma che, proprio fisicamente, avrebbe bisogno di novità rifiutando l'aspetto esteriore del marito per cercare l'antitetico che evidentemente le è mancato. Il nano si sente un fallito e solo con l'escamotage dell'ombra riesce ad avere un rapporto con la moglie che ormai fantastica sulle proporzioni del gigante inesistente. Sembra la scena dietro la siepe con Cyrano che presta la sua poesia a Cristiano per far cadere tra le sue braccia Rossana. Potrebbe essere un buon spettacolo di teatro ragazzi se “ripulito” da qualche parola e scena “hot”, per il resto rimane a metà strada tra una leggerezza fiabesca e contenuti che si fanno drammatici soprattutto sul finale che potrebbe essere letto come un tragico triste addio anticipato (Romeo e Giulietta) scioccante visto il climax tenue dell'intera piece.

Da anni in molti ci parlavano dell'Amleto di Massimiliano Burini, “Un principe”, e della sua compagnia Occhisulmondo che non siamo riusciti a vedere. E adesso abbiamo capito il perché. Questo nuovo “Il nero” (prod. Fontemaggiore, Corte Ospitale, Teatro delle Briciole) che miscela arditamente, e ad una prima occhiata forzatamente, il Bataclan e la situazione degli islamici in FranIl nero.jpgcia e in particolare a Parigi con l'Otello shakespeariano, trasuda di un rigore estetico che diventa estatico, di una coerenza spietata senza perdersi in rigidità, raffinato e delicato, preciso e tagliente. I sei personaggi, non pirandelliani, con maschere ad addobbare e trasformare i loro volti, stanno nascosti dietro un grande telo (che ci ha ricordato l'arazzo di Polonio). C'è una ricerca spasmodica sul fronte ombre e le luci (inconfondibili di Gianni Staropoli), sui suoni e le musiche, su questi grandi fari latelliani accecanti da Inquisizione. Un grande lavoro minimalista che riavvicina la magia eterna del teatro con l'essenza più intima della scena, semplici artifici artigianali che riescono a respirare e dialogare insieme agli attori. Un'opera estremamente elegante, dalle linee pulite, rarefatta e rara, lieve, fragile e feroce, netta e violenta.

Eccoci invece ai comizi teatrali (da non confondere con quelli d'amore pasoliniani), alle tesi preconfezionate e portate su un palco per convincere, indottrinare. Il teatro dovrebbe lasciare domande e dubbi, punti interrogativi non certezze scolpite nella pietra e verità inossidabili. “Black dick” (prod. Casavuota, Gender Bender Festival) di Alessandro Berti (intelligente e arguto performer) gioca, volendo combattere i pregiudizi, sul pregiudizio che la colpa di qualsiasi danno nel mondo moderno sia da attribuire, senza possibilità di smentita, all'uomo bianco, meglio se etero e cattolico. Per argomentare la sua riflessione (e lo fa anche sciorinando canzoni a cappella e un inglese fluido) utilizza e sfrutta un approccio discutibile, strumentalizzandolo, un fatto delittuoso che ha scioccato l'Italia, lo stupro della ragazza polacca sulla spiaggia di Rimini (sett. '17) da parte di quattro delinquenti di origine africana. Da qui (la percezione è che questa sia proprio un'uscita infelice) parte la sua digressione sull'idea che l'uomo bianco (evidentemente per la teoria spiccia e popolana dell'invidia del pene con l'uomo afro) ha apposto sull'uomo nero. Uno spettacolo che ci dice (anzi ci vuole insegnare, ma forse lo sappiamo già) che non ci sono differenze tra gli uomini e che poi, per tutta la sua durata, identifica l'uno con “uomo bianco” (nemmeno caucasico) e l'altro con “uomo nero” (come quello delle filastrocche che veniva a rapire i bambini). L'indagine si sposta sul mondo del porno che, da quanto si evince in “Black dick”, è fruito soltanto da uomini e donne bianche. Ne viene fuori un'accusa martellante, una piece per chi ha continui sensi di colpa e rimorsi di coscienza con la propria identità culturale e vuole farsi perdonare chissà quali peccati commessi dai propri antenati.

Altra conferenza squisitamente politica è “Gli Altri” della compagnia Kepler 452 (prod. ERT, L'Arboreto, La Corte Ospitale) che, come “Black dick”, prende spunto e attacco e incipit da un evento delittuoso; stavolta la vicenda della tedesca Carola Rackete che nel giugno '19 su nave battente bandiera olandese, la Sea Watch 3, aveva speronato un'imbarcazione della Guardia Costiera italiana forzandGli altri.jpgo il blocco navale e per questo arrestata. E rilasciata dopo pochi giorni con tanto di nostre scuse, prostrati ai diktat europei. Ovviamente sappiamo da che parte stanno Nicola Borghesi e soci, la distinzione tra buoni e cattivi è netta fin dall'inizio. Ma il loro ragionamento si sposta dalla Rackete (nel frattempo l'esterofilia italica l'ha elevata a eroina e paladina) a qualche povero cristo che sulla banchina di Lampedusa (esasperato, ma certo non per questo giustificato, dai continui sbarchi di migranti clandestini) offese la tedesca. E qui entra in gioco la grandezza di questa argomentazione scenica: per raccontare l'odio e la rabbia, per dire che dobbiamo volerci tutti più bene e darci più amore, per compattare un pubblico progressista e aperto e illuminato già unito di fondo sulle stesse tesi, per un'ora viene preso come bersaglio un cittadino lampedusano, per farne carne da cannone, simbolo e fantoccio di scherno, viene irriso, dileggiato, canzonato. Soprattutto uno in particolare, Mario Lombardino, che si sfogò con frasi gravi nei confronti della capitana. Però si sente un'acredine camuffata da sfottò, un astio culturale nascosto dietro piccole ipocrisie. La vita di Lombardino (avrà visto lo spettacolo? Avrà dato il suo consenso ad essere pubblicamente deriso?) viene messa sotto il riflettore di un'indagine al limite dell'ossessione senza alcun imbarazzo: il suo profilo Facebook scandagliato, la figlia, la pizzeria, la separazione, la disoccupazione, lo spostamento a Milano, sbeffeggiandone anche i suoi gusti musicali e disprezzando con ironia tagliente il suo unico svago sull'isola: girare di notte con la macchina.

Ne esce fuori uno scontro tra Davide-Mario e Golia-Borghesi, e la platea sentendosi evidentemente superiore per censo, classe, istruzione, ride di “quella gente là” che “non avrà letto nemmeno la Pimpa”, sicuramente “analfabeta” e “la cosa peggiore è che questa gente vota” e bisognerebbe “togliergli i diritti civili”. Il povero Mario (il confronto è impari e la satira dovrebbe sempre scagliarsi contro i potenti e non contro gli ultimi) viene registrato telefonicamente (qui ha dato il suo assenso verbalmente) e le sue parole immesse nell'agorà teatrale senza contraddittorio né difesa quasi fosse un processo (che comunque non dovrebbero fare né i giornalisti né gli attori). Alla fine però, dopo un'ora di giudizi burleschi con le lame della dialettica (contro le quali Mario non può niente, ce lo dice proprio Borghesi che purtroppo il pizzaiolo non ha potuto studiare), il frontman dei Kepler ci spiega che non dobbiamo giudicare. Due pesi e due misure.
Dovremmo avere più cura degli “Altri” anche se non la pensano come noi. L'importanza dell'I care.

Tommaso Chimenti 04/10/2021

CATANIA – “Date alle donne occasioni adeguate e saranno capaci di tutto” (Oscar Wilde).

La donna sembra essere diventata, nel nostro contemporaneo lessico, un oggetto da rivendicare o un cliché da sdoganare, molto spesso un ragionamento da strumentalizzare, un pretesto per dire altro. Si parla talmente tanto di donne che, paradossalmente, sublimandole a “materia”, qualcuno ha voluto renderle astratte per farne, non più carne, ma soltanto ragionamenti per allontanarle Bassa donne in guerra 1, da sx Egle                 Doria, Leda Kreider, Carmen Panarello, Federica Carruba     Toscano,         Barbara     Giordano, Isabella Giacobbe (1).jpgdalla realtà. Le donne invece, per chi non se ne fosse accorto e ne parla come animali in via d'estinzione, stanno nel reale, vivono, lavorano, soffrono, gioiscono, sono parte integrante di quel nostro meccanismo chiamato mondo. Anche la galanteria e la cavalleria hanno in sé il germe del protezionismo che controlla e vuole assoggettare. Mi duole dar ragione a Michela Murgia ma anche il discorso di Benigni, in favore della moglie, trasuda di quel maschilismo indorato di estrema gratitudine e fine gentilezza con la donna relegata a Musa, che ispira ma che non agisce, che sta dietro le quinte, bonaria, paziente, devota. Tutto il contrario di quello che tracima dal potente “Donne in guerra”, nuova produzione del Teatro Stabile di Catania.
A parlare delle “donne” si commette il peccato di accomunarle tutte a stereotipi, spesso forgiati dagli uomini. Ecco “Donne in guerra” ci parla di questo, ci fa prendere coscienza della donna nel suo tempo, non solo vittima e burattino da spostare, peso da portare, elemento che non fa notizia, numeri che non fanno la storia, ma protagoniste, capaci di prendere decisioni coraggiose, persone che, seppur nelle difficoltà, hanno preso in mano le loro vite, senza la retorica della salvezza né di Marte né del sangue né della Patria da salvare, e hanno vissuto non aspettando passivamente l'aiuto di padri, mariti, fratelli, ma scegliendo bivi pericolosi in maniera consapevole. Chi dice donna non dice danno. “Una donna dev'essere una piccola cosa carina, carezzevole, ingenua, tenera, dolce e stupida” (Adolf Hitler).

