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La grande famiglia del cinema italiano: intervista ad Antonio Falduto

Antonio Falduto si è formato al DAMS di Bologna per poi passare ai set in veste di aiuto regia di Federico Fellini, Ettore Scola, Steno ed Ugo Gregoretti. È poi diventato a sua volta regista nel 1993 con il film Antelope Cobbler (premio speciale della giuria al Festival di Annecy) mentre nel 1998 scrive con lo sceneggiatore Ivan Orano la sceneggiatura Il cappello di John Wayne. Parallelamente è consulente per vari festival internazionali ed insegna presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma.

Innanzitutto grazie per la sua disponibilità e gentilezza. Prima domanda: in questo momento di cosa si sta occupando? Quali progetti bollono in pentola sia sul fronte accademico che registico?

"A livello professionale sto collaborando con uno sceneggiatore americano, un film che si svolgerà tra l’Italia e gli Stati Uniti. Questo è il lavoro più grosso in cui sono coinvolto al momento, per la scrittura. A livello accademico sto scrivendo un libro sul rapporto tra cinema ed architettura e sto coordinando i nostri corsi su scrittura per l’audiovisivo e tecniche dell’organizzazione dello spettacolo per la mia università UNINT di Roma".

Sappiamo che lei, oltre che essere un accademico, è anche coordinatore di diversi festival internazionali. Ci può dare qualche anticipazione a riguardo, se ce ne sono?

"Sono il consulente per quanto riguarda la programmazione e la selezione di film italiani in alcuni festival internazionali come Rio de Janeiro, Durban, Cape Town, Sydney ecc. Sono sei, sette i festival con cui collaboro, sia di cinema internazionale sia di cinema italiano. Di solito, quello che noi facciamo è presentare una selezione di film insieme ad alcuni registi e sceneggiatori, coinvolgere questi ospiti in un programma di formazione con gli studenti delle scuole di cinema locali ed anche le università in maniera tale che questi professionisti italiani possano essere utili non solo a presentare e promuovere i nostri film ma anche a formare i futuri registi, scrittori o quello che sia, locali. Questo perché per noi è molto importante, oltre alla promozione del cinema, anche tutto ciò che riguarda la formazione e gli scambi interculturali tra l’Italia e gli altri paesi".

Parliamo un attimo della sua formazione. Lei ha studiato al DAMS di Bologna. Secondo lei è un percorso d’istruzione universitaria fondamentale se ci si vuole occupare di cinema oppure no?

"Credo che dipenda da quando e dove lo fai il DAMS. Personalmente mi è stato utile perché aveva un approccio teorico interessante, insolito, avevo dei docenti che quando venivano erano dei docenti di assoluto prestigio. È vero che io sapevo di avere l’opportunità poi di abbinare lo studio teorico con una pratica che avevo fatto a Roma. Oggi so che il DAMS è molto più strutturato dei miei tempi, esiste la possibilità di vedere molto materiale, cosa che ai miei tempi era impossibile ed anche, alcune volte e solo in alcune sedi, è possibile provare a sperimentare dei percorsi di pratica cinematografica. Però non credo che quello sia il compito fondamentale di istituzioni come il DAMS: credo piuttosto che sia quello di riflettere e poi elaborare nuove visioni su quello che sono i vecchi e nuovi linguaggi audiovisivi. Quella dovrebbe essere la sua missione. Che ci riesca o no, questo è difficile dirlo. Non ho incontrato molti ex colleghi in giro per le sale cinematografiche ed i set di film. Quindi mi viene da dire che forse l’insegnamento all’epoca era troppo teorico e vago su alcuni punti e c’era troppo poco contatto con la realtà produttiva. Credo che adesso questi inconvenienti siano stati in parte superati però, anche da un punto di vista teorico, c’è molta strada da fare affinché diventi la punta di diamante del pensiero intellettuale nel campo dell’audiovisivo e non solo, delle arti in generale".

Rimanendo sempre sul tema dell’educazione e della “pedagogia cinematografica”, pensa che le scuole di cinema, che siano di regia o di scrittura, piò o meno elitarie, abbiano ancora senso di esistere oggi con i mezzi tecnici disponibili a tutti e più democratici che mai?

