Trascorse le rappresentazioni romane dello spettacolo di Chiara Lagani (drammaturga della compagnia Fanny & Alexander), traduttrice per Einaudi del terzo romanzo di Lewis Carrol “Sylvie e Bruno” andato in scena dal 22 al 26 Marzo al Teatro India di Roma. Dopo la visione dello spettacolo non potevamo perdere l’occasione di intervistare la drammaturga – attrice dell’opera in questione, per chiarire e far comprendere al meglio ai post e futuri spettatori l’intento drammaturgico di Chiara Lagani e le operazioni registiche effettuate da Luigi De Angelis regista della compagnia. Quest’ultimo sarà il regista del “Barbiere di Siviglia” che andrà in scena il 31 Marzo che si terrà al Teatro Sociale di Rovigo. Fino al 6 aprile ritroviamo al Teatro Piccolo di Milano la traduzione della Lagani di Romeo e Giulietta di William Shakespeare con la prima regia di Mario Martone. Affondiamoci nelle parole di Chiara Lagani.
“Immaginatevi di essere terribilmente stanchi e che il sonno stia per sorprendervi e trascinarvi al fondo di un sogno. Il punto di partenza di questo spettacolo è proprio quello stato parzialmente vigile e al contempo di semi-abbandono in cui il corpo si fa improvvisamente pesante, la mente si solleva e quasi possiamo vederci dall’alto, salvo repentini sussulti delle membra che, se non ci svegliano, segnalano proprio un profondo inevitabile trapasso ad un mondo “notturno”, fatto di immagini e suoni volatili eppur consistenti. Siamo allora nel mondo dei sogni, un mondo dotato di sue regole parallele che in qualche modo riorganizzano e trasformano le immagini diurne con quelle del nostro inconscio”.
Qual è stato il lavoro che hai compiuto dapprima, traducendo il testo in Italiano “Sylvie e Bruno” di Lewis Carrool scritto nel 1889?
“Questo è un libro amatissimo da me ma anche da Luigi de Angelis regista della compagnia “Fanny & Alexsander. Da quando siamo ragazzini in qualche modo volevamo affrontarlo, prima volevamo fare un film, poi ci siamo resi conto che eravamo solo degli adolescenti e della complessità di questo romanzo e quindi ci siamo detti, forse bisogna aspettare un po'. Perché ci sono delle opere che hanno bisogno di tempo e di più maturità. Questo romanzo che io amo tanto poi mi è ritornato indietro in concomitanza del primo lookdown (quello più duro), epoca in cui mi trovavo a fare una proposta di una traduzione Einaudi e ho pensato di nuovo a questo libro che nel frattempo era già stato tradotto in Italia la prima volta da Cordelli, e poi era uscito fuori catalogo e mi sembrava un peccato che non fosse più in circolazione, e così sono stata io a proporre la traduzione ad Einaudi e la richiesta mi è stata accolta. Ho passato fortunatamente tutta quella orribile chiusura a tradurre le parole di Carrool, e devo dire che mi hanno salvata, sollevata in quel triste periodo. Perché per me è stato come immergermi in uno strano luogo, tra sogno e realtà che è stato come un antidoto contro la depressione per tutto quel periodo in cui siamo dovuti rimanere chiusi in casa. Dopo aver pubblicato il libro con Einaudi e avendo la mia traduzione a disposizione con Luigi de Angelis ci siamo detti, ecco è arrivato il momento di metterlo in scena, perché in noi quella storia era ormai sedimentata da anni, c’era ormai un grande amore.
La prima volta che è andato in scena lo spettacolo in Italia?
“La prima romana è stata il 22 di Marzo, mentre la prima volta che lo spettacolo è andato in scena in Italia immediatamente dopo la fine delle chiusure orribili del Covid. Lo spettacolo dunque è in tournée da quasi due anni. Ha debuttato la prima volta a Ravenna perché era una produzione del “Ravenna festival” successivamente è andato in scena in diverse città italiane. La cosa più bella per me è che il testo dello spettacolo è nato in parallelo alla traduzione, come se già i corpi degli attori fossero già presenti nel lavoro sul testo. Mentre traducevo pensavo continuamente alla messa in scena, sono due operazioni fuse in una”.