“Donne in guerra” ad una prima lettura ci racconta storie belliche, di vita e morte durante la Seconda Guerra Mondiale, ma se scaviamo più a fondo ci apre le porte della determinazione, della energia, della vitalità, della forza, del coraggio di non abbattersi, del non sottostare ai ruoli impostiBassa donne in guerra, Barbara                 Giordano (Anida).jpg per loro da altri, di ribellione alle classificazioni, di prendere in mano la propria esistenza senza attendere assistenzialismi né vittimismi. Queste donne, per fortuna, non sono “l'altra metà del cielo” né tanto meno il “sesso debole”, non si vestono di rosa né d'altro canto scimmiottano l'uomo e i suoi comportamenti legati al potere e al sopruso. Nel testo (che non si può definire “femminista”, sarebbe riduttivo) di Laura Sicignano, che firma anche la regia, e Alessandra Vannucci, sei diverse donne, sei modi differenti di interpretare e attraversare la guerra, quella guerra che combattono gli uomini al fronte imbracciando un fucile nella loro personale “Guerra di Piero” ma che qui, nella normalità delle città abbandonate, si fa sporca guerriglia con le mille regole non scritte della rappresaglia come della sopraffazione, dell'abuso.

Messo in scena nel 2015 a Genova al Teatro Cargo (che la Sicignano dirigeva a Voltri, nel Ponente ligure, prima di approdare allo Stabile di Catania; a proposito nel '22 scadrà il suo mandato e sarebbe una vera perdita se la sua esperienza terminasse appena dopo il primo triennio visto che ha risollevato il teatro dalla crisi e dai debiti nei quali era sprofondato), in questa nuova produzione etnea (le repliche andranno avanti per un mese, dal 28 settembre al 29 ottobre, scelta d'impatto questa per riaprire il teatro alla città, 80 spettatori a sera) la scena si presenta su un doppio livello, prima sul palcoscenico con il pubblico in piedi e la “presentazione” sopra bauli rossi delle figure che ci accompagneranno (1h 30' la durata) per poi scendere giù nella platea aperta dove sono state tolte le poltroncine ed è stato installato un binario e le casse adesso sono grigie e non preannunciano felicità. Ecco le sei attrici, caratteri diversi di un caleidoscopio infinito, tutte intense, pugnaci, determinate: Federica Carruba Toscano, Egle Doria, Isabella Giacobbe, Barbara Giordano, Leda Kreider e Carmen Panarello.Bassa donne in guerra, Isabella                 Giacobbe (Irene).jpg

Siamo nel '44 nostrano ma potremmo essere oggi in Cecenia o in Iraq, in Afghanistan, a Kobane in Siria. La guerra rimane tale anche cambiando latitudini e momenti storici. E queste donne non si sono fatte soverchiare dalle contingenze ma hanno preso in mano i loro destini: c'è la pasionaria Anita la partigiana, la borghese e pia Signora De Negri, Milena la bionda fascista, la levatrice, la matta, e Maria che per l'8 settembre ha fatto la pastasciutta per tutti. Le sei hanno un rapporto diretto con la platea, vanno vicino al pubblico, ci parlano, interloquiscono, lo interrogano, scambiano battute e oggetti. Noi siamo dentro la storia. Adesso siamo dentro questo treno ideale “che è mezzo vuoto e mezzo pieno e va veloce verso il ritorno, tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore”. Ci sono ricordi di fabbrica, perché adesso, con gli uomini assenti, le donne possono lavorare per portare lo stipendio a casa, vogliono votare, sono impegnate in politica. Sono Bassa donne in guerra, Leda Kreider                 (Milena).jpgdonne che fanno e hanno fatto la guerra pur non essendo andate in guerra. Sembra una contraddizione. Nei loro racconti di morte, di tragedia e sofferenza, di fame e di abusi, vengono al pettine i disastri che si sono accaniti su queste macerie umane. E' una narrazione brutale e crudele, dura, cruda, feroce, che non fa sconti, che non lascia niente al non detto, dalle fucilazioni agli stupri. Il pubblico non può non essere coinvolto e partecipe. Ma queste donne, ferite e vessate (non c'è happy end per nessuna, ognuna paga le proprie scelte), sono portatrici di messaggi positivi, c'è un barlume di futuro, un velo di domani: lavorano e protestano, si ribellano, si rivoltano e urlano, con le loro azioni, “Guerra alla guerra” senza chinare la testa. E' il loro camminare-incedere sbilenche sui sassi squadrati, che stanno tra i binari, a identificare il loro passo incerto ma anche la loro tenacia nel non cadere, il loro tenersi su senza lasciarsi sconfiggere dalle intemperie, dalle avversità, “dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”.
Senza queste donne, senza le donne rimaste a casa a fronteggiare la deriva morale dei conflitti armati non avremmo la nostra forma di democrazia cresciuta sulle lacrime e sul sangue non soltanto dei soldati in divisa, nelle trincee o dei militi ignoti. Queste donne escono dalla solita narrazione di vittime indifese, anzi sono diventate protagoniste emancipate dei cambiamenti del loro e del nostro tempo.

“Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le sue ali che avete tarpato, per tutto questo: in piedi, signori, davanti ad una Donna!” (William Shakespeare).

Tommaso Chimenti 29/09/2021

Foto: Antonio Parrinello

GIARDINI NAXOS – La polvere di granelli di lava nera sono arrivati, portati dal vento, fino a qua dall'Etna, ad annerire le pietre bianche del lungomare, ad affumicare quelle di magma ruvide al tatto che sanno di mare. Una statua della vittoria traforata, alata come le migliaia di formiche giganti che svolazzano tra gli scogli scuri affiorati nella baia che sembrano leoni marini spiaggiati al Pier 39 a San Francisco, ci indica il Parco Archeologico vista mare. Ricorda quello di Nora, in Sardegna. A Giardini Naxos due anni fa morì per un infarto, mentre stava nuotando, Felice Gimondi, mito del ciclismo. Già, il Mito, qui vivo, presente, attivo, permeato, tangibile. Una scultura di Teocle, che fondò la città nel 734 a.C. come prima colonia greca, dà lustro al suo creatore. Da qui, in antichità, ripartivano gli ambasciatori greci per 217946153_488264462144742_1280878621243170566_n.jpgtornare in madrepatria. Giardini, una lingua di ristoranti e alberghi, è devota alla Madonna Raccomandata. Nell'Italia del nepotismo e delle conoscenze, anche la Vergine Maria, prima di essere Assunta, deve essere necessariamente Raccomandata. E' il mare di Taormina che si vede alta e illuminata e le sue luci sembrano altre stelle che punteggiano questo cielo corvino e fosco. Il mare è in città, la lambisce, la lecca, la carezza con una risacca che ora coccola, adesso impaurisce. La street art di ceramiche valorizzano i piccoli tunnel che collegano le strade: c'è uno squalo pinocchesco che ride e una scritta lì accanto, feroce e cruda: “Il mare sembra che ti culli invece ti vuole ingoiare”. Come non pensare a Collodi? O a Scilla e Cariddi, più vicine geograficamente, di flutti e marosi, di schiuma e bocche di pesci. Il panorama è morbido come le panelle al limone, il profumo nell'aria sa di pistacchio. Una chiesa celeste, che sembra un'astronave con il tetto a punta in stile tirolese, campeggia come fosse appena atterrata.

In Sicilia219352940_489373215367200_8993088824436537800_n.jpg Mito e Teatro sono spesso a braccetto, pensiamo all'Inda di Siracusa come alle Orestiadi di Gibellina. Dopotutto gli scenari naturali si prestano, i fondali storici esaltano le storie millenarie. Difficile è riproporle in modo contemporaneo, come forma e durata, come impatto culturale, senza pesantezza. Ci è riuscita la rassegna “Interpretare l'Antico”, (cinque piece tra il 31 agosto e il 15 settembre) a cura della Rete Latitudini del presidente Gigi Spedale, nel compito di rendere l'universalità del teatro greco, con i suoi caratteri e le sue metafore, libera da quella patina di polvere che spesso, in occasioni simili, soffoca la partecipazione, imbriglia le retine, non scuote ma inciampa, non cattura ma provoca sonnolenza. Antico, appunto, e non vecchio, una sottile, fondamentale differenza. Il "Festival Naxoslegge", diretto da Fulvia Toscano che, con il Parco Archeologico di Naxos diretto da Gabriella Tigano, hanno invitato Spedale ad organizzare la rassegna all'interno del più ampio contenitore "Comunicare l'Antico".

E il Mito declinato al pop, nella sua doppia accezione, moderna e popolare, è il mantra, la barra dritta che la regista Cinzia Maccagnano mette, con rigore e coerenza, nei suoi lavori. Qui a Giardini Naxos abbiamo avuto l'occasione di poter vedere, a cura della sua compagnia, la Bottega del Pane formata da attori siciliani (un bel cast compatto, esperto e combattivo: oltre alla regista, Marta Cirello, Raffaele Gangale, Dario Garofalo, Luna Marongiu, Cristina Putignano, aiuto regia Maria Chiara Pellitteri) formatisi alla scuola dell'Inda ma adesso con sede a Roma, due suoi pezzi, il nuovo “Orestea. Agamennone + Coefore” da Eschilo, il secondo “Dyskolos”, da Menandro. L'uso delle maschere, costruite sapientemente dalla Marongiu, hanno esaltato e colorato entrambe le prove, sfavillanti, eccentriche, eccitanti, piene di sprint e grinta, pungenti e vive. L'artigianalità si vede, si sente nelle movenze, nella costruzione delle scene, nell'impianto registico, nella forma funzionale al testo, nell'approccio, nei costumi, quell'artigianalità che ci porta dentro il teatro di giro, dentro le ditte, dentro il fare di mani che vanno di pari passo con le idee. Se del Mito le storie sono per lo più note, anche solamente a grandi linee, la sfida è rendere il “recinto” dentro il quale queste si muovono compatibile con i tempi attuali, malleabili, commestibili, fruibili, il che non significa svilirle o semplificarle o annacquarle o ridurle grossolanamente. Quello della Maccagnano, visionario ed effervescente e immaginifico, è un lavoro di cesello e ripulitura, di finezze e piccoli tocchi, di arguzie e acume per un risultato pieno, soddisfacente, di ampio respiro.