"Sì, assolutamente, anzi ancora di più perché il fatto che il mezzo sia più accessibile non significa che sia più democratico, secondo me. È come dare la penna in mano a tutti ma non è che aumenta il numero degli scrittori o la qualità della scrittura, in fondo. Credo che sia poi cosa ci fai con i mezzi tecnici e l’espressione. Sono importanti le scuole di cinema non solo per ciò che ti insegnano ma anche per il rapporto con tutta una serie di professionisti, per capire come ci si rapporta al mondo professionale. Insomma sono anche scuole di vita importanti. Oltre che essere momenti di confronto con altri studenti, ti danno una disciplina ed un senso di collettività che è molto importante".

Passando dalla parte dell’istruzione a quella del lavoro, della pratica, ci può raccontare come è arrivato fisicamente sul set a fianco di grandi registi italiani, da Scola a Fellini, Gregoretti ecc.?

"Assolutamente per caso, io non provengo da una famiglia di intellettuali né di artisti. Volevo fare questo, lo studiavo ed ho conosciuto per caso delle persone che erano in contatto con gli artisti, mi sono presentato ed ho iniziato a fare il quinto assistente alla regia di Fellini piuttosto che di Scola. Sicuramente era un momento, per il cinema italiano, abbastanza ricco, vivace per cui non era così complicato entrarci. Va però detto che però non erano lavori, erano assistenze volontarie, al massimo ricevevi da mangiare a pranzo, quindi era un investimento che uno faceva perché comunque era un momento importante della propria crescita professionale. Erano degli stage che mi sono autoprocurato".

In questi “stage” quali sono stati gli insegnamenti più importanti, sia in senso tecnico-pratico che di vita?

"È difficile perché se seguivi un film di Fellini apprendevi degli aspetti tecnici molto interessanti, se sapevi vederli ovviamente, anche semplicemente i movimenti della macchina da presa, il rapporto con gli attori, la ricerca stilistica. È anche vero che erano insegnamenti da prendere con la pinza perché Fellini faceva girare cinque o sei inquadrature al giorno soltanto e questo certo non è un buon insegnamento per un regista che vuole cominciare. Però stare su un set, qualunque esso sia, è molto utile perché come diceva Orson Welles “La tecnica in fondo la impari in breve tempo” e poi per tutto il resto ci vuole tempo, talento, capacità eccetera per cui dopo un film che segui come assistente hai già delle basi per poi proseguire anche da solo, secondo me. Credo che sia necessario però per chiunque voglia fare questo mestiere di sceneggiatore e regia entrare in contatto quanto prima con dei professionisti, frequentarli, capire le loro metodologie di lavoro pensando che insomma, forse, all’inizio non è il guadagno la prima aspirazione che bisogna avere, almeno non in questo settore".

Riallacciandoci al discorso iniziale sulla sua carriera internazionale tra produzioni e festival, secondo lei come si inserisce il sistema cinema italiano nel mondo di oggi e quali sarebbero, se ci fossero, delle modifiche da apportare per migliorarne il rendimento.

"Il cinema italiano ha fatto, devo dire, diversi sforzi affinché si potesse ampliare la possibilità di coprodurre con paesi anche extraeuropei. Sono stati firmati ultimamente diversi accordi di coproduzione dalle nostre istituzioni, avviati anche alcuni fondi bilaterali tra l’Italia e gli altri paesi, sia per lo sviluppo di sceneggiature che di coproduzioni ed anche diverse regioni, per esempio il Lazio, hanno istituito un fondo con altri paesi. Il nostro ministero ha istituito un fondo di produzioni minoritarie quindi la volontà di aprirsi al mondo è innegabile che ci sia. Questo non significa che automaticamente poi i nostri produttori o autori siano capaci poi di realizzare queste produzioni. È dato anche da un fatto culturale, non soltanto produttivo nel senso che, per come sono strutturati adesso i meccanismi di produzione (tax credits eccetera), spesso il produttore è tentato dal chiudere e risolvere tutto l’aspetto economico tra le quattro mura di casa perché poi ovviamente le produzioni sono anche più faticose. E anche gli autori spesso stringono gli accordi di produzione e poi però mancano le idee, mancano i soggetti per cui i produttori dicono “Sì ma se non c’è una sceneggiatura che possa funzionare tra questi due paesi è inutile firmare gli accordi o istituire dei fondi”. Oltre che sensibilizzare i produttori, bisognerebbe sensibilizzare anche gli autori".