Nel 1992 fondi a Ravenna insieme a Luigi De Angelis la compagnia “Fanny & Alexssander” che verte nello studio tra un teatro di ricerca e un teatro sperimentale. Dal momento che hai dichiarato prima che la traduzione è stata fatta in funzione dello spettacolo. Ci sono state delle riscritture in funzione della messa in scena della tua stessa traduzione? Perché gli attori sembrano molto plasmati e inducono ad intermittenza astrazione brechtiana ma anche un altro tipo di empatia e allora ci chiediamo se era questo il tuo intento?
“Si esattamente, perché ovviamente ogni traduzione è stata composta per la scena, sono tutte traduzioni dall’inglese all’italiano effettuate da Einaudi e traduzioni fatte appositamente per lo spettacolo che implica un sovvertimento del testo di origine, per cercare come dico sempre di essere fedele al testo originale. Nel testo di Carrol c’è un narratore, una persona molto anziana che si addormenta sempre e che scivola continuamente tra il suo sogno e la realtà. Quindi sono due storie intrecciate quelle che vengono raccontate, però non intrecciate in una maniera morbida ma anzi in una maniera schizofrenica, proprio quando ci si sveglia da un sogno e dobbiamo prendere i contatti con la realtà e non capiamo ancora se è un sogno o la realtà. Noi non abbiamo un attore anziano in scena, e come se io avessi parcellizzato tutto questo racconto in terza persona, che è una parte narrativa del racconto, facendone come un personaggio diviso in 5. E da qui questo elemento straniante brechtiano in cui l’attore sembra a volte uscire dal personaggio per diventare narratore e raccontare l’avvenimento ed è una caratteristica che è suggerita dallo stesso testo di Carrol che fa si che questo narratore, sia il protagonista perché è l’amico delle due fate bambine e fortemente amico nella storia borghese dei due innamorati Arthur e Muriel, diventa protagonista a suo malgrado di queste storie allo stesso momento è colui che c’è lo sta raccontando ai nostri lettori e continuamente si rivolge a noi lettori in maniera diretta. Infatti gli attori appellano a volte lo spettatore. All’inizio dicono a te spettatore devo dirti una cosa, hai mai visto le fate? O vuoi che ti insegno a vederle? Questo deriva proprio dal libro. Un Personaggio che racconta una storia ma allo stesso tempo quando la racconta ne sei comunque protagonista, perché se la narri sei comunque un personaggio di quella storia. Questo aspetto per me era fondamentale da mettere in risalto nello spettacolo, ma io ho deciso di operare verso questa strada”.
“La scelta drammaturgica di inserire il Meta-Teatro riportata soprattutto dalle voci fuori campo registrate degli attori quando interpretano i bambini, da cosa deriva questa scelta registica di inserire voci fuori campo?
“La scelta è dovuta alla presenza di questo narratore che viene diviso in 5 personaggi diversi. Il teatro è sempre menzionato nel romanzo di Carrol, quindi c’è la presenza del meta teatro. Ad esempio una delle due fate è ossessionata dal teatro e dalle rappresentazioni e mette in scena continuamente piccoli frammenti teatrali. Quindi il teatro è molto evocato, lo stesso Carrol pare che il suo romanzo lo componesse oralmente, lui buttava giù una traccia e poi si procurava un pubblico di bambini, anche per questo romanzo, si rivolge agli adulti per rievocare il loro essere bambini. E pare che lui mettesse in scena queste rappresentazioni facendo tutte le voci, quindi c’era questo narratore onnipresente che interpretava ogni personaggio e questo rimane nelle pagine consistenti e rimane impigliato in questa metodologia. Penso che era importante mettere in scena il fatto che uno attore è il suo essere attore e guardare il suo essere attore, questa è la chiave a cui io e Luigi tenevamo tantissimo. E un sogno continuo in cui si ci sveglia dormendo”.
Si nota tantissimo l’incipit del teatro elisabettiano del fatto che gli attori ad un certo punto diventano spettatori della rappresentazione. La scelta di inserire all’inizio della prima scena quando entrano i corpi degli attori utilizzando quelle luci che sono soavemente rendono i corpi fantasmici. Questi attori che rievocano siamo o non siamo in un sogno?