Se appunto la storia di Agamennone è conosciuta, serve mutare forma, qui non sinonimo di superficiale, per far sì che le vicende millenarie riescano ancora a colpire i nostri immaginari. Ecco 220410266_489387438699111_6253618095702737190_n.jpgche il coro arriva da una piccola altura, in una sorta di flashback che ci fa materializzare immediatamente Spoon River con quel “dormono sulla collina” come si fossero (o fossero stati) improvvisamente risvegliati per raccontarci nuovamente le gesta della tragedia di Oreste e Clitennestra. Armati di bastone, che battono come il Maestro Cuticchio per dare il ritmo a strofe e frasi, per appuntare e sottolineare momenti, per enfatizzare contrasti in coreografie, adesso come lance, ora come microfono alla Freddie Mercury, vorticano attorno ad un semplice tavolo che si fa tomba e sarcofago (ma anche baratro, pozzo artesiano di Alfredino, congelatore). Un coro di maschere che, con lo svolgimento della piece, prendono corpo e vita, assumono sembianze riconoscibili, ci parlano ruffiane, ci interrogano, ci bisbigliano: la mano nel doppiopetto come Napoleone, le scarpe dai colori sgargianti tambureggiando in danze rituali. Ecco che le maschere ci ricordano personaggi della Prima Repubblica: ci vediamo, in declinazioni del tutto personali, De Michelis e Forlani, Craxi e Pannella, De Mita, una che potrebbe essere un mix tra Funari, Forattini e Nedved. Guizzano. Scintillano. E dal coro si stacca Clitennestra in stile nipponico con un abito rosso fiammante, tra un burqa e la protezione da apicoltori, con un copricapo allungato a metà strada tra Nefertiti e Marge Simpson, Agamennone ha una maschera che ricorda lo stile africano e barba lunga dorata ittita come spaghetti di grano arso ad essiccarsi, Cassandra invece ha un aspetto più orientale, Egisto ha un busto di addominali da football americano, Oreste ricorda un mash up di luccichini tra Elvis e i Righeira. Maschere che una volta tolte diventano teste impiccate e impalate a fare scempio e fondale, terrore e monito.

Ancora 220453490_489373242033864_8657751269466869094_n.jpgmaschere in “Dyskolos” (misantropo; di Menandro) stavolta più vicine alla forma dei Playmobil. Gli attori stanno di schiena su piccole panche, come in panchina in attesa di essere chiamati a giocare (play in inglese è sia recitare che giocare) nel campo-agorà scenico. Ogni commediante ha attorno a sé quattro-cinque maschere per entrare ed uscire dai ruoli. La Bottega del Pane ha realizzato “Dyskolos” in un formato veramente ristretto e compatto (5 minuti) per la partenza del Giro d'Italia del 2019. E' un brulicare vorticoso e dolce è naufragare tra questi volti: la fanciulla balla flamenco e parla come Lino Banfi, il pretendente ricco invece sciorina un dialetto vagamente emiliano, il padre burbero, che pare un disegno da manga giapponese, ricorda nel suo bofonchiare onomatopeico e gutturale l'emigrante Ametrano che torna dalla Germania nel Sud Italia per votare in “Bianco, Rosso e Verdone” ma anche un aborigeno che soffia nel suo didgeridoo, il fratello contadino somiglia a Beppe Fiorello, un pastore cinesizzato ha la giubba circense, la vecchia invece ha una faccia che sembra appena uscita dal Cunto dei Cunti, altre maschere invece ci hanno sollecitato le Teste di Moro, i grandi vasi di ceramica siciliani, mentre il padre del futuro sposo ha i tratti iconografici del filosofo con barba canuta, in una miscela tra Umberto Galimberti e Renato Carpentieri in “Caro Diario”, e porta con sé “un ombrello di carta di riso e canna di bambù” di battiatesca memoria (dopotutto Milo, suo paese, è vicino). Con la Bottega del Pane il Mito si fa companatico.

Tommaso Chimenti 12/09/2021

TODI – Todo Todi. A misura d'uomo. Si respira passeggiando dalla Cattedrale fino alla Chiesa di San Fortunato, il sole colpisce le pietre secolari creando ombre antiche. La musica classica in filodiffusione, un attore vestito da Dante declama alcuni versi, mentre due matrimoni si fanno fotografare sulle scalinate accompagnati da auto d'epoca. L'atmosfera è retrò in questa provincia sana dove l'occhio si perde nel panorama dolce di ulivi, tetti di embrici e vigne al sapore di Sagrantino corposo che asfalta lingua e palato. Pur essendo un piccolo centro l'arte sgorga da ogni strada: maestri scultori, ceramisti, artisti pittorici qui hanno le loro botteghe. Il turismo straniero è mordi e fuggi come addentare una bruschetta con il tartufo. Due fondazioni internazionali hanno qui 240860133_10215655330014679_3706660520215484974_n.jpgla loro sede: quella dedicata a Beverly Pepper, i cui interventi scultorei nel parco che sovrasta la città ricordano giganteschi cacciaviti arrugginiti installati tra un campo da basket e la torre della fortezza che proteggeva la città, e quella di Arnaldo Pomodoro, al quale è dedicata una mostra, con l'imponente foglia-osso di seppia e il labirinto con i visori, e le quattro colonne in piazza a coprire e nascondere, a disegnare ed esaltare la facciata della cattedrale. Arte da ogni poro. Due festival cinematografici e due teatrali, il Bengodi. Da cinque anni affiancato al “Todi Festival” (28 agosto – 5 settembre), per la direzione di Eugenio Guarducci, con gli spettacoli on air al Teatro Comunale, è nato e si è consolidato il “Todi Off” diretto dal regista Roberto Biselli e dal suo Teatro di Sacco perugino (con la preziosa collaborazione di Biancamaria Cola, factotum presente, figura centrale) con un programma parallelo in scena al “Nido d'Aquila”, spazio alternativo con uno degli scorci più suggestivi di tutta Todi tra colonne e tramonti, una dolcezza infinita che ci avvolge. Oltre agli spettacoli il "Todi Off" organizza laboratori d'alta formazione per attori, quest'anno erano presenti Vetrano/Randisi, Liv Ferracchiati, Francesca Della Monica. Il simbolo emblema, il segno distintivo della rassegna è quest'asola bucata da due aghi-lance che potrebbe sembrare anche una barchetta da migranti alla deriva, sempre firmato da Pomodoro. E ancora incontri letterari con gli autori e questa continua scoperta rappresentata da “Todi Open Doors”, antri, cortili, corridoi, androni di palazzi invasi dall'arte contemporanea, dalle galline metalliche a statue classiche di pane, ad ogni angolo per meravigliarsi, per finire con il concerto di Loredana Bertè. Todi Caput Mundi. I tuderti non possono certo lamentarsi. E nemmeno gli umbri.

Appena scende la notte la temperatura cala vertiginosamente, l'estate sta finendo, “L'inizio del buio” ci coglie sempre impreparati nel passaggio dall'assolato all'oscuro. Basato sulle parole veltroniane che, tassello dopo tassello, storicizza le fasi italiane e i nostri momenti di declino, l'omonima piece ha il pregio di riunire due eventi, il rapimento di Roberto Peci, fratello del brigatista pentito Patrizio, e la caduta negli abissi di un pozzo del piccolo Alfredino. Che Peci e buio hanno già una radice sintomatica sintattica comune. Il nero dei cinquantacinque giorni di clausura e sequestro e interrogatori e processo del popolo di Roberto (poi è stata ristabilita la verità storica e la sua lontananza e non aderenza al movimento terroristico rosso) e il nero negli occhi in questo buco freddo a Vermicino del piccolo Alfredo. Le vicende, soprattutto quelle del piccolo, sono purtroppo note (e continuano a commuovere a distanza di quarant'anni), le abbiamo già viste, sentite, lette Inizio-del-buio.png(in questo periodo una serie Sky su Alfredino come la piece che porta il suo nome di Fabio Banfo, così come il testo teatrale di Emiliano Brioschi “Life” sull'esecuzione Peci), ma metterle in correlazione, proprio perché scaturite lo stesso maledetto giorno, il 10 giugno 1981, è un'operazione lampante che nessuno aveva ancora cucito assieme. La narrazione dei due attori (Giancarlo Fares e Sara Valerio) è frontale, sulla testa hanno una decina di lampadari che colano come meduse per illuminare le storie, per far luce sotto la benda sugli occhi del primo, tra il fango di quel foro alle porte di Roma il secondo. Non ci vogliamo soffermare sulle storie, come detto note, né sulla recitazione che, diligente, riporta, scansiona cronologicamente in un report ma che niente aggiunge ai tanti programmi televisivi di approfondimento che in questi decenni sono fioriti. E' l'inizio e la fine che ci hanno colpito, che hanno attirato la nostra attenzione: prima l'espediente narrativo di identificare la piccola televisione arancione psichedelico, anni '70-'80, come un neonato nella sua culla e la chiusa che sbiadisce il pathos degli eventi narrati. Sembra quasi che Veltroni, questa è la sensazione, abbia preso a pretesto queste due vicende, così lontane e così vicine, per spiegarci come la televisione, soprattutto quella privata e commerciale (gli anni '80 vedranno il boom delle reti berlusconiane), ci abbia cambiato, impoverito, mutato ovviamente in peggio. Una tv volgare che ci ha involgarito, una tv stupida che ci ha istupidito, una tv violenta che ci ha affamato come lupi e incarognito come iene. Una tesi che potrebbe essere anche giustificabile ma non partendo da questi due eventi delittuosi, il primo commesso dalle BR (che ricordiamo qualcuno definì “Compagni che sbagliano” quasi giustificandone bonariamente l'operato), il secondo dall'incuria, dalla superficialità, dalla mancanza di regole e attenzione. Per colpire la televisione e il suo immaginario, questo ci è sembrato, per colpire la deriva del tubo catodico alla quale siamo stati esposti come gli abitanti di Chernobyl alle radiazioni, prendere in prestito, per puro espediente letterario, la giustizia sommaria di gruppi violenti e la morte atroce e straziante di un bambino nel freddo di una fessura a decine di metri sottoterra nella pancia della terra nel mezzo del nulla, ci sembra francamente eccessivo. La battuta finale, in dialetto romanesco, riesce in un attimo fatale a raffreddare cuore e spirito, a gelarci la commozione accumulata, a rattrappire la nostra partecipazione emotiva.