Grazie, ultima domanda. Lei ha avuto l’onore di affiancare questi grandi registi, Fellini, Scola, Gregoretti. Qual è il set che porta più nel cuore?

"Ci sono aneddoti che mi legano a ciascuno di questi registi, più o meno grandi. Avevano però una grande capacità, erano grandi personalità. È difficile scegliere uno di loro perché poi sono fasi della mia vita importanti a cui sono estremamente legato. Devo dire che ci sarebbe da scrivere un libro ed un giorno forse lo farò proprio su cosa è stato questo momento del cinema italiano, passando attraverso le esperienze con registi che poi erano abbastanza diverse l’uno dall’altro ma legate. Una cosa che posso dire è che si conoscevano tutti, il senso di famiglia del cinema italiano era molto forte. Si conoscevano e si frequentavano tutti anche se i loro cinema potevano essere diversi. Io ho cominciato a lavorare con Ettore Scola grazie allo sceneggiatore Scarpelli che in realtà mi aveva presentato anche Steno quindi era, come dire, questa grande famiglia dove si poteva, una volta entrati, fluttuare da un ambiente o da un set all’altro, e questa credo che fosse la sua grande forza".

Carmela De Rose, Fortunato Francia 10/06/2023

"Dialogue’s Delight": il jazz e il piacere della condivisione: intervista a Olivia Trummer e Nicola Angelucci

Presentato lo scorso 5 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il nuovo disco di Olivia Trummer e Nicola Angelucci è una vera e propria conversazione musicale di cui il panorama jazz non poteva fare a meno. Dialogue’s Delight, pubblicato da A.D.A / Warner Music Italy, sancisce infatti una fertile collaborazione che dura ormai da diversi anni e che ha visto i due artisti coinvolti in una ricerca poetica impegnata, dando spazio a nuovi orizzonti musicali sulle magiche note evocate dal connubio strumentale, impreziosito dalla voce di Trummer. Pianista e cantante lei, batterista lui, entrambi compositori attivi da tempo sulla scena internazionale che li ha visti protagonisti di prestigiosi eventi e riconoscimenti, ci hanno raccontato qualcosa in più sul loro progetto, che vede anche la partecipazione del fisarmonicista Luciano Biondini. Reduci entrambi da due lavori individuali molto significativi - l’ultimo lavoro di Angelucci, Changes (2021), sanciva un cambiamento nel suo percorso artistico, mentre For You, disco di Olivia Trummer (2022), si ispirava al passato – i due artisti danno vita stavolta a un intenso “dialogo”: un termine sfaccettato, versatile, riconducibile a un genere filosofico, ma che allo stesso tempo risulta squisitamente quotidiano e necessario, catturando la bellezza dello scambio comunicativo. Proprio come la loro musica, che cela una tecnica altamente sofisticata dietro la spontaneità apparente. A Nicola Angelucci non piace riascoltarsi, ma confessa di essere particolarmente contento di questo lavoro.

La vostra è una collaborazione ormai consolidata: com’è nato Dialogue’s Delight? C’era un’idea particolare dietro?
Olivia: “Per noi suonare insieme è sempre stata una cosa molto naturale, fluida. Questo lavoro nasce dal desiderio di intrecciare in modo equilibrato quello che facciamo, ha rappresentato forse anche un po’ una sfida, creare qualcosa noi due soltanto, dato che c’è una connessione molto forte. Abbiamo già scritto musica insieme e c’era la volontà di cimentarsi con soli due ingredienti.”

C’è anche un terzo interprete all’interno del disco, Luciano Biondini, che ha partecipato al vostro lavoro: in che modo la sua musica “dialoga” con la vostra?
Nicola: “Anche se è la prima volta che realizziamo un lavoro di questo tipo, io e Olivia suoniamo insieme da diversi anni. Abbiamo avvertito la necessità di aggiungere altri suoni. Con Luciano c’era già l’intenzione di collaborare e finalmente si è presentata l’occasione. L’ho proposto a Olivia che è andata ad ascoltarlo ed è rimasta colpita dalla sua musica, per cui la fisarmonica è entrata a far parte del progetto come terza – anzi quarta, dato il duplice contributo di Olivia – sonorità, e Luciano Biondini si è subito integrato molto bene nel nostro lavoro con il suo contributo.”