“Hai descritto il prologo meglio di come avrei potuto farlo io. Luigi ha sempre voluto sottolineare come questi corpi siano eterotopici e utopici al tempo stesso un luogo e non luogo allo stesso tempo. Questi corpi nella nostra rappresentazione dovevano essere immateriali, per questo motivo l’utilizzo all’inizio di quelle luci che rendevano invisibile il corpo ma visibile solo minimamente. Questi corpi stanno a significare che sono qui ma allo stesso tempo non lo sono e che hanno un rapporto con l’invisibile. Questo è il timbro dello spettacolo poiché si allude sempre a qualcosa che non esiste sula scena, oggetti che devono essere solo immaginati ma anche i racconti stessi non li vediamo in scena rimangono fuori campo ma in campo dalla narrazione dei personaggi. Lo spettatore è portato ad un gioco ludico di immaginare ciò che non c’è e di non immaginare invece ciò che viene raccontato con le parole, questo può creare confusione ma è questo l’intento. Lasciare confusione di un sogno non ricordato bene. Essere capaci di vedere l’invisibile e di custodirlo dentro di se”.
“Nel corso della tua carriera hai lavorato con degli artisti di un certo calibro quali: Stefano Bartezaghi, Goffredo Fofi, Luca Scarlini, vuoi raccontare qualcosa su queste collaborazioni?”.
“Sono tutti dei grandi intellettuali con la quale ho sempre cercato di creare un rapporto per sviscerare vari lavori su vari romanzi. Abbiamo lavorato insieme per il ciclo di Adina Bocok, abbiamo lavorato sia con la traduttrice la bravissima Margherita Crepax e anche con Stefano Bartezaghi riguardo a tutta la tessitura linguistica dei giochi di parole, che è fondamentale per capire un autore, ci si rivolge sempre in dei specialisti del settore quando si deve effettuare una nuova traduzione o un nuovo lavoro. Sono come delle muse ispiratrici per ritrovare il proprio punto di vista per l’interpretazione. Soprattutto quando poi una opera si mette in scena e si crea, questo significa interrogarla da vicino e dal vivo, creando un rapporto intimo e ravvicinato. Sono delle operazioni così delicate che a volte farle da sole è impossibile, per cui ci si crea delle alleanze”.
“Ritornando allo spettacolo, essendo che tu oltre ad essere anche la drammaturga, se anche attrice nello spettacolo, come hai dovuto lavorare per effettuare due menzioni molto complesse contemporaneamente?”
“Questa è una complicazione che mi sono scelta, poiché io di base sono una drammaturga, ma ho sempre pensato come faccio a scrivere se non so cosa significa interpretare? Per cui mi sono sempre dedicata anche alla recitazione. Come fai a scrivere un testo per il teatro se non ci passi con il tuo corpo? Come fai a consigliare ad un attore ad incarnare la parola o un personaggio se non hai vissuto quella esperienza unica e alchemica? Il mio stare in scena per me è interrogare continuamente il mio essere drammaturga. Poi ho la fortuna di avere come compagno di lavoro Luigi De Angelis regista della compagnia invece io sono la direttrice artistica, insieme abbiamo costruito un rapporto di 30 anni, è un fratello per me. Io mi fido tantissimo di lui quando lavoriamo i suoi occhi sono i miei. Avere una persona di cui ci si fida è pura fortuna perché lui vede dove io non posso vedere mentre recito in scena”.
La forza di questo spettacolo è dunque che i personaggi non rappresentano questo nel senso convenzionale del termine, ma rappresentano dei proto-personaggi del sogno di un pensiero. Insieme a te sul palco vediamo recitare Marco Cavalcoli, Andrea Argenteri, Roberto Magnani, Elisa Poll. Come hai lavorato con gli attori e come vi siete gestitici con le voci registrate?