Tu mi fai girar come fossi un “Bambolo”, anche se quello messo in scena dalla regia di Giampiero Judica per la drammaturgia di Irene Petra Zani rimane fermo, immobile, statico. it_15-09-il-bambolo-quadrata_original.jpgUn testo che è una frattura, una ferita lancinante questo amore squilibrato, questa unione di disagio, questa coppia formata da una ragazza (Linda Caridi) e il suo uomo gonfiabile. La ragazza si è rifugiata in questo amore univoco, a senso unico, antropomoforfizzando un ammasso di plastica e aria dalle fattezze umanoidi maschili; con lui parla, crede di guardarsi, crede di capirsi. E' evidente lo stato prostrato di sofferenza, l'acre dolore che, grottescamente, sprizza da ogni scena ossimoricamente colorata. Da questa situazione limite, quasi hikikomorica, da questa clausura volontaria avendo come unico referente di confronto un oggetto inanimato sul quale poggiare sentimenti e sensazioni, risposte e amore a specchio (“la cosa più bella è parlare con te”), passiamo  al tema anoressia che potrebbe sembrare abbastanza forzato. Dalla solitudine al rifiuto del cibo. Ma non è finita qua perché, proprio quando la piece sembra concludersi, dopo una prima parte visionaria e rarefatta, arriva il carico e tutto torna ad essere realistico. L'autrice ci vuole spiegare il perché dell'anoressia e della solitudine incasellando in ordine tutte le componenti sfiorate, dandoci tutte le risposte alle domande aperte. Ma forse il teatro deve porre punti interrogativi non fornire soluzioni. Quindi veniamo messi al corrente che tutto è dipeso dalla violenza che il padre le ha usato, dalla depressione della madre: il teatro si sgonfia così come il bambolotto.Federica Fracassi 5Luigi Di Palma scaled

Ecco un testo, ecco una scena, ecco un'attrice, ecco una regia, signori ecco il teatro. Su un piano sdrucciolevole, in profonda discesa pericolosa, inclinato, scivoloso e faticoso, emblema metaforico e simbolo sia interiore di caduta sia socialmente come argomento da affrontare, una donna (una meravigliosa e intensa prova di Federica Fracassi, Premio San Ginesio '20 e Premio Hystrio '21, finalista Premio Le Maschere '21) vive la sua crisi di mezza età, soffre e affronta la sua “Febbre” che la sconquassa, la sobbalza, la smuove, la scuote in profondità. Una crisi che serpeggia nella nostra società che ci indora la pillola, che ci fa avere interessi che ci spingono lontano dalle cose che veramente contano, che ci fa parlare di tv, vestiti e moda allontanandoci da noi stessi, dall'essenza interiore, coscienza o spirito, che dentro continua a pulsare seppur soffocato da milioni di sovrastrutture che tentano ogni giorno di annegarlo, di toglierci la terra da sotto i piedi. Il testo dello statunitense Wallace Shawn, per la regia di Veronica Cruciani (un bel binomio di donne, regia-attrice, anche se lo spettacolo in precedenza negli USA e a Londra era messo in scena da uomini; ma la scelta ci pare azzeccata), ci porta dentro il delirio di una cinquantenne borghese che, tra momenti di lucidità dove rafforza e difende la sua idea di essere parte integrante del Primo Mondo alternando attimi di apertura, solidarietà e presa di coscienza di avere le mani insanguinate del dolore di milioni di persone sparse nel Globo, si sdoppia bipolarmente scivolando dentro l'abisso di ciò che è e di ciò che avrebbe voluto perseguire.

E' una progressiva caduta del personaggio infilandosi dentro il buco nero delle nostre vite superficiali e di facciata mentre la gente muore come mosche per garantire a noi aVeronica Cruciani.jpgperitivi e divertimenti, svaghi e lustrini che adesso vediamo e consideriamo come normalità e non come surplus e benefici. La Fracassi ci tiene in scacco fin dall'inizio perché anche noi, come il suo personaggio, siamo colpevoli o quantomeno complici di un Sistema che poi fingiamo di combattere e condannare con le adozioni a distanza, le elemosine, i cibi bio, l'accoglienza dei migranti, il non comprare olio di palma, andare al cineforum per constatare attraverso documentari la povertà e la violenza di alcuni Paesi e indignarci e commuoverci prima di andare a cena nel ristorante di grido. Ma siamo anche pedine, ingranaggi di una fabbrica più grande dalla quale, se non con azioni eremitiche e di rottura totale con il nostro mondo, rinnegandolo, che difficilmente riescono a liberarsi, a spezzare le catene dell'ipocrisia nella quale siamo cresciuti e imbevuti. Potremmo definire questa figura una radical chic di sinistra con profonde crisi valoriali che le provocano squilibri interiori, nella claustrofobia di questo bagno che gronda sangue (dentro la vasca-liquido amniotico coperta e imbrattante di rosso-corrida ci è arrivata in soccorso l'epifania dell'iconico “La morte di Marat” di Jacques-Louis David). La febbre la porta a delirare tra discorsi da aperitivo, “Mi piacciono i quadri di Matisse, mi piace la bellezza, mi piacciono le tazzine di porcellana” e la critica sociale, tra il cinismo di “Bella la sensazione di avere soldi in un paese povero” e il pensiero che vola alle guerre civili (non può non venire in mente Kabul). Un testo acido che non ti lascia tranquillo, che punge continuamente, scomodo perché ci mette davanti ad uno specchio indicandoci chi siamo, chi siamo diventati. Lo scompenso non può non attanagliare chiunque si fermi un attimo a pensare e a riflettere per poi riprendere la nostra esistenza di appuntamenti ed eventi irrinunciabili prima della prossima crisi. Alterna il pensare alle torture con la corrente alla voglia di gelato, gli stupri sistematici delle ragazze e la ricerca di raffinatezza e morbidezza. “Abbiamo bisogno di conforto, di consolazione” ci dice e in quell'attimo è la Pietà michelangiolesca e nello stesso momento è sia la Madonna che tiene in braccio il figlio, sia Gesù abbandonato sulle ginocchia della madre. Confessa: “Faccio tutto quello che posso per essere una buona e brava persona” ma qualcosa si è rotto dentro e vomita veleno: “La nostra vita non ha una giustificazione”. “I diritti degli uomini devono essere di tutti altrimenti chiamateli privilegi” sentenziava, facendoci vedere il marcio insito in ognuno di noi, Gino Strada.

Tommaso Chimenti 02/09/2021

BOVA - “La dignità è al sommo di tutti i pensieri ed è il lato positivo dei calabresi” (Corrado Alvaro). La Calabria è una madre arcaica e scontrosa e rugosa e curva che fa allontanare i propri figli per mancanza di domani e da lontano li ama ancora più forte ed è ricambiata ancora più visceralmente. Piange il cuore vedere la ferrovia che deturpa la costa, che taglia le spiagge. La terra è bruciata, la terra continua a bruciare. In alto volteggiano i Canadair che viaggiano a coppia facendo la spola tra il mare e queste montagne di stradine che si arricciolano, si inerpicano, si aggrovigliano simili alle salsicce che girano su se stesse come liquirizie, con il finocchietto selvatico e il piccante (che qui è una religione, una morale e un way of life). Questi aerei gialli e rossi vorticano nel loro brulicare tra le nuvole superando gli spuntoni di roccia che affiorano nello skyline che sembrano dover bucare e sgonfiare il cielo. Bova (da non confondere con Bova marina, qui gli abitanti ci tengono alla separazione netta) è a 900 metri sopra il livello del mare e, arrivandoci, la sensazione è quella del presepe 

236439950_10215627041667488_5028595219927995748_n.jpgda cartolina. Gli arbusti secchi ai lati della strada, l'erba ingiallita, i campanacci di pecore e capre che rincorrono l'ultima ombra nella vallata. Il silenzio è secolare, ti viene spontaneo di acquietare i pensieri banali di cittadino e stare in ascolto, di un fruscio, di un gemito, di un verso portato qui da chissà quale parte dell'orizzonte. La foschia opacizza il mare là in fondo. Quello che vedono le retine è metafora di quello che esprime l'intorno: rovi, sassi smangiucchiati, ferri arrugginiti che spuntano, abitazioni abbandonate alle sterpaglie, il ronzio costante di insetti alla ricerca di qualcosa. E' Aspro questo Monte. Ma nel selvaggio incolto ecco anche i fichi dolcissimi come le more che tingono di macchie malate e chiazze viola il cammino.
All'entrata del paese non può non colpire la gigantesca locomotiva, comprensiva di un vagone, che intasa la piccola piazzetta e relega gli anziani a giocare in tavolini minuscoli ed emargina i bambini a giocare attaccati a questa ferraglia lucente nera bordata di rosso. A Bova non c'è neanche la stazione, non ci può essere. Istituzione di Bova è il “Lestopitta”, il ristorante dei gemelli Mimmo e Nino con le loro pizze fritte farcite con melanzane e peperoni e capocollo e formaggio e il vino nero che qui tengono in fresco mentre altrove sarebbe una bestemmia. Un paese di salite e discese, da polpacci buoni, un borgo dove le case sono costruite proprio sulle rocce e il muschio le adorna, le colora di giallo, le pitta granuloso e ruvido. Salendo si arriva, passando per la Grotta degli Innamorati, fin su al Castello Normanno del quale rimangono alcune rovine e dal quale si vede un teatro all'aperto purtroppo inutilizzabile (chissà da quanti anni) perché in alcuni punti hanno ceduto le assi del palcoscenico; fare e vedere teatro quassù sarebbe una meraviglia per lo spirito, esperienza unica per attori e pubblico. A Bova tutto è slow e anche il telefono non prende e la parola “wifi” viene percepita con sospetto se non proprio come una vera minaccia all'integrità e all'identità del luogo. E' proprio un valore aggiunto quello di non poter essere connessi a null'altro che non sia quel luogo e quel tempo nel presente. Per le stradine sotto i piedi scrocchiano croccanti gli aghi di pino che sembra di calpestare un pane appena sfornato, tra i muretti a secco e le ringhiere di tronco. 

