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TSUmbria: Verrà la Guerra (senza Pace) e avrà i tuoi occhi

PERUGIA – “Lascia ch'io pianga mia cruda sorte e che sospiri la libertà. Il duolo infranga queste ritorte de’ miei martiri sol per pietà”.

Fine ultimo degli Stabili è anche quello, oltre a valorizzare il territorio in termini di maestranze e distribuzione in provincia, di poter mettere in scena spettacoli altrimenti impossibili. Parliamo di questioni prettamente economiche, numeriche dal punto di vista attoriale, di budget, risorse umane e finanziarie altrimenti non sostenibili. Li chiameremo “kolossal”, appellativo che si può applicare perfettamente a questo “Guerra e Pace” che riapre le porte del Teatro umbro e del Morlacchi nel contingente. Due spettacoli, dice autonomi secondo noi inscindibili, da quasi due ore l'uno, una quindicina d'attori, scelti con lume e luce, tra i quali spiccano un volto televisivo amato e conosciuto (Stefano Fresi convincente anche se ha più chiari che scuri al proprio arco) e altri nomi teatralmente spendibili (Lucia Lavia agguerrita), un regista d'esperienza acclarata (Andrea Baracco, spesso a dirigere a queste latitudini), una drammaturga tra le più preziose e prolifiche che abbiamo (Letizia Russo). Come dire, ci sono tutte le condizioni favorevoli per un risultato positivo. E infatti “Guerra e Pace” (ma era così necessario ridurre i tomi di Tolstoj e farne una cospicua versione teatrale? Forse un azzardo o un rischio calcolato?) non soffre di alcuna caduta, non incespica, non scivola ma, forse, non vola neanche. Ci spieghiamo meglio. Le componenti per un lavoro all'altezza ci sono e pare che tutti i tasselli siano messi al punto giusto per un mosaico da grande opera. Però, c'è sempre un però. Non si ulula uscendo (mica è obbligatorio farlo) e del trittico Baracco – Russo – Teatro Stabile dell'Umbria ci siamo piacevolmente ricordati nel tempo del “Maestro e Margherita” e non so se avverrà il medesimo meccanismo anche stavolta.GUERRA_E_PACE-1_40.jpg

L'impegno è comunque fruttuoso e il solo riuscire a far coincidere e collimare tutte queste energie produttive e artistiche è già un fatto da sottolineare. Rendere però Tolstoj “teatrale” pone l'interrogativo e la possibilità di sfociare a tratti in dostoevskiane atmosfere da un lato o lentamente di tentare di incanalarsi in memorie cechoviane. Comprimere 1500 pagine in qualche ora è esercizio complicato di cesoie e scelte ideologiche. Il pubblico se ne sta sui palchetti, mascherati e distanti ma finalmente coinvolti e partecipi attivi di questo rito millenario dove nella luce qualcuno parla e tanti altri ascoltano in silenzio. Se la prima parte è orizzontale e si allarga dipanandosi, la seconda è verticale, non verso il cielo ma in discesa giù a lisciare il baratro. Il palco vero e proprio, ovvero dove si svolgono le vicende, è diviso in due settori: il palcoscenico del teatro all'italiana perugino (piece difficilmente “trasportabile” in altro contesto) e la platea sgombra e priva di poltroncine accatastate a creare un fondale che farà mostra di sé un paio di volte come a gridare che il Re è nudo, che il Teatro è nudo, che siamo deboli e gracili e piccoli nei confronti dell'inspiegabile (la Pandemia?). La dinamica è un'armonia che, sempre con eguali passaggi, di pieni e di vuoti, di situazioni corali e di monologhi (ogni attore ha il suo spazio e ognuno dà il meglio di sé quando è chiamato in solitaria), di palcoscenico e poi di spostamento in platea in un continuo andirivieni come onda che insiste sulla sabbia, come schiuma che lecca la rena in un movimento gentile che assorbe lo sguardo, per contemplare meglio, consolandolo con qualche quadro “toccante” ispirato.

La cupezza delle fazioni che si scontrano dialetticamente, pro e contro Napoleone o pro e contro l'interventismo guerrigliero, fa pendere l'ago della bilancia non tanto sulla Guerra fuori da queste figure annoiate e disilluse che aspettano un segno esterno per fare la propria rivoluzione esistenziale, ma quanto sul conflitto interiore che ognuno intraprende contro se stesso con astio e senza amorevolezza.

“Guerra e Pace” è un evento (un mese di programmazione) e come tale va festeggiato e innalzato, sbandierato e portato in alto: Stefano Fresi (che sia in tv o al cinema o in teatro gli fanno sempre suonare il piano sapendolo maneggiare con maestria) ha le spalle larghe e regge bene l'impianto anche se, come impostazione e tonalità vocale, è più predisposto verso le sfumature leggere e tenui, nelle corde gli manca un po' di dark e di colori drammatici, Dario Cantarelli ha una voce inconfondibile che lo eleva, Emilia Scarpati Fanetti ha eleganza innata signorile e di sostanza eterea, Woody Neri è grintoso e non cede un millimetro, Alessandro Pezzali, pur eccedendo troppo nella sua risata luciferina, è sempre presente e tosto, sponda perfetta. Ci ha colpito, per freschezza e senso dello spazio scenico, GUERRA_E_PACE-1_50.jpgEmiliano Masala, che ha versato cuore e testa, mentre il giudizio diventa oscillatorio e bifronte su Lucia Lavia nella prima parte, anche se il suo personaggio ha sedici anni, a corse, salti sul tavolo e tutto un armamentario infantil-vezzeggiativo che non la aiuta, mentre sul finale sciorina un consistente monologo drammatico (somiglia molto alla madre come gestualità e pathos) che la riabilita. La scena, prima di essere abitata, viene addobbata dagli stessi attori con l'oggettistica necessaria, per poi nuovamente esserne privata in questo andamento di riempimento e svuotamento che, trovando un parallelismo con la scrittura, certifica i grandi discorsi attorno all'esistenza e la frivolezza nello scorrere del tempo lasciandosi vivere passivamente nel vuoto senza prendere decisioni, senza muovere le fila.

In questa infelicità diffusa, la Guerra sembra essere l'unico calmante, solo balsamo ad ogni sorta di ferita, mentre la Pace, che tutti agognano ma che nessuno vuole in verità (perché la Pace porta responsabilità individuali nel mantenerla), è soltanto una tregua nel Risiko che altri stanno giocando. La morte è sempre evocata, aleggia, personaggio solido, eloquente più di mille parole. Perché la Guerra è un modo per sentirsi vivi, di tirare a campare. Si sente un retrogusto ferroso di annientamento, un sapore rancido di dissoluzione, febbrile di macerie per ripulire, ricostruire, ricominciare. Che, in definitiva, è l'alibi di chi non sa vivere nel proprio tempo, in quell'hic et nunc che ha a disposizione: azzerare l'oggi concreto a favore di un domani illusoriamente migliore proprio perché ancora non esiste. Non c'è niente da salvare tra tutto questo dolore imbevuto come bustina di tè dentro una tazza bollente di frustrazione. Da ricordare la pubblicazione del libro a fascicoli del disegnatore belga Francois OlislaegerDiario di uno spettatore clandestino” che ha prodotto tavole e schizzi sulla costruzione della piece, bozzetti realizzati durante le prove, prodotto vibrante assolutamente raro. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. “Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol, che t'avvelena il cor!

Tommaso Chimenti 06/05/2021

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