“Per me questi attori sono fantastici, Cavalcoli e Argenteri sono storici nella compagnia e avevano già lavorato insieme a me e a Luigi. Roberto viene dal Teatro delle Alpe ed Elisa Poll da un’altra compagnia con sede a Ravenna. Noi ci conosciamo da quando siamo piccoli e proviamo l’uno per l’altro un amore sconfinato. Dopo il lookdown c’era il desiderio di rimettersi in teatro con delle persone e rivivere. Così ci siamo messi sotto per mettere in scena il tutto. Nello spettacolo si sente che c’è condivisione gioiosa di quella paura che ormai è svanita. Si ritorna a teatro.
Per rispondere alla parte più tecnica della domanda Luigi è un musicista per cui le sue regie le crea come delle partiture musicali, con pause, silenzi, allegri o adagio con utilizzo di arcate musicale retoriche. La sua regia è come suonare una partitura, hai colto molto bene questa corrispondenza del doppiaggio, e di presenza di inarcature ritmiche in cui ogni attore consegna la sua battuta all’altro come fanno i musicisti in una orchestra”.
Progetti futuri?
“il mio cuore è diviso tra le rappresentazioni a Roma al Teatro India e un Barbiere di Siviglia che è andato in scena il 31 marzo a Rovigo e poi sarà a Ravenna al Teatro musicale poiché è parte integrante della compagnia. Ora vengo dalla traduzione per Mario Martone del Romeo e Giulietta che ha appena debuttato al Piccolo di Milano che è ancora in replica in questi giorni fino al 16 aprile. Luigi ha molti progetti musicali, abbiamo 3 piccoli pezzi uno dedicato a Nina Simone, uno dedicato al tema della maternità”
Dunque più cose che bollono in pentola e che presto verranno cucinate e servite a puntino, in un piatto unico e magico con il gusto a sapore di teatro.
Carmela De Rose 03/04/2023
È in scena dal 23 al 26 marzo allo Studio Argot di Roma Leopold – la giornata di un uomo qualunque, uno spettacolo che porta la firma (ed anche il volto e la voce) di Maurizio Panici, attore, regista e padre dell’Argot Studio. Recensito ha partecipato alla prima di questo spettacolo che si inserisce all’interno del progetto Ulysses 100 che celebra i 100 anni della pubblicazione dell’Ulisse di James Joyce. Lo Studio Argot ha infatti deciso di rendergli omaggio, realizzando due intensi monologhi ispirati ai due personaggi principali del testo dell’autore irlandese: Leopold e Molly B, personaggio interpretato da Iaia Forte nel monologo andato in scena dal 16-19 marzo 2023.
Abbiamo raggiunto telefonicamente l’attore Maurizio Panici per approfondire i temi legati al suo spettacolo ed in particolare cosa ne ha ispirato l’ideazione, passando per la musica ed il mondo dei social network. Ecco quello che ci ha raccontato.
Il titolo del suo spettacolo è Leopold – la giornata di un uomo qualunque ed il protagonista è lo stesso dell’Ulisse di Joyce. Il progetto si inserisce all’interno del cartellone di eventi del Teatro Studio Argot intitolato La Fabbrica Dei Sogni. Ed infatti la scrittura di Joyce con il suo “flusso di coscienza” è sempre stata associata alla dimensione onirica. Come nasce questo progetto? Cosa l’ha ispirata?
“Il progetto è nato tempo fa ed in particolare durante il periodo della pandemia. Nasce da una necessità personale e intima di riflettere non solo sulla mia condizione (anche di artista), ma di mettermi anche in relazione con il mondo che stava cambiando. Ho sfruttato tutto quel tempo a disposizione, per lavorare sull’Ulisse di Joyce (che è un’opera immane!) ed elaborarlo riuscendo a creare un lavoro nel quale riuscivo ad immedesimarmi. Sentivo la necessità di ricondurre il lavoro di Joyce all’interno di un’unità di tempo e spazio, che mi permettesse di garantire anche una dimensione teatrale. Ho deciso quindi di partire da una giornata ideale vissuta da Leopold - il protagonista dell’Ulisse - un personaggio mitico, che incrocia anche il protagonista del Libro delle Inquietudini (Bernardino Soares) di Fernando Pessoa di cui ho scelto di inserire anche dei brevi inserti: due personaggi molto simili nei quali mi riconosco profondamente. Due uomini che si ritrovano spiazzati dalla realtà che li circonda, che vivono un senso di spaesamento, lo stesso che ho vissuto anche io, isolato e senza la possibilità di tornare sul palcoscenico. Ho deciso quindi di ricostruire con Leopold un nuovo mondo e ricostruirlo dall’interno: quindi non più l’immagine della realtà e di quello che ci circonda, ma un mondo trasmutato attraverso un’operazione artistica, profonda e intima che è lo stesso che immagina Leopold con i suoi sogni e desideri, sono le sue altezze ma anche le sue cadute: questo da’ un quadro che si adattava alla mia esigenza personale”.