Salvatore-Arena-e-Massimo-Barilla-Mana-Chuma-Teatro-1024x711.jpg

Da venti anni vengono qui in inverno a provare i loro spettacoli la compagnia Mana Chuma Teatro (il drammaturgo e regista Massimo Barilla, l'attore e regista Salvatore Arena, il musicista Luigi Polimeni) gruppo metà siciliano e metà calabrese, e qui hanno deciso di portare la prima edizione del loro “Epic Festival” (16-24 agosto; per il futuro bisogna lavorare meglio sul pubblico) dislocato tra piccoli cortili, aie, piazzette, parchi. Siamo nella Calabria Grecanica ed anche i cartelli sono in doppia lingua: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca”, sosteneva Cesare Pavese. Nelle parole di Barilla contenute nel suo volume di poesie “Ossa di crita” (creta, argilla ma per assonanza anche grida, suggestione del tutto personale) stanno i termini e le atmosfere che identificano questa terra appuntita e solidale, che ferisce e abbraccia, zolle che producono cicoria e cardi così come la dolcezza amara del bergamotto dal profumo intenso. Ci sono le mani, i sapori, i saperi, i graffi, i chiodi e il vento, il padre, i denti, il vino, il sangue, le orme, il dolore, la carne, la pietra, la polvere, il fango, le ombre, la madre. Un libro, che qui è diventato performance, in doppia lingua, calabrese (o meglio reggino) e italiano a fronte. A strizzarle ne esce l'odore secco del sole che ferisce come arpioni. Ad accompagnare Barilla il musicista e compositore Luigi Polimeni che maneggia il Thremin, strumento che emana frequenze, carezzandolo, lisciandolo, massaggiandolo come se toccasse una pelle nuda cercando l'armonia migliore, l'onda che fa rima, l'aria che si sfarina, muove i palmi nell'aria trovando l'invisibile, sposta consonanze di materia volatile che noi scettici non possiamo decodificare sfiorando quell'asta di barca a vela al tramonto, bianca come pinna di squalo in controluce. E' una magia quella che provoca, surfando sul niente, donando senso, tagliando il silenzio. Quella di Barilla è una poesia tattile e naturale, di smozzicamenti e morsi, parole artigiane, di brace, di occhi stretti, di amore e morte.

Di spine è pieno lo sguardo, tra i fossi, tra i campi. E “Spine” (testo e regia delle due anime dei Mana Chuma, e nuova produzione), drammaturgia onirica e trasognante che, in loop, lascia i toni Gli-attori-Mariano-Nieddu-Stefania-De-Cola-e-Lorenzo-Pratico-foto-di-Felice-DAgostino-15.jpgrealistici per affondare e approdare in una dimensione impalpabile dove tre personaggi, anche scambiandosi i ruoli, se ne stanno reclusi, senza via d'uscita che non sia quella di ripercorrere gli accadimenti, di perpetrare quel dolore subito per giungere ad una nuova consapevolezza. In una sorta di taverna senza tempo l'ostessa Maddalena, il Capitano Lucio e il Becchino danzano e avanzano senza posa tra queste quattro mura che asfissiano il pensiero, si arrovellano sugli stessi argomenti in un ripetersi che torna e ritorna senza lasciar loro nessuna possibilità di movimento che non sia quella di rivivere gli eventi, nuovamente raccontarseli, riassorbire quel tragico dolore addosso, come veleno, senza riuscire a digerirlo ma solamente a ripercorrerlo, senza perdono, senza salvezza, senza assoluzione. E non si sa se siano le spine della vita che li hanno colpiti a fondo, in profondità, oppure se siano proprio loro delle spine che ormai, soltanto muovendosi nel mondo, feriscano chi gli sta accanto ferendosi a loro volta. Ogni giorno che cala gli stessi gesti sincopati, le stesse battute in questo angolo di Purgatorio che non purifica, in questa parentesi che li punisce ad una sofferenza eterna senza redenzione né possibilità di liberarsi del peso. Stonano leggermente le parti parodistiche, che sfociano nel ridicolo, troppo prolungate e forzate. Maddalena (come l'amante di Cristo; Stefania De Cola puntella le scene con eleganza e forza, tempra salda) e Lucio (Lucifero, portatore di luce; Lorenzo Praticò ha cambi di registro importanti) sono/erano una coppia, che adesso vive soltanto di recriminazioni e accuse, mentre il Becchino/Caronte (Mariano Nieddu sempre una garanzia) seppellisce i morti in questa bolla spazio-temporale, ed ha dato l'estremo saluto anche al loro figlio piccolo. E' questo il nodo e il moto verso cui tende tutta la forza e la violenza del testo, tutta la tensione di parole rimaste imbrigliate, zeppe di non-detto che ciclicamente tornano in questo pericoloso gioco a tre (assimilabile più al “Woyzeck” di Buchner che al molto citato “Otello” shakespeariano) che rivivono all'infinito la sequenza ultima, questa processione faticosa e snervante che li taglia, li spezza, li sfinisce, li prosciuga, li annichilisce, li svuota in questa condanna perpetua, immateriale e permanente: la peggiore di tutte le pene, avere la possibilità di riviverla senza poter cambiare il corso delle cose nella loro condizione di clausura.

“I calabresi sono gente dal carattere temprato come l’acciaio” (Antonio Gramsci).

Tommaso Chimenti 22/08/2021

TINDARI - “Legandoti a un granello di sabbia, così tu nella nebbia più fuggir non potrai, ti voglio tenere legata” cantava Nico Fidenco nel 1961. E se non fosse una canzone d'amore, e se al posto del cantautore innamorato il protagonista di questa ballata fosse, in una forzatura letteraria-provocatoria, proprio lo Stato che può ingabbiarti e tenerti appeso, inchiodato ad un croce, stretto ad un sottile granello di sabbia, perché siamo pulviscolo nelle mani di un ingranaggio più grande di tutti noi, siamo minuscoli microbi dentro macchinazioni e macchinerie delle quali non capiamo i meccanismi e nei confronti dei quali risultiamo sempre schiacciati, perdenti, fragili? Ma la giustizia, anche se lenta, alla fine arriva: “Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l'uguaglianza o la giustizia. gul-2.jpgSe sei un uomo, te la prendi” arringava Malcolm X. E quello di cui stiamo parlando è un Uomo, necessariamente con la maiuscola, perché non si è arreso, perché non è fuggito, perché non è scappato sapendo di essere nel giusto, che lottando se l'è presa la libertà, con i denti, a morsi. Quando entri nei meandri pericolosi da Castello kafkiano di carte bollate e burocrazia della Giustizia siamo tutti “Come un granello di sabbia”, infinitesimali, briciole, insetti sacrificabili.

E questo è il titolo dello spettacolo della compagnia Mana Chuma Teatro che da anni, a cavallo tra Messina e la Calabria (per loro il territorio è un unicum e si muovono indifferentemente nell'una e nell'altra provincia e regione) applica alla scena drammaturgie che analizzano il reale e approfondiscono il sociale. Come questa storia, quella di Giuseppe Gulotta, una storia siciliana, una storia tutta italiana, “è una storia di periferia, è una storia vestita di nero, è una storia da basso impero, è una storia mica male insabbiata, è una storia sbagliata, è una storia da carabinieri”, come intonava il sempre lucido De Andrè parlando di Pasolini. Una storia non soltanto di mala giustizia ma di uomini dello Stato deviati che hanno falsificato prove, depistato, fatto confessare con la tortura, trovato indizi inesistenti per condannare innocenti coprendo, secondo alcune teorie, Gladio, i Servizi Segreti, la Mafia. Siamo nel '76 quando due carabinieri vengono uccisi all'interno di una piccola caserma ad Alcamo, in provincia di Trapani. Si può immaginare che i colpevoli vadano cercati in certi ambienti, invece è molto più semplice, per chiudere il caso, EC4A7024 copia.jpgprendere cinque poveri ragazzi diciottenni e farne dei mostri quando con questa vicenda non avevano assolutamente niente a che fare. Giuseppe Gulotta è uno di loro; degli altri uno verrà suicidato (Pinelli docet), un altro morirà in carcere, due fuggono in Brasile, lui è rimasto 22 anni in carcere e per 36 ha avuto la spada di Damocle sulla testa, tra rinvii, arresti domiciliari, nuovi processi e revisioni, da parte della Giustizia. Entrato nelle pieghe dei tribunali e del carcere nel '76, grazie ad una confessione estorta con la violenza e a verbali taroccati, e uscito, assolto e innocente (e con un grosso risarcimento per i danni irreversibili subiti moralmente e materialmente con il quale ha messo in piedi una Fondazione per aiutare altre vittime di errori giudiziari) nel 2012. Neanche dieci anni fa. Derubricato con la dicitura “errore giudiziario”. E ancora, dopo processi riparatori e dopo che lo scandalo è stato certificato e acclarato, ancora alcuni lo ritengono complice e colpevole: “Se noi conosciamo che errare è dell'uomo non è crudeltà sovrumana la giustizia?” scriveva un illustre siciliano, Luigi Pirandello.