Dialogue’s Delight arriva con estrema naturalezza all’orecchio dell’ascoltatore, ma è risultato di una tecnica straordinaria, complessa. Come nascono di solito i vostri pezzi?
Olivia: “È un processo sempre diverso. Normalmente, quando compongo, gli ingredienti più importanti sono le orecchie e le mani. Le mani mi danno l’idea, quando suono liberamente, improvvisando, le orecchie mi dicono quando percepiscono una certa “magia” e allora decido di svilupparla di più. Non voglio scrivere i brani se non vale la pena ricordarli e questo è un filtro che applico quando lavoro, e credo si ritrovi molto nel risultato, che è facilmente ascoltabile e semplice da memorizzare.”
Nicola: “Se parliamo del lavoro in due, abbiamo scritto qualche brano insieme; infatti, il disco presenta alcuni brani realizzati a quattro mani (e a quattro orecchie). Portoferraio, ad esempio, è stato il primo brano composto circa sei anni fa, poco dopo esserci conosciuti.”
Olivia:Portoferraio ha una sua diversità, è malinconico ma anche gioioso, è come una miniatura che ci descrive molto bene.”

Anche solo limitandosi a leggere i titoli delle tracce – Romance, When I fall in love, Dear - si ha l’impressione che ci sia una componente sentimentale, romantica.
Nicola: “Sono molto romantico quando scrivo.”
Olivia: “Abbiamo scoperto durante i concerti che i pezzi più ballabili sono quelli di Nicola, mentre quelli più ritmici sono scritti da me.”
Nicola: “Dovrebbe essere il contrario, e invece!”

Avete un brano preferito di questo progetto, o che per voi ha un significato particolare?
Nicola: “Se proprio dovessi scegliere, direi Portoferraio.”
Olivia: “Sì, diciamo che è il più sinfonico. A me piacciono molto anche i pezzi scritti appositamente per questo duo. All’inizio abbiamo attinto dai nostri repertori, poi abbiamo deciso di inserire qualcosa di più particolare, e così ho lavorato su pezzi meno recenti, che non ero mai riuscita a ultimare, per esempio Indifference, un brano composto tanti anni fa che non aveva ancora trovato la dimensione giusta. Pensando al duo mi è balenato in mente, così è nata poi la canzone, e finalmente lo possiamo presentare. Mi ha ispirato molto non avere tempo illimitato per lavorare, ma dover rispettare una scadenza.”

La copertina del disco trasmette un grande senso di armonia e semplicità – ha quasi una sfumatura favolistica, che rimanda all’infanzia - e si sposa così bene il vostro lavoro.
Nicola: “Sì, è esattamente così, Cecilia Valli si è occupata della copertina e ha fatto un lavoro che rispecchia molto noi, e la nostra musica.”
Olivia: “Sì, anche nei dettagli la copertina c’è un’abbondanza di storie, e la nostra è più una musica che racconta qualcosa invece di dipingerla. Per cui questa tecnica di illustrazione, che vede protagonisti anche gli animali, tante piccole personalità che vengono raccontate, rispecchia tanto anche l’umorismo, la leggerezza, un po’ la nostra attitudine quando suoniamo e ci sentiamo come bambini che si divertono. Un approccio serio ma gioioso.”

Un’attitudine che emerge di più quando suonate insieme?
Nicola: “Io personalmente cerco sempre di divertirmi il più possibile, siccome non mi piace mai riascoltarmi – è una percezione soltanto mia - cerco di godermi il palco. Poi magari quando scendo sono un po’ arrabbiato con me stesso.”
Olivia: “Suonare sul palco, per musicisti come noi che viaggiano molto, è un po’ come essere a casa. Io per esempio, quando suono, in un certo senso sparisco nella musica, mi dissolvo quasi in essa. Idealmente quindi è sempre vivo questo approccio curioso, fresco. Quando non riesco, è perché qualcosa non va.”

