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Opera musicale povera e senza musica, recita il sottotitolo dello spettacolo, subito prima di specificare “scrittura scenica ispirata alle opere di B. Brecht”. La promessa, in data unica al Teatro Vascello di Roma lo scorso 9 aprile, è mantenuta: i personaggi sono, e viene più volte ripetuto, attori in scena, preoccupati di recitare innanzitutto per noi, per il pubblico. Diventiamo così lo sguardo di una società che, persino attraverso il meccanismo dell’immedesimazione, riesce a seppellire la proverbiale trave custodita gelosamente nel proprio bulbo oculare. Ma lo straniamento brechtiano di questo “Bailamme” (dal turco “bayram”: confusione, baraonda) cortocircuita la nostra pigra abitudine catartica.
Sul palco, ritroviamo un affresco sociale e politico grottesco di un mondo, tra una risata e una vena pulsante di inquietudine, di cui non possiamo tralasciare le somiglianze con il nostro. Lo spettacolo inizia per “quadri”, intervallando tantissimi personaggi diversi, peraltro impersonati con entusiasmo camaleontico da una lista di interpreti relativamente ristretta (Gabriele Ciccotosto, Silvia Corona, Arianna Iacuitto, Gioia Giulianelli, Francesco Giuliano, Beatrice Progni, Maria Sivo, Pasquale Smiraglia, Lorenzo Tracanna e Gianmarco Vettori). Ben presto, però, gli episodi collimano sempre in una vicenda unica, ampia, umana e universale. Oltre che, è proprio il caso di dirlo, cristologica.Bailamme5
La trama, infatti, affronta uno dei più grandi “e se” della narrativa esistenziale recente. E se oggi la società odierna ospitasse la venuta di un secondo Cristo? Puntuale la risposta, fantasiosa quanto cruda, cinica e convincente, dell’eccentrico universo creato e diretto da Simone Barraco. Quest’ultimo è aiutato in cabina di regia da Maria Sivo e coadiuvato da un esteso di team della Compagnia Girasole. Non ultimo spicca il nome di Arianna Manias, a gestire le voci deputate anche all’accompagnamento musicale, visto che di strumentale non c’è neanche una nota. Pregevoli anche le coreografie, danzanti o drammaturgiche, di Vincenzo Gentile, e la pletora di costumi di Davide Zanotti.
In circa 90 minuti di teatro, dunque, assistiamo al susseguirsi dolceamaro di vite alternativamente intoccabili o miserabili, con protagonisti caratteri a dir poco variopinti e dal carisma indubbio. Il custode dello Zoo Cristopher, ingenuotto elevato a messia, compare Annibale, da venditore di bestemmie a spietato neo-apostolo, Osana, prostituta dal cuore agonizzante, e la segreta élite dei potenti, nell’ingrato e impunito ruolo di burattinai della Terra. È forse questo il più grande punto di forza di “Bailamme”, come dimostri che è ancora, e sempre, possibile raccontare una storia dal respiro tanto ampio senza rinunciare a un grammo di ironia, generosa e dissacrante, o alla profondità del messaggio. Questo comincia a sussurrare la propria nenia, sottovoce, nel quadro iniziale, fino a esplodere, lirico e roboante, in quello finale. Ci lascia spiazzati, colpiti e smossi nel profondo. In una parola: commossi. Perché, Brecht o non Brecht, straniamento o immedesimazione, “essere o non essere”, in una grande storia raccontata con passione la catarsi trova sempre la sua strada.

Andrea Giovalè
13/04/2018

Recita l'adagio: la storia è scritta dai vincitori. Infatti i libri di storia parlano di invasioni barbariche, non di migrazioni, e la lingua franca nel mondo è l'inglese, non il tedesco. Ma cosa succede se si assume il punto di vista degli sconfitti? Lo racconta "Sachertorte", uno spettacolo scritto e diretto da Amelia Di Corso, andato in scena al Teatro Trastevere di Roma dal 3 all'8 aprile con i giovanissimi della compagnia L'Avvelenata. sachertorte foto3 ritaglio
È la storia di un compleanno che si trasforma in una riunione di famiglia e nell'occasione per rispolverare dagli armadi vecchi scheletri. La festeggiata è Ilse, mamma di Gertrude, Lucilla, Raimund, nonna di Samuel e di Adele. Tre generazioni e un peccato originale condiviso con una grande fetta di Germania: la collaborazione con lo stato nazista. Ilse era infermiera, lavorava con un medico che studiava una cura alla tubercolosi direttamente su una campionatura di gemelli. Samuel, adolescente ribelle tutto jeans strappati e turpiloquio, non si capacita della meschinità della nonna. Ogni scusa è buona per rinfacciarle un passato che era inevitabile per lei, giovane vedova e madre che doveva crescere una figlia piccola e non poteva permettersi di opporsi al regime: “in guerra si perde il diritto a non uccidere”, commenta algida Ilse.
Tra alti e bassi si oscilla, come il pendolo del soggiorno: risate garantite all'arrivo di Jane, fidanzata americana tutta gambe di Raimund, e dal refrain della nonna che non ricorda il nome della nipote più piccola e per chiamarla declama tutto l'albero genealogico. Più cupa l'atmosfera quando il suono di un pianoforte fa ripiombare nella Germania degli anni Trenta e gli attori, che fino a quel momento avevano interpretato zii e cugini, diventano SS la cui missione è mantenere l'ordine. Tempi comici ben studiati nel botta e risposta, nelle entrate e uscite, nella regolazione delle luci, negli