“Come un granello di sabbia” (arrivato ad oltre 100 repliche, vincitore di In-box '16 e Premio ANCT '19) di Massimo Barilla (anche poeta di valore) e Salvatore Arena con sulla scena quest'ultimo appassionato, che si dona impegnato e veemente, non è la semplice ricostruzione del caso cronologico degli eventi, che comunque avrebbe avuto una valenza positiva per far conoscere la storia incredibile di Gulotta, ma ci porta dentro i pensieri del protagonista, il suo intimo, le sue paure. Arena, potente, sudato e indagatore, si muove tra due installazioni da vivere e abitare (dell'artista Aldo Zucco), una sorta di poltrona arcaica a doppia seduta, quasi trono di una giustizia che giudica con due pesi e due misure, sovrastata da un'asta alla cui sommità si issa un megafono silente e muto che non annuncia la verità né, degregorianamente, che “la guerra è finita”. Alla sua destra una scultura antropoforma, tra un Pinocchio stilizzato (anche nella favola di Collodi d6f42f3ab235ffb539856471cee141ee_L.jpgc'erano i Carabinieri) e una strega da ardere sul rogo dell'Inquisizione, da bastonare in caso di tortura. Sembra forse di stare dentro una ricostruzione del G8, dentro la Diaz, l'interrogatorio a Stefano Cucchi, fino ad arrivare a Giulio Regeni. “Piove sul giusto e piove anche sull'ingiusto, ma sul giusto di più perché l'ingiusto gli ha rubato l'ombrello” spiegava Charles Bowen rendendo lampante che la legge è uguale per tutti ma per qualcuno un po' di più. Nel collegamento tra giustizia e teatro ci è tornato alla mente Donato Ungaro, il vigile urbano-giornalista (la sua storia l'ha raccontata il Teatro delle Albe nella piece “Va pensiero”) che, con le sue indagini, e per questo mobbizzato e licenziato, aveva fatto commissariare il comune di Brescello, sciolto per mafia.

Siamo nel meraviglioso anfiteatro di Tindari, del quarto secolo avanti Cristo, sotto il mare buio e i laghetti tra le dune, qualche luce di pescatori spunta in questo nero dove si mischiano cielo e acqua in una indefinita pennellata (o)scura. Le cicale non interrompono nemmeno per un attimo il loro canto che sembra un grido d'allarme. Sono giorni di scirocco, la temperatura non scende sotto i trenta gradi, l'Etna continua a gorgogliare rosso. Arena sale le scale in ferro e il rumore è quello classico delle porte che si chiudono e sbattono in carcere alle tue spalle, delle chiavi che girano e serrano il mondo là fuori con quello dentro. Un uomo solo sul palco come era un uomo solo Gulotta contro questa macchina che lo schiacciava a terra impotente. Il respiro è affannato. Comincia chiedendo alla platea: “Come si conta l'aria?” e lì, in quel preciso momento, ci sentiamo chiamati in causa, complici e giudici, come una giuria popolare che si è voltata dall'altra parte. Una storia dalla quale ne usciamo tutti un po' sconfitti perché il “lieto fine” ha portato via a quest'uomo, e alla sua famiglia, oltre trent'anni, proprio quando la vita stava per cominciare con i sogni di ragazzo, di futuro, di indipendenza, di libertà, lui che aveva fatto il concorso per entrare nella Guardia di Finanza. Come sarebbe cambiata la sua vita? Che cosa avrebbe fatto se non fosse caduto dentro la ragnatela appiccicosa delle maglie della giustizia? Gulotta, presente alla replica come alla maggior parte delle rappresentazioni, adesso ha voglia di raccontare a tutti la sua storia, ha scritto un libro, gira le scuole, ha una missione, è diventato icona di se stesso, portatore sano di valori, e ogni volta che la racconta si libera di un pezzetto di peso, quel macigno che comunque non andrà mai del tutto via dai suoi occhi, dalle sue mani che cercano un'altra sigaretta, quel peso che rimarrà nei sogni e negli incubi ma che, come veleno, deve essere espulso ogni giorno, goccia a goccia, per respirare in maniera più piena e limpida l'indomani. Gulotta adesso è un uomo pacificato e rasserenato ma ugualmente c068bb5b71ab289d2ccaa4708bea965824905f47-salvatore-arena-png-13381-1537708112.pngnon dimentica e non ha paura di rievocare quei traumi che lo hanno segnato. Nessuno si senta escluso, perché tutti noi un giorno potremmo trovarci nella stessa situazione, da innocenti. Inutile dire “a me non può capitare”, lo diceva anche Gulotta che faceva il muratore, tutta la vita davanti e aveva una vespa per andare a fare il bagno al mare. “Poiché non si poteva trovare la giustizia, si è inventato il potere10-autore-Marco-Costantino©-copia.jpgchiosava Blaise Pascal.

Giorgio Bocca sosteneva che “dove la giustizia è credibile anche l'omertà mafiosa scompare” ma in molte zone d'ombra del nostro Paese appunto, visto che la giustizia non è affatto credibile e la fiducia nelle istituzioni è pari a zero, l'omertà ha vittoria facile. Arena, in una prova faticosa fisicamente e moralmente, è doloroso, si fa maschera che si contrae e corpo sul quale sembrano sorgere le spine e la sindone, le stimmate e le ferite non rimarginabili, un corpo che si fa sofferenza, vissuta anche sulla sua pelle, la fa propria, si fa attraversare da questa luce. Se, come diceva una sentenza latina, “Le cose evidenti non hanno bisogno di alcuna prova” in questo caso invece è più applicabile il detto che “La giustizia funziona per i criminali, la condanna per le persone oneste”. Una vittoria, la sua per l'accertamento della verità, che ci lascia un velo di malinconia, una patina di triste pessimismo; cosa può fare un granello di fronte alla schiuma dell'onda? Gulotta ci saluta con una domanda alla quale non sappiamo rispondere: “Quanti come me aspettano giustizia dal carcere senza avere voce?”. Il silenzio di Tindari c'inghiotte.

Tommaso Chimenti 11/08/2021

MONTICCHIELLO – “La Terra non è un'eredità ricevuta dai nostri Padri, ma un prestito da restituire ai nostri figli” (Proverbio dei Nativi d'America). 

Uno dei punti cardini del Teatro Povero di Monticchiello è sicuramente la memoria, il passato. Che ritorna. E non possiamo, parlando del presente, di questa 55esima edizione (dal 1967) del teatro in piazza ideato, progettato e messo in scena da una comunità, non pensare allo scomparso Andrea Cresti, regista e drammaturgo che per decenni ha tenuto le fila del progetto e del processo creativo di questa piccola società autonoma che grazie al teatro non solo non è morta ma si è rafforzata, consolidata e conosciuta (Monticchiello è Patrimonio Mondiale Unesco) in Italia e in tutto il mondo. E un altro doveroso omaggio va certamente a Paolo Coccheri, anche se il suo nome non può essere legato all'esperienza di Monticchiello, anche lui deceduto proprio in queste settimane, ideatore lucido e visionario del “Festival di Montalcino”, al quale il regista Manfredi Rutelli era particolarmente legato. La Toscana ha perso due grandi intellettuali teatrali.1 (14).jpg

Memoria, passato, futuro, si intrecciano inevitabilmente. Già la locandina di “Inneschi”, il titolo di quest'anno, contiene una bomba con miccia, all'interno della quale appare il nostro mondo in nero. Ma se apriamo ancora più lo sguardo, quella mina e quella Terra non sono altro che un occhio di un volto (forse artificiale) triste o perlomeno perplesso. Se nel passato (con Cresti) i testi vertevano più su temi di economia planetaria complicata, la coppia Gianpiero Giglioni e Manfredi Rutelli, preferisce da qualche anno parole più semplici, non saggi o trattati messi in bocca a paesani (che stonavano e non erano credibili) ma argomenti sempre complessi ma declinati ad una maggiore semplicità, flessibilità, comprensione. Stavolta è il cambiamento climatico, con le sue conseguenze disastrose, tra cui il Covid-19, e lo scontro generazionale tra chi ha cementificato a favore del capitalismo a discapito dell'ambiente, i nati nel Dopo Guerra nel boom industriale, e i ragazzi di oggi che si trovano a fare i conti con un mondo inquinato, distrutto, sempre meno verde, meno vivibile, con aria, acqua e sottosuolo tossici, messo in pericolo e che tende all'autodistruzione.

Dopo il tent1 (5).jpgativo, riuscito, dello scorso anno di fare del Teatro Povero di Monticchiello un viaggio itinerante tra gli angoli nascosti del borgo della Val d'Orcia, quest'anno si torna in Piazza della Commenda, proprio per intimo volere della comunità, quella “piazza” che per loro è il “teatro”, due termini che qui sono sinonimi. Tra gli spettatori anche due attenti gatti, uno bianco e l'altro rosso che hanno assistito anche a tutte le prove. I componenti di questo paese sono fragili per anagrafe ma non sono stati toccati da nessuna defezione a causa della pandemia. Attori non-attori per una drammaturgia e una messinscena collettiva forte proprio della condivisione, compatta e unita dal portare sul palco, come missione e way of life, le loro domande, i loro dubbi, i loro punti interrogativi sul presente.