Quali sono i progetti futuri insieme, c’è già qualche data in programma?
Nicola: “Tra le prossime date insieme in Italia ci sarà senz’altro Umbria Jazz Festival (11 luglio), mentre tanti altri eventi sono previsti per il prossimo autunno.”

Annateresa Mirabella 09/06/2023

La Felicità dei miei trent’anni…di carriera! – Recensito incontra Joe Barbieri

Roma è calda, forse neanche troppo per essere giugno ma l’aria e la voglia d’estate diventa sempre più preponderante nell’animo dei suoi abitanti. Ieri mattina ho aperto Spotify per ascoltare Felicità, il nuovo singolo di Joe Barbieri nonché la cover (con una veste completamente inaspettata, coinvolgente e spassionatamente bella) del brano del 1982 che ha conquistato il secondo posto durante la trentaduesima edizione del Festival di Sanremo… e l’attenzione degli ascoltatori di tutto il mondo.

Abbiamo raggiunto telefonicamente Joe Barbieri per parlare di questo suo ultimo brano e dell’anno di festa che sta celebrando ovvero i suoi trent’anni di carriera raccontati tra il presente, un briciolo di passato ed uno sguardo (positivo) verso il futuro. 

La mia prima domanda riguarda il tuo nuovo brano, Felicità, che è uscita ieri: è la cover dell’iconico duo Albano e Romina Power che, in qualche modo, ha cullato l’infanzia di tutti noi. Un brano che, per l’adattamento che gli hai dato (un po’ jazz, un po’ bossa nova) è molto brioso, allegro e – permettimi questo azzardo – ha una sonorità molto da tormentone estivo. La domanda sorge spontanea: perché questo brano? È legato ad un particolare momento della tua vita?

“In realtà è stata una scelta molto semplice perché essendo nato all’inizio degli anni 70 ho incrociato questa canzone da piccolo. Avevo circa dieci anni e mio padre ha portato a casa questo 45 giri, assieme ai Ricchi e Poveri e tante altre cose insospettabili per quelli che sono stati i miei ascolti successivi, più simili a quelli che mi hanno influenzato nella carriera. Però si: ha fatto parte della mia infanzia. In qualche modo, questa canzone è rimasta paziente nel mio animo perché quando mi è capitato di essere ospite nel programma di Stefano de Martino, Bar Stella, mi fu chiesto di suonarla. Quindi ho eseguito questo brano in maniera molto spontanea e devo dire che mi sono anche divertito! In qualche modo è un regalo che faccio a tutti i miei ascoltatori. Poi quest’anno che compio anche trent’anni di carriera ed uno degli effetti collaterali positivi, del fatto di avere un po’ di anni di strada sulle spalle, è che lascio parlare molto l’istinto e la pancia che, come alcuni affermano, è il nostro secondo cervello. Semplicemente non ho fatto tanti calcoli ed avevo voglia di ringraziare per questo anno che è molto bello, ed ecco è un regalo: un modo di mostrare la mia gratitudine nei confronti di chi mi ascolta!”

Quindi, di conseguenza, ti chiedo cos’è per te la felicità? Suppongo la celebrazione dei tuoi trent’anni di carriera con il tour 30 Anni Suonati e poi, immagino, ci sarà anche un bellissimo rapporto con tutti i tuoi sostenitori!

“Si, è proprio così! Noi abbiamo iniziato questa festa il 6 ottobre dell’anno scorso e, a mezzanotte, sarebbe caduto questo simbolico anniversario perché il 7 ottobre 1992 partecipai al festival di Castrocaro e, da quella data, faccio decorrere questo trentennio di musica. Da quella serata, sono stati almeno una decina i concerti che ho tenuto e mi è sembrato veramente di fare una perenne festa, sera dopo sera, come immaginavo! Una perenne celebrazione dell’intimità che si è consolidata con la gente, della fiducia verso il pubblico, il riconoscersi reciprocamente… Anche perché non è che solo l’ascoltatore si rivede nei tuoi brani, ma sei anche tu che ti rivedi in chi ti ascolta: chi fa musica, si merita un certo tipo di pubblico e quando scambi due chiacchiere a fine concerto, senti che c’è un’affinità, un modo analogo di parlarsi e di offrirsi. E riscoprire questo, ad ogni concerto, è bellissimo!”