Nel suo spettacolo infatti, si sente la differenza tra il testo di Joyce e quello di Pessoa proprio perché sono due modi di scrivere completamente diversi ma emerge, come ha anche detto lei, la complessità dello spirito umano e della persona stessa che in questa giornata si ritrova a vagare tra i suoi pensieri, descrivendoli minuziosamente, come nel caso delle sue amanti.
“Esatto! Quello di Leopold infatti, è un percorso minuzioso di memoria che diventa anche evocativo: non è esattamente una foto del reale ma è tutto quello che ha assorbito di Gerty MacDowell, in questo caso. Lui l’ha assorbita completamente e ce la restituisce attraverso questa sua descrizione minuziosissima: quasi quasi ce la fa toccare con mano lì sul palcoscenico! E questo processo lo utilizza anche con i luoghi, come ad esempio per la birreria che frequenta abitualmente o con il negozio dove lui va a sognare. Di questa realtà gli piace molto il cibo perché lo riporta un’idea di carnalità ed è una realtà che riesce a riconoscere, mentre non ci riesce per altre. Lo stesso smarrimento lo ritroviamo in Bernardino Soares, che invece vive tutto all’interno di un ufficio senza mai uscire. Sono due mondi claustrofobici che hanno bisogno di sognare ed inventare la realtà. Come dice Pessoa «le mie sono divagazioni indispensabili per un cervello che si smarrisce e io mi ritrovo soltanto raccontando perché è l’unica cosa che so fare» e questo ha che fare molto con il nostro lavoro di attori perché sappiamo solo raccontare…E se ci perdiamo la narrazione non esistiamo più”.
In base anche a quanto lei ha affermato, possiamo dire che si sente un po’ più vicino al personaggio di Pessoa rispetto a Leopold? Anche se si tratta di due figure molto analoghe, che vivono di ricordi in un momento di smarrimento.
“Non ho una propensione per l’uno o per l’altro: in realtà i due convivono in me perfettamente. Di Leopold ho questa necessità di cose concrete, reali, degli odori, dei sapori; di Bernardino ho invece la parte intima, profonda, di riflessione: è come se le due cose si fondessero perfettamente insieme. Uno vede, sogna, tocca con mano le cose che vede e che vive, l’altra parte riflette su tutto questo: è come parlare con il suo alter-ego”.
Avendo curato anche la regia dello spettacolo, quanto è stato complicato per lei riuscire ad unire questi due testi con la scenografia digitale?
“Beh, il lavoro di scenografia era necessario per dare una forma ai pensieri di Leopold ed è stato fatto da Davide Stocchero che ha realizzato i disegni man mano che scrivevo il testo. Ci siamo confrontati per diverso tempo prima di arrivare ad una forma definitiva del racconto, partendo dalla line art sino ad arrivare ad un distillato profondo delle immagini che accompagnavano perfettamente le parole”.
Abbiamo percepito da questo spettacolo un’ambivalenza tra passato e presente che emerge anche dalla musica. Joyce e Pessoa convivono con un brano dei Joy Division e una canzone di Vasco Rossi che apre lo spettacolo.
“Ha colto perfettamente perché questo è proprio un viaggio che parte dalla grande letteratura del 900 sino ad arrivare ad oggi. Partiamo da due tra gli autori più importanti di quel secolo, come Pessoa e Joyce, e ci trasferiamo piano piano verso il tempo presente - il tempo in cui vivo - attraverso la musica dei Joy Division un gruppo molto particolare, molto amato, dal sound riconoscibile e molto forte. Soprattutto va a sottolineare il momento in cui viene proiettata la scena di un funerale in Peaky Blinders, ed è come se Leopold arrivasse alla sua morte guardandosi. È molto joyciano anche questo!”.