Altra caratteristica del Teatro monticchiellese è il suo andare sul doppio binario del passato e dell'oggi come a dirci che il presente è solo una riproposizione ciclica di quello che è stato, pandemia inclusa, e che avendo superato le difficoltà di allora possiamo, senza abbatterci (come ha fatto questa piccola frazione di Pienza decenni fa quando rischiava di scomparire causa lo spopolamento e l'invecchiamento della sua popolazione), farcela anche oggi. L'importante è non camminare da soli, non sentirsi un'isola, cercare approdo e vicinanza negli altri. Si palleggia la Storia tra gli aerei che bombardarono questa zona nel 1944 e i cambiamenti climatici, tragedie esterne che mutano irrimediabilmente la vita degli uomini. Quella vita che ci porta a confrontarci con temi dei quali non conoscevamo l'esistenza e ci costringe a cercare soluzioni per continuare a sperare, a sopravvivere al nostro tempo. Dobbiamo invertire la rotta che ci sta portando all'autodistruzione. Intanto un cane abbaia in audio rabbioso in fondo alla valle, è quella minaccia della quale se ne sente l'eco e il riverbero ma che risulta invisibile (come il virus) e quindi difficilmente contrastabile. L'innesco di “Inneschi” (dal 31 luglio al 15 agosto) è questa bomba-vaso di Pandora ritrovata sul territorio, un qualcosa che covava nella pancia della terra, che macerava e macinava, un veleno che adesso, una volta scoperchiato, può esplodere, letteralmente e metaforicamente.1 (17).jpg

Anche nella finzione scenica monticchiellese, ogni attività viene chiusa ma, a differenza dei nostri mesi passati, quasi un ossimoro, qui le persone sono chiamate a stare fuori (e non chiuse in casa come nel lockdown) perché proprio dall'interno, da noi stessi, dalle nostre scelte sciagurate, che siano la guerra come l'inquinamento e il deforestamento, il pericolo può deflagrare da un momento all'altro. Anche se il boom ancora non c'è stato, la miccia è già accesa e aspettiamo soltanto il crack definitivo per prendere degli accorgimenti validi. Dobbiamo sempre trovarci davanti all'emergenza e al dramma e mai prevenire le sciagure. Ci è venuta alla mente la serie tv scandinava “Katla” dove la cenere di un vulcano ha coperto2 (13).jpg una cittadina islandese risvegliando antichi esseri dal ghiaccio. La bomba è qualcosa che torna a galla, che avevamo nascosto sotto il tappeto pensando che, non vedendola, come fa lo struzzo infilando la testa sotto la sabbia, non ci fosse. E invece le scorie nucleari o i rifiuti tossici torneranno in superficie prima o poi, e il terreno abbattuto o dato alle fiamme per farne appartamenti e resort non potrà più essere recuperato: sul cemento (a differenza del letame) non può più nascere un fiore. Molto interessante la metafora (punto nodale, focale e di senso di tutto il testo) sull'artificiere tanto atteso che prima è un apicoltore (è noto che la vita dell'uomo sul nostro pianeta è strettamente correlata a quella delle api) tutto bardato nel classico scafandro bianco, e che successivamente invece prende la forma di medici anti-Covid. Un triplo rimando.

Ma non solo, in “Inneschi” si mette in scena proprio l'assemblea che è l'humus vitale sul quale e dal quale nascono questi testi che sprizzano dalle diverse anime del borgo, oppure il fenomeno degli “hikikomori”, i ragazzi che, impauriti e delusi dal futuro senza speranza, si chiudono in casa e non vogliono più uscirne. C'è anche un attacco-denuncia agli stranieri che qui vengono a fare business, prendere, svuotare storia e tradizioni, o alle industrie di armi, macchine per uccidere e non per salvare. In tutto questo galleggiano senza ciambella di salvataggio né boe alle quali aggrapparsi i ragazzi, spaesati e disillusi, che cercano la loro strada nel mondo tra precariato, fughe all'estero a cercare miglior fortuna (la storia si ripete), mancanza di prospettive, economie misere per formare una famiglia. Intanto, in lontananza, quel cane continua imperterrito a ruggire, ad abbaiare, a latrare, ad ululare come un Cerbero: è un avvertimento del quale abbiamo soltanto timore ma che non abbiamo saputo cogliere come monito.

Tommaso Chimenti 08/08/2021

TREGGIAIA – Cos'è che veramente urge nella nostra vita? Che cos'è che ci preme, che ha voglia, necessità di uscire, di esondare e travalicare? Che cosa non possiamo più trattenere e dobbiamo esternare dopo tanto silenzio, quali pensieri dobbiamo materializzare soprattutto a noi stessi? La nuova riflessione di Andrea Kaemmerle, sempre votata al comico e al brillante, prende appunto il titolo e lo spunto da quell'imperativo, “Urge”, quasi una sentenza, un alibi, una scusa, una giustificazione, come un bugiardino che avverte che qualcosa sta per scoppiare, senza essere caustico o catastrofico, che qualcosa sta per cambiare, perché lo vogliamo, perché è giunto il momento, dopo tanta compressione, della giusta esplosione. Le sue parole (anche questa volta dà una ulteriore prova di come sa maneggiare la scena e la platea, di come muove a suo favore, e verso la riuscita dello spettacolo, piccole mosse o inconvenienti, riuscendo sempre a tastare e annusare la serata facendo dell'improvvisazione e dell'intelligenza attoriale i cardini del suo mestiere senza che questo faccia di lui un “mestierante”) toccano, in un alluvione che ci investe, vari temi partendo, come molte altre volte, con un critica ad un certo tipo di teatro (a propositivo Guascone Teatro quest'anno è rientrato nei finanziamenti del FUS: complimenti), quello pomposo e annoiante, fino a concentrarsi sull'amore, l'amore che regola le stagioni dell'uomo, l'amore che fa soffrire, l'amore che ci fa crescere, l'amore che ci dà consapevolezza, l'amore cantato dai cantautori di casa nostra con spirito diverso, dal depresso all'ottimista, dall'angoscioso al melenso. Accanto a lui Francesco Bottai, gatto mezzo del duo pisano rimasto orfano, che accorda Battiato e Cocciante, Vecchioni e De Gregori fino a Gino Paoli per concludere con Massimo Ranieri, che diventano pretesti per le invettive e le storie dell'affabulatore, per un'analisi filologica approfondita semantica dei testi applicati al sentimento che tutti ci unisce, fino a scandagliarne le stupidità, le banalità, le stucchevolezze, le sciagure, le sconfitte lessicali e di senso.Kaemmerle (1).jpg

Ma la forza di Kaemmerle sta, oltre che nell'oralità del racconto e nel suo incedere scanzonato, anche nell'autobiografia che, a pezzi più o meno ampi, coriandoli a formare un puzzle, tessere di mosaico, riesce ad inserire, salando l'insalata delle sue drammaturgie, parti delle quali se ne constata subito la verità intima, quella patina di fondo di reale, quel sentire, tra il giocoso e il malinconico, che fa rilucere e commuovere, che illumina le parole già dette e quelle che verranno. E nelle sue digressioni, quasi di soppiatto, quasi per pudico candore e vergognoso pudore, ci inocula (il verbo trend topic del 2021) il germe del suo passato al quale ci aggrappiamo e con il quale troviamo vicinanze, similitudini, situazioni che combaciano con le nostre esistenze. E' il suo riuscire a raccontarci il proprio piccolo vissuto e a renderlo universale, attraverso storie minute, al limite dell'insignificante, ma dentro le quali c'è quella poesia che “Urge”, quella vena aperta, tutt'altro che romantica, dalla quale sgorga quella vita, pratica e durge-LH-e1602796355247.jpgisperata ed energica, frastagliata ed entusiasta, che è il suo marchio di fabbrica. Episodi ad un primo ascolto leggeri che nascondono sempre un doppiofondo nostalgico, un lato b che ci porta dentro il nostro passato, il tempo andato, perduto, quel tempo che vorremmo recuperare, quei noi stessi, più piccoli, fragili e ingenui, che vorremmo incontrare oggi per abbracciarli teneramente e per dir loro che tutto si aggiusta, che le diverse età si affrontano, che non è una gara a chi diventa grande prima e che anche i dolori e le batoste servono/serviranno anche se sul momento, quando fa più male, non riusciamo a credere che passeranno così facilmente. Kaemmerle ha sprint e verve e grinta da vendere, è un poderoso marchingegno di umanità e vitalità, è felicità gioconda, è freschezza per gli occhi, è sollievo per l'animo. E quando ci porta dentro i suoi trascorsi giovanili con le prime fidanzate (quella ricca e fascista mentre lui ascoltava Guccini, la gita sulla neve dove lui e i suoi amici si baciarono a turno con un altro gruppo di ragazze che in fondo alla settimana gli avrebbero dato i voti, quella volta che si lasciò dopo una vacanza in Sardegna senza volersi lasciare), dentro i rifiuti ricevuti, dentro quell'inadeguatezza che tutti abbiamo provato e subito sulla nostra pelle, vorresti solo salire sul palco (anche se in mezzo alla natura come in questa replica vista a Treggiaia all'interno del cartellone del suo festival itinerante tirrenico “Utopia del Buongusto”) e abbracciarlo e farti abbracciare, come farebbe un fratello maggiore, un padre.