Come dicevi, il 7 ottobre decade questo anniversario ed infatti in questa data, lo scorso anno, hai pubblicato il disco live Tratto da una notte vera che racchiude, oltre a tre inediti - Retrospettiva Futura, Maravilhosa avventura, Dettagli (cover del brano di Ornella Vanoni) – un po’ questi trent’anni di musica. Un disco che, in qualche modo, è la ripubblicazione del lavoro Tratto da una storia vera (2021). Ti chiedo quindi quanta vita vera c’è nei tuoi brani e da dove arriva l’ispirazione per la tua scrittura?

“Per me è un punto d’orgoglio poter dire che la mia musica è tratta da una storia vera perché tutto quello che scrivo, nella quasi totalità dei brani, sono frutto di esperienze di prima mano, vissute e quasi tutte sono cose che ho davvero sperimentato sulla mia pelle. Alcune sono desideri, altre immaginazione che comunque, di rimando, sono un qualcosa di autobiografico. E quindi quando scrivo sembra facile (e non lo è), devo in realtà soltanto essere onesto: afferrare quella che comunemente viene chiama ispirazione e cercare di non darle tregua e chiederle fino in fondo cosa vuole raccontarmi e provare a trasportarla su un foglio.”JoeBarbieri2.jpg

A tal proposito mi chiedo: quando un artista trova il coraggio di riuscire a parlare apertamente di sé stesso, sia dei momenti belli che di quelli brutti, all’inizio è una catarsi perché riversi qualsiasi momento nelle parole e nella musica; ma nel cantare quei brani, dove poi riescono a rivedersi anche gli ascoltatori, come ci si sente? All’inizio immagino possa essere difficile ma, man mano che viene eseguita nel corso del tempo, che sensazioni lascia?

“È bellissima questa domanda! Intanto devo dirti la verità: la mia esperienza è che queste canzoni riescono a raccontarmi qualcosa anche a distanza di molti, molti anni. Ci sono serate, in particolare notti, in cui non so per quale ragione particolare, improvvisamente mi sembra di tornare al momento in cui le ho scritte. Si rivela un piano di lettura, per me stesso, che non avevo sospettato e, nel cantare quelle parole, mi sembrano nuove. Mi sembra che debba loro la stessa onestà intellettuale che ho messo nello scriverle e cantarle la prima volta. Per cui è un processo che periodicamente vivo e questo, in qualche modo, mi da la rassicurazione e la sicurezza di poter essere sincero ancora, e ancora, ed ancora. Quindi finché avrò questa percezione, non farò nessuna forzatura nel riproporre queste canzoni.”

Continuando a ripercorrere i tuoi trent’anni di carriera, prima citavamo Tratto da una storia vera che contiene diverse collaborazioni. Di tutti questi anni, c’è stata una collaborazione più significativa, dalla quale hai tratto il più possibile sia da un punto di vista professionale che personale?

“Beh… ovviamente non posso che mettere su un gradino speciale il lavoro fatto con Pino Daniele, ed è grazie a lui che questi trent’anni hanno avuto inizio, grazie alla sua esperienza e la sua visionarietà… Io non mi sarei dato due lire! Però forse è stato molto lungimirante perché le mie prime canzoni erano estremamente acerbe: di queste stesse canzoni, qualcosina la ripropongo in questo tour (per la prima volta da allora) e devo dire che sentirle, reinterpretate con esperienza, mi fa capire quello che Pino, a suo tempo, aveva visto e che io, invece, non avevo visto fino a poco fa. Però, al di là di questo, l’averlo avuto vicino, l’aver potuto sbirciare il suo modo di lavorare, di guardare all’integrità di certe scelte, mi è stato d’esempio e di enorme utilità.”

Beh, sicuramente Pino Daniele è stato uno di quegli artisti che ci ha lasciato un po’ troppo presto…

“Questo sicuramente però, quando le cose ti vengono sottratte così presto inevitabilmente si attivano, da parte di chi guarda, degli occhi differenti nel guardare le cose. Si scoprono delle cose e degli aspetti che, magari, per abitudine e pigrizia, si erano appannate. Poi Pino, soprattutto per chi è di Napoli, è stato un dio in terra! Il fatto di non averlo più tra noi, ci ha chiarito ancora di più quanto fosse un artista davvero speciale.”