Quindi come sono state scelte le altre musiche che hanno accompagnato le scene? Al di là dei Joy Division c’era anche una musica un po’ più elettronica o anche delle melodie più arabeggianti, orientali.
“Sono anche le musiche che mi hanno accompagnato nel tempo del covid. Molte vengono da alcuni album di Buddha Bar ed è un distillato di musiche che sono un sincretismo tra poesia e elaborazione musicale: sono paesaggi sonori. L’ultima musica ad esempio, è una musica sufi: una poesia che parla della vita e del movimento ed è stata musicata in una maniera mirabile per questo l’abbiamo utilizzata così com’è. Si sposava perfettamente anche con l’ultimo pensiero che poi è quello di Pessoa. Anche qui, ancora una volta, vecchio e nuovo camminano insieme sempre e comunque perché il segreto di tutto lo spettacolo, secondo me, sta in questo sincretismo culturale dove c’è la letteratura, la poesia, il sapore ed il gusto musicale. Oppure Vasco Rossi che racconta con i suoi versi, lo stato fisico del protagonista: “siamo qui” come degli ultimi eroi, praticamente. Diciamo che la parola più giusta che ha dato questa speciale unione a tutto, è stata la cura che ho messo in tutto e questo è stato possibile perché avevo tantissimo tempo a disposizione. Leopold nasce non perché dovevo fare uno spettacolo, ma nasce da una necessità profonda di metabolizzare pienamente l’opera e restituirla. Quindi è sì uno spettacolo ma, prima di ogni altra cosa, è un lunghissimo viaggio emotivo, poetico, musicale, visivo. E tutto questo ha avuto una grandissima cura che mi ha permesso di restituirlo con una pienezza che, molte volte, quando sei sollecitato dai tempi di produzione, non ti puoi permettere”.
Soprattutto un viaggio dentro di lei che cerca di esorcizzare questi due anni. Possiamo quindi dire che, sia lei che Joyce, siete tornati a casa? Perché nell’ottobre del 1984, quando ha inaugurato lo studio Argot, è stato messo in scena uno spettacolo dell’autore irlandese.
“Si. Lo spettacolo di allora si chiamava Fluidofiume ed era di Enrico Frattaroli e di Estravagario Teatro ed inaugurò ufficialmente la nascita di Argot Studio. Leopold è tornato da quel viaggio che non si è mai interrotto… e siamo ormai ai quarant’anni! In questi anni Leopold ha visto cose e, piano piano, è tornato a casa, come è stato anche per Ulisse: è il nostos, il viaggio di ritorno. Anche io sono tornato a casa fisicamente ed ho trovato una platea di gente sconosciuta ma piena anche di gente che ri-conoscevo, che conoscevo di nuovo. E poi c’era tutto l’Argot Studio che considero come i miei figli, i miei amici di sempre: è una casa a cui devo molto. E questo “continuare il viaggio” secondo me, è importante: l’Argot Studio deve continuare con una politica sua, nuova ed autonoma ma che abbia questa memoria, rimanendo un punto fermo per la città di Roma e per tutta l’Italia, come sistema teatrale. È proprio tornare a casa, nel senso pieno del termine”.
L’anno prossimo, come lei stesso diceva, l’Argot Studio compie un compleanno importante. Le facciamo una domanda un po’ azzardata: sta già pensando a qualche “festa” da fare?
“Ci penseranno i ragazzi, è compito loro! L’anno prossimo si daranno degli obiettivi importanti e noi parteciperemo sicuramente in qualsiasi forma soprattutto con il cuore, standogli vicino”.
Nonostante siano passati cento anni dalla pubblicazione dell’Ulisse ed il testo di Pessoa è stato scritto nel 1982, per i temi che vengono trattati lei li considera ancora attuali?
