Durante la quarta edizione della Biennale del Disegno di Rimini 2024, sarà possibile visitare la mostra La Rosa di Bagdad. Alla riscoperta del primo film animato italiano, curata da Andrea Losavia, presso il Palazzo del Fulgor Fellini Museum.
Un gioiello all’interno della Biennale riminese: per la prima volta verrà esposta al pubblico una selezione di preziosi originali cartacei che costituiscono il lungometraggio d’animazione. Tra questi, alcuni notevoli fondali dipinti a mano firmati da Libico Maraja e Gildo Gusmaroli, ma anche rodovetri di produzione e disegni originali ricchi di dettagli e cromatismi realizzati da Angelo Bioletto.
Un episodio importantissimo della Storia del Cinema italiano viene finalmente riportato alla luce e documentato: infatti, La Rosa di Bagdad è il primo leggendario lungometraggio italiano d’animazione realizzato interamente a colori con la tecnica del technicolor.
Fu presentato durante la Biennale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1949 dopo una difficoltosa lavorazione durata quasi un decennio, interrotta più volte dagli eventi bellici.
La fatica valse la pena: dopo essersi aggiudicato il primo premio internazionale di cinema per ragazzi, il regista Anton Gino Domeneghini ricevette complimenti oltreoceano dall’illustratore per eccellenza Walt Disney. In effetti, il creativo milanese si ispirò dichiaratamente alle fantasie disneyane, unendole ai suggestivi racconti tratti da Le mille e una notte. Il risultato è una pellicola dal carattere singolare, che riunisce il lavoro di importanti artisti del panorama nazionale del tempo, rendendo La Rosa di Bagdad un capolavoro assoluto.
La mostra si completa con la proiezione integrale del film, su parete dedicata di grande dimensione, per restituire l’azione alle illustrazioni esposte. Un vero tuffo nel passato dell’animazione italiana.
La Biennale del Disegno, che conta ben 12 mostre quest'anno, avrà luogo dal 4 maggio al 28 luglio 2024, è organizzata dal Comune di Rimini e curata da Massimo Pulini.
Ailen Pasos, 30/04/2024
Il Museo Nivola di Orani, sempre propenso alla promozione di nuovi artisti attivi in Sardegna, ospiterà fino al 3 giugno 2024 la mostra Chimere, esposizione personale di Siro Cugusi. Curata da Luca Cheri e Camilla Mattola, la mostra è un viaggio nella produzione più recente dell’artista. Le pitture sono sia su tela che su carta e colpiscono per la tecnica raffinata e le molteplici suggestioni.
Il suo linguaggio artistico reinterpreta il concetto surrealista del “perturbante” e con queste opere si viene catapultati all’interno di scenari a metà tra inconscio, utopia e realtà.
Le pitture di Cugusi decostruiscono temi e generi della pittura classica. Il soggetto ricorrente del paesaggio naturale, per esempio, richiama formalmente i maestri del primo Rinascimento. Ma dal punto di vista simbolico, si avvicina di più al concetto di giardino come dimensione spirituale che ritroviamo ne Il giardino delle delizie, trittico quattrocentesco del pittore fiammingo Hieronymus Bosch.
La costruzione prospettica, che alterna tecnicismi pittorici rinascimentali a distorsioni tipiche della Metafisica e del Surrealismo, è centrale per unificare sulla tela una serie di elementi incongrui. Si intravedono parti anatomiche (che talvolta ricordano i corpi grotteschi di Francis Bacon), ingranaggi e pezzi di macchine, oggetti del quotidiano difficilmente identificabili e a volte quasi astratti.
Il grande formato conferisce alla pittura di Cugusi una qualità esperienziale: le tele creano un effetto immersivo. Tramite questi lavori, che propongono mondi paralleli, l’artista prova a costruire una personale dimensione estetica e poetica. Ma la ricerca è destinata inevitabilmente a scontrarsi con la realtà: per questo, non può che rivelarsi una chimera.
L’esposizione di Cugusi è accompagnata da un catalogo con i testi critici dei curatori. Inoltre, Chimere è stata preceduta dalla mostra della pittrice surrealista Bona de Mandiargues, connettendo spazialmente e dunque simbolicamente due diverse generazioni di artisti.
Ilaria Petroni, 24/04/2024
Arte e rigenerazione: un veicolo per restituire la bellezza.
Al fatto che la bellezza salverà il mondo, come ci dice il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij, alcune di noi non hanno mai smesso di crederci. Per fortuna. E salvare significa anche recuperare, custodire, attraverso un lavoro di cura e attenzione, che è proprio della bellezza dai canoni non universalistici, ma di quella reale, vera. In giro per il mondo non si fatica a trovarne, ma a volte ce ne dimentichiamo tra lui i luoghi che viviamo quotidianamente. Per lungo tempo Napoli ha vissuto in questo torpore. Complici, con molta frequenza, i media che raccontavano di una città sporca e criminale, senza arte né parte; un posto in cui non soffermarsi se quello che si voleva era un pacchetto ben confezionato di pizze e mandolini sotto il sole del Vesuvio, coinvolti dalla felicità, creduta perenne, degli abitanti. Quel pacchetto ora è la realtà di una città gentrificata in cui nascono più ristoranti e b&b che autentici spazi di aggregazione, in cui il consumismo facile ha avuto la strada spianata a discapito di chi, seppur con fatica, è sempre appartenuto alla città
In questa prospettiva, risulta emblematica la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto esposta in Piazza Municipio. Ideata nel 1967 riproducendo la Venere con mela dello scultore Thorvaldsen, a sua volta ispirata all’Afrodite cnidia di Prassitele, dell’istallazione esistono diverse versioni. Il 28 giugno 2023 la variante oversize viene esposta all’aria napoletana per il progetto OPEN. Arte in Centro. In quel momento, quando la Venere incontra la colata di cemento della piazza che ha coperto alberi e verde intorno, forse ancor più che in precedenza, è evidente l’intento di Pistoletto: far incontrare il bello ideale dell’arte classica e l’ordine che lo contraddistingue con un cumulo indistinto di abbandono rappresentato dagli stracci. Lì, su quel terreno, i materiali in contatto hanno scopi differenti, e il senso ad ognuno è concesso da quello che ne dà lo sguardo umano; così la Venere, che guarda verso il mare e si proietta al futuro, restituisce il valore agli oggetti dimenticati e non più degni d’importanza. Incendiata 14 giorni dopo, l’istallazione è stata nuovamente restituita alla città l’1 marzo 2024. Ancora una volta, dunque, la risurrezione di ciò che sembrava andato perduto.
Alla stessa città, un giovanissimo scultore ha affidato la chiave di lettura di molte sue opere. Stiamo parlando di Jago, nome d’arte di Jacopo Cardillo, definito da molti critici come il “nuovo Michelangelo”.
Il 5 novembre 2020, compare in piazza Plebiscito la scultura in marmo bianco di un neonato, rannicchiato in posizione fetale e con una catena a mo’ di cordone ombelicale. Il titolo è Look Down, e l’invito dell’artista è a non fermarsi alle apparenze, ma di scendere a fondo per guardare a chi, già fragile come quel bambino, è rimasto incastrato in un momento di ulteriore difficoltà per gli effetti della pandemia in corso.
Tra le strade di Roma, invece, nel 2022, esattamente sul Ponte degli Angeli, aveva fatto riporre un’altra scultura denominata In Flagella Paratus Sum-Sono pronto al flagello, con le sembianze di un migrante. Prima di essere esposta, l’opera aveva viaggiato insieme ai profughi provenienti dalla Libia sulla nave Oceans King.
Jago, da sempre interessato a dare -letteralmente- forma alle grandi sofferenze dell’animo umano, ha come caratteristica intrinseca quella di rendere il pubblico partecipe della realizzazione delle sue opere attraverso l’utilizzo dei social, probabilmente come mezzo per avvicinarlo ad un’arte, quella scultorea, espressione di un certo classicismo immaginato troppo lontano. Ma il legame con persone e luoghi è da sempre un punto fermo della sua arte. Ed è proprio per questo che è in un quartiere come la Sanità, per moltissimo tempo legato a pregiudizi e ad abbandono, che l’artista ha aperto il suo Jago Museum, nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi, riaperta e riaffidata alla città – tra le varie iniziative- grazie la mission di riqualificazione territoriale di Don Antonio Loffredo.
Ma cosa significa fare Arte in Italia nel 2024?
Esistono sia artisti singoli che spiccano, ed esistono anche fenomeni di aggregazione artistica e culturale che ambiscono e in alcuni casi arrivano a tutelare e a ridare valore a spazi abbandonati con l’obiettivo di salvare un luogo, una comunità, un ambiente, usando l’arte come comune denominatore e strumento di affiliazione.
Fra gli altri menzioniamo l’esperienza di Metropoliz, il museo dell’altro e dell’altrove di Roma, https://www.spacemetropoliz.com/, grazie anche alla supervisione dell’antropologo Giorgio de Finis. Qui molti artisti differenti, per stile e tecniche hanno scelto di dare il loro contributo. Lo spazio sulla Prenestina è ad oggi, nonostante le minacce di sgombero, un luogo che ospita diverse famiglie e all’interno del quale le attività per giovani e meno giovani si moltiplicano. Alcuni artisti dell’Accademia di Roma hanno presentato workshop e progetti adatti al luogo includendo gli abitanti del posto. Come ad esempio durante i Fiori del Maam percorso durante il quale hanno lavorato le artiste Claudia Schioppa, Suida Dushi, Alessandra Viva, Marzia Greco e Aura Monsalves Munoz. Quest’ultima dando in mano ai piccoli ospiti della ex fabbrica Fiorucci delle macchine fotografiche usa e getta catalogando e mettendo in mostra gli scatti che loro stessi hanno realizzato.
In questi luoghi l’arte è materia umana, viva, in continua fermentazione. Per citare un importante punto di riferimento nel mondo dell’arte di oggi, Cesare Pietroiusti: “Quella che non soggiace alle regole del mercato, non per motivi ideologici o per moralismi punitivi, ma perché a esser classificata come merce, manufatto con un inizio e una fine, oggetto indefinitamente spostabile, si sente appiattita e amputata. L’Opera viva è appiccicosa, si porta appresso filamenti e collegamenti con oggetti, persone, stati d’animo e relazioni.”
In molti casi queste esperienze emergono e si diffondono come per gemmazione spontanea, venendo poi, nei casi più fortunati, rese accessibili al pubblico in accordo con il Comune. Questo il caso di Cavallerizza, progetto nato a Torino nel 2014 ed esperienza di resistenza artistica contro-culturale. Un esperimento ibrido che ha dato luogo, fino al suo smantellamento nel 2019, a manifestazioni culturali di vario genere. In esposizioni annuali come HERE vi è stata la partecipazione di artisti giovani ed emergenti che hanno trovato in questo luogo un palcoscenico per mettersi alla prova. Per citarne alcuni, Lisa Redetti, classe 1993 diplomata all’accademia di Torino, recentemente espatriata in Germania per una residenza a Wiesloch. Pittrice introspettiva, che nell’utilizzo dei vuoti e dei pieni descrive la propria memoria ed esperienza di vita. Oppure Andrea Catolino, che nella rappresentazione ossessiva del proprio ritratto ad olio, va man mano modificando il proprio volto nella ripetizione di una copia che proviene dalla precedente e che quindi si modifica ad ogni successivo passaggio fino a diventare irriconoscibile.
Ma è con la TAZ, espressione traducibile in italiano con la formula Zone di Autonomia Temporanea, l’esperienza artistica con cui si può comprendere qualcosa in più su questi luoghi. Si tratta di un termine coniato in un testo del 1985 di Hakim Bey, dove viene celebrato il nomadismo psichico e viene fatta un’analisi della storia e dell’arte delle controculture degli anni ’80 e ’90.
Terrorismo poetico, PT. Hakim Bey, dedica una parte del suo libro a questo specifico modo di fare arte.
“L’arte dei graffiti ha donato un po’ di grazia a orribili sotterranei della metropolitana e rigidi monumenti pubblici. Il terrorismo poetico può anche essere creato per luoghi pubblici: poesie scarabocchiate nelle lavanderie, piccoli feticci abbandonati nei parchi e nei ristoranti, xerocopie incollate sotto i tergicristalli di macchine parcheggiate, grandi slogan di personaggi appiccicati nei cortili di parchi giochi, lettere anonime inviate a destinatari scelti, trasmissioni radio pirata…
PT è un atto nel teatro della crudeltà, che non prevede palco, né file né posti seduti, niente biglietti niente muri. Per funzionare del tutto la PT deve essere categoricamente slegata da tutte le strutture convenzionali per il consumo dell’arte (gallerie, pubblicazioni, media).”
Nel film I Cento Passi, c’è un discorso che, nonostante sia erroneamente attribuito a Peppino Impastato, da sempre difensore a gran voce di un ideale di città lontano da sopraffazioni e vili giochi di potere e per questo ucciso dalla mafia nel 1978, ci viene in aiuto per racchiudere il senso di quanto detto su: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà. All'esistenza di orrendi palazzi sorti all'improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l'abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore".
Arianna piccoli e Noemi Rinaldi
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