Di questi anni di carriera, ci sono dei momenti che ricordi con maggiore soddisfazione, altri invece che cambieresti? Ci sono ancora degli obiettivi da raggiungere?

“Da cambiare non cambierei nulla incluse tutte le sofferenze, i patimenti, le porte in faccia che sono state tante, copiose e belle forti… Però non cambierei nulla! Il momento migliore è questo di adesso ed onestamente va bene così, anche perché di sogni, di desideri e di progetti ce ne sono tanti ancora. Mi piacerebbe lavorare per il cinema, mi piacerebbe scrivere musica strumentale… Insomma, c’è tanto da fare! Scrivo continuamente canzoni: ne ho messo in pausa una proprio ora che ci stiamo sentendo e che mi piace tantissimo! Insomma, la strada, fortunatamente, è ancora lunga e viva!”

JoeBarbieri1.jpgAd aprile di quest’anno a Molfetta hai avuto l’occasione di fare un concerto con i tuoi brani eseguiti in una chiave inedita. In particolare hai collaborato con l’orchestra Magna Grecia che ha dato una veste completamente diversa ai tuoi brani. Com’è stato ascoltarli in questo modo?

“L’orchestra è sempre stato un elemento che, negli ultimi quindici anni, ho utilizzato nei miei dischi quindi diciamo che non è un elemento del tutto estraneo. Però, dal vivo, non mi è mai successo di poterla sperimentare e devo dire che è stata la riconferma che quello è il “mio” elemento. Questo mi ha dato l’idea e la forza di pensare ad un futuro di lavoro con l’orchestra che, per me, è un elemento che mi appassiona e mi incuriosisce tanto! Mi fa venire voglia di studiare quindi sicuramente lavorerò su questo piano.”

Guardando al futuro ma degli altri, ed in particolare di tutti quei ragazzi che si approcciano alla musica mettendo su gruppi e, spesso, incidendo brani: hai dei suggerimenti o dei consigli da fornirgli?

“Soltanto di credere alla cultura del lavoro. Di ragazzi ne incontro tanti e, fortunatamente, molti non sono caduti nel tranello del risultato “cotto e mangiato”, del “tutto e subito” che si propone oggi, soprattutto nella musica. Se la cultura del lavoro si associa ad un talento sincero, la strada è tracciata. Più che un suggerimento lascerei una rassicurazione, una conferma, perché sono convinto che quando c’è l’arte e la musica è nella vita di un ragazzo, anche i momenti di scoramento e delusione non saranno mai sufficienti a fare in modo che, quella strada, non venga intrapresa. La musica viene a prendere chi ce l’ha nel destino, viene a prenderla per i capelli… se si hanno i capelli o se ne hanno pochi! (ride)”

Per i tuoi piani futuri mi dicevi che continui a scrivere, vorresti comporre per l’orchestra ed anche per il cinema… Quindi cosa possono aspettarsi i tuoi ascoltatori?

“Diciamo che qualunque sarà la strada, non tradirò la loro fiducia nel fare qualunque cosa con onore e con onestà!”

Una domanda…simpatica! Dato che il tuo cognome è facilmente associabile a quello di un noto chef, soprattutto della televisione italiana, la tua relazione con la cucina ha la stessa armonia che si respira nei tuoi brani oppure Joe Barbieri non può avvicinarsi alla cucina?

“(Ride) No, no! Guarda ho scritto una canzone qualche anno fa che si chiama Zenzero e Cannella che, in realtà, parla proprio latentemente di cucina perché per me quella famosa frase “hai mangiato” è veramente la frase d’amore più bella che si possa sentire! 

A margine di questa nostra chiacchierata volevo solo ricordare che il 30 giugno ricominciamo a suonare dal vivo! C’è un concerto speciale che è a Benevento che per me è uno dei luoghi dell’anima (perché mia moglie è beneventana) in un posto magnifico che è il teatro romano dove inviterò un po’ di amici come Fabrizio Bosso, Nick The Nightfly e qualcun altro: verranno a fare musica e ripercorreremo insieme un po’ della nostra storia comune!”

Roberta Matticola 10/06/2023

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