“Assolutamente, perché l’uomo è sempre lo stesso: le passioni, i desideri, le delusioni sono sempre le stesse. Infatti stiamo parlando de “la giornata di un uomo qualunque” quindi sono attualissimi e lo saranno sempre. Sono i grandi testi che sanno raccontare l’animo umano nella profondità delle espressioni”.
In merito allo spettacolo, ho letto delle frasi che mi ha colpito molto: “Non sapremo mai quanto sia vera questa realtà abitata dall’eroe, o semplicemente una proiezione di questa nostra realtà, dove nonsi distinguono più i contorni del reale e dove nella libertà di esprimere tutto quello che pensiamo, i confini tra le due dimensioni sono estremamente labili.” Questa riflessione mi ha fatto pensare alla nostra epoca e, soprattutto, a quello che è il mondo dei social network dove soprattutto i ragazzi più giovani, non riescono più a distinguere questo labile confine tra la vera realtà e la loro percezione di realtà (completamente finta) filtrata dai social. Cosa ne pensa?
“Beh, è una riflessione assolutamente necessaria perché all’inizio i social sono stati una scoperta. Adesso stiamo scoprendo che è una realtà pericolosa che ci propone anche una realtà immaginaria. Tutta questa felicità espressa poi in realtà nasconde - ed ogni tanto questo esplode - un malessere profondissimo. Cioè, noi stiamo delegando a qualcuno che non esiste una vita che non ci appartiene: questo è terribile. Mentre in Leopold o in Bernardino è un sogno innocente, qui purtroppo delle volte questi sogni si trasformano in incubi e quindi bisogna porre molta attenzione”.
E a tal proposito qual è la relazione con i social per il Maurizio attore e soprattutto il Maurizio “uomo qualunque”?
“(Ride) Maurizio uomo qualunque non ha un profilo social, su nessun canale! Abbiamo un profilo, che ogni tanto guardo, ma è per lavoro ovvero quello di Argot Produzioni. Personalmente non ho nessun tipo di rapporto e preferisco la realtà, la letteratura che mi circonda, preferisco ascoltare buona musica, insomma… mi tengo abbastanza distante. Osservo il fenomeno perché è importante non posso condannarlo né negarlo, ma ne riconosco anche le pericolosità ed i limiti”.
Roberta Matticola, Alessandra Miccichè 24/03/2023
In occasione del trentennale della morte di Federico Fellini, la Fondazione Magnani-Rocca presenta Fellini: Cinema è sogno, mostra dedica al grande regista riminese che, dal 18 marzo al 02 luglio, verrà allestita presso le lussuose sale della Villa di Mamiano di Traversetolo (Parma).
Indiscusso maestro del cinema italiano, Fellini ha rivoluzionato il modo stesso di porsi nei confronti delle immagini in movimento, elevando con occhio visionario il valore artistico e culturale della settima arte.
Da Lo sceicco bianco a La strada, passando per lo sparti acque rappresentato da La dolce vita e 8½, fino ai capolavori di fine carriera quali Ginger e Fred e La voce della luna. La mostra, curata da Mauro Carrera e Stefano Roffi, ripercorre le principali tappe della vita del Maestro, partendo dagli anni come vignettista sulle pagine della rivista satirica Marco Aurelio, proseguendo con le sceneggiature per i film neorealisti di Rossellini, fino alla carriera cinematografica culminata con la vittoria, tutt’ora imbattuta, di cinque premi Oscar, quattro per il miglior film straniero e uno alla carriera.
Per gentile concessione della CSAC di Parma, sarà possibile ammirare una ricca collezione di abiti originali indossati nei film del regista, con la firma di maestri costumisti come Piero Gherardi e Danilo Donati. Inoltre, insieme a una grande raccolta di manifesti delle pellicole di Fellini, l’esposizione presenterà anche numerose fotografie d’epoca e disegni ufficiali realizzati direttamente dalla matita del Maestro.
Un’iniziativa per mantenere viva la memoria di uno dei più grandi artisti del Novecento, in grado di aprire la propria visione a tutti, rendendo partecipe il mondo delle proprie ossessioni, del proprio immaginario, dei propri sogni.
Luca D'Albis 21/03/2023
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