Tommaso Chimenti 07/08/2021

IMATRA (FINLANDIA) – Dall'incrocio tra Azerbajan ed Estonia nasce ad inizio anni 2000 il “Black and White Festival” a Imatra, cittadina finlandese di trentamila abitanti a quasi 300 chilometri ad est rispetto ad Helsinki e più vicina a San Pietroburgo di quanto non lo sia alla capitale finnica. Il confine dopotutto, adesso chiuso causa pandemia, si trova a sette chilometri. Il border lo puoi sentire, è palpabile. La Grande Russia degli Zar è lì ad un soffio. Da Baku infatti è arrivato, venticinque anni fa il direttore artistico Kamran Shahmardan, regista teatrale e cinematografico IMG-20210805-WA0120.jpg(ha studiato Cinema), estone invece è la moglie Katri Latt, insegnante e vera anima del festival. Se lo scorso anno la rassegna saltò, quest'anno si è comunque deciso di organizzarla, con artisti finlandesi ed estoni, per un'edizione che è stata ribattezzata 17 e mezzo (28-31 luglio; il tema di quest'anno è: “Teatro in Korona”). Nel tragitto in treno da Tikkurila, la prima fermata della metro in superficie dopo l'aeroporto, ad Imatra si vedono solo panorami di conifere e spazi aperti. Verde e ampiezza, lontananza e verticalità. L'estate o non è arrivata o è già sparita. Il tempo è variabile: si passa dal caldo torrido, con annessi milioni di fastidiosi mosquitos, ad un vento che sa di tramontana misto a bora, uno scroscio di pioggia e freddo da giacca per poi tornare all'inizio del ciclo. Anche il treno (che si chiama Pendolino e inevitabilmente fa venire alla mente Cafù, terzino destro brasiliano ai tempi della Roma) è verde. L'acqua è potabile dappertutto e gratuita con le tante fontanelle sparse. Ogni tanto in mezzo a queste distese, nel centro del nulla, esplode un'industria, una fabbrica, una ditta, ciminiere sbuffanti, cemento accatastato. E fa ancora più rumore questa visione che stride. La visione attorno ai binari non muta per decine, centinaia di chilometri. Verde a destra, verde a sinistra.
Ad Imatra era importante la lavorazione del legno e la produzione di energia idroelettrica grazie ad una diga che nel periodo estivo diventa attrazione con l'apertura della stessa (per un quarto d'ora alle 18) e musica classica e schizzi e spruzzi e il ponte bloccato da due bus per permettere alla folla di fotografare gli sbuffi d'acqua che riempiono il torrente secco di rocce appuntite che spuntano fino a ricoprirle di onde. La potenza della Natura. Accanto alla diga ci intravede un piccolo cimitero sotto un boschetto: sono tutti ragazzi morti nel 1940, durante la Guerra d'Inverno il conflitto tra Finlandia e Russia, e ogni lapide a terra IMG-20210805-WA0160.jpg(ci ha ricordato il Cimitero Militare Germanico della Futa a Firenzuola) ha la sua pianta accanto dai fiori rossi, quasi gerani in un'atmosfera finalmente pacificata e acquietata. La diga, l'albergo-castello costruito nei primi anni del Novecento, la strana e bianca Chiesa delle Tre Croci dell'architetto Alvar Aalto e il Lago Saimaa sono i punti focali e nodali della cittadina che è ricordata anche per un particolare che alle latitudini mediterranee può sembrare un'inezia ma che qua in Scandinavia invece è una cosa molto seria. Qui, nell'Ottocento, è nato l'inventore di un congegno che serviva per eliminare le interiora delle aringhe. Il cielo è torvo, tutto intorno è piatto, come un lungo campo cinematografico. Da maggio a luglio il fenomeno delle Notti bianche fa sì che ci siano soltanto due ore di buio, così come in inverno il nero avvolge la città mentre il sole non riesce a filtrare che per poche ore.
Black and White” (fino ad oggi ha ospitato 250 spettacoli provenienti da 46 Paesi nel mondo), il nero e il bianco come il bene e il male cabalistico, come la scacchiera perché “il teatro nasce dallo scontro, si alimenta dal conflitto” dice il vulcanico ed entusiasta Shahmardan (nel 2017 è stato nominato “Artista finlandese dell'anno”, è innamorato di Fellini, sarebbe andato molto d'accordo con Carlo Monni) che un po' somiglia a Danny DeVito (lo confessa lui stesso), un po' al Maestro di casa nostra Giancarlo Cauteruccio,PeeterVahiPhotoByKaupoKikkas_NL_veebi.jpg un po' a Kusturica. Quattro giorni di teatro, performance e danza, rigorosamente all'aperto (anche se qui nessuno porta la mascherina né fuori né al chiuso, dopotutto i morti sono stati, ad oggi, 985 sui 5 milioni di abitanti del Paese) e rigorosamente gratuiti. Festival “gemello” del B&W è il “MAP” di Baku. Lo stemma della città è composto da tre saette bianche (icona dell'energia) con gli estremi gialli in campo rosso. Imatra è anche il titolo di un film-documentario (2007) di Corso Salani, attore e regista fiorentino scomparso nel 2010. Due le lingue ufficiali in Finlandia (che è fuori dalla NATO), il finlandese e lo svedese. La Svezia ha occupato e dominato queste terre per sei secoli, prima che, all'inizio dell'Ottocento, passasse sotto l'Impero russo prima di trovare l'indipendenza nel fatidico 1917. La domanda di fondo è: quale può essere l'identità di un Paese schiacciato tra i suoi due dominatori dell'ultimo millennio? Se ampliamo lo sguardo alla Scandinavia, la Finlandia, a differenza di Norvegia, Svezia e Danimarca, è l'unica a non avere i regnanti. Alcune teorie (il saggio “Omero nel Baltico” di Felice Vinci) collocano qui l'Iliade e l'Odissea e Troia corrisponderebbe a Toija vicino a Turku. In Finlandia ci sono 188.000 laghi (le acqua interne corrispondono ad un decimo delle superficie totale) e 180.000 isole, mentre per tre quarti è boschivo.
Nel 2018, da quanto emerge dai risultati dell'annuale “World Happiness Report”, la Finlandia era stata decretata come “Il Paese più felice in cui vivere” (l'Italia era 47esima) dopo sondaggi con cittadini e immigrati sulla base di reddito, istruzione, salute, corruzione, razzismo, libertà, inclusione, fiducia nelle istituzioni, sicurezza. Finlandia in finlandese si dice “Suomi”. Qui c'è una sauna ogni due abitanti per un totale di circa tre milioni di saune in tutto il Paese. La sauna (mi viene in mente “Il Giardino delle Esperidi”, festival performativo lombardo a Campsirago diretto da Michele Losi, abituato alle rassegne nordiche, che costruirà una sauna nella nuova foresteria) è uno stile di vita, oltre che di benessere; per conoscersi, per parlare, per fare riunioni di lavoro è il miglior approccio. La sauna qui al B&W è parte integrante del festival, del dopo festival: uno chalet di montagna in legno proprio sulle rive del lago (dove fare nuotate ghiacciate notturne) con una sauna interna e la jacuzzi fuori e l'amichevole vodka che scioglie i rapporti e rende sempre il clima frizzante insieme all'immancabile salmone e alle profumate aringhe marinate.
Tra gli Kate e Pasi.jpgspettacoli ai quali abbiamo assistito due sono stati quelli che più hanno colpito la nostra immaginazione. In primis “Relazione” del duo di Helsinki Kate & Pasi, formatisi nel Cirque Eloize, acrobati circensi che sono riusciti a sviluppare una drammaturgia profonda, potente e impegnata, a tratti commovente sul che cosa significa e che cosa serva per costruire una relazione di coppia. Sulla scena Kate, 50 kg, e Pasi, 100, compagni di palcoscenico ma anche di vita, fanno evoluzioni, si scambiano, si fronteggiano, guerreggiano. E' una guerriglia per avere voce in capitolo, per avere l'ultima parola, nel tenere costantemente testa all'altro senza cedere. Al centro una poltrona che è salotto, che è casa, che è famiglia. Lui legge imperterrito come se lei non esistesse. Lei tenta in tutti i modi, come un gatto che si struscia per avere attenzione ed essere considerato, di incuriosirlo, interromperlo senza successo, distrarlo dalle sue occupazioni, portarlo vicino alle sue mani. Lei gli danza sopra, intorno, addosso sul petto, sulle gambe, aggrappata alle caviglie, alle ginocchia, sui polpacci, sugli stinchi, sui piedi, addirittura sulla testa appoggiata sulla fronte come se non riuscisse a vivere senza di lui. Elemosina il suo amore, le sue mani, il suo toccLiekin Kieli.jpgo e tatto ma lui continua a leggere imperturbabile, niente riesce a smuoverlo dalla sua concentrazione. Appena lui cede qualche centimetro e sembra che l'armonia sia entrata in quella abitazione, cominciando a leggere insieme, lei, memore del precedente trattamento ricevuto, lo scalza, lo spodesta, lo allontana, lo fa cadere dalla sua poltrona-trono, facendo cadere il suo machismo, la sua arroganza e tracotanza maschilista. Adesso i ruoli sono ribaltati e lottano per ottenere l'egemonia e supremazia di quello scranno. Kate & Pasi (www.kate-pasi.com) ci insegnano che la “Relazione” di coppia è un gioco di scambi, di incroci, di spostamenti, di scollamenti, di equilibri e assestamenti, di posizioni e di prese di posizioni, di flessibilità e rigidità, di slanci, di tentativi per non cadere, di rincorse, di play, di aggiustamenti, di avanzamenti e ritirate, di ritorni e rinculi, di paure, di scuse, di perché, di abbracci.
A chiudere un altro duo stavolta in nero avvolti dalla musica onirica, sacerdoti officianti di riti pagani tra candele e bastoni infuocati. “Flaming Language” della coppia Tulinaytos sono schegge di fuoco che roteano in raggi, in cerchi, sono sciamani, sono dervisci ipnotizzanti che si muovono su coreografie rutilanti dal sapore millenario e ancestrale, antico. Le fiamme si cercano e si allontanano, si rifiutano e si incontrano, si muovono come remi pagaiando per illuminare l'oscurità tra grazia estrema e dinamismo cosmico. Come un mantra, il mantra di Imatra.

Tommaso Chimenti 06/08/2021

Pagina 12 di 30

Libro della settimana

Facebook

Formazione

Sentieri dell'arte

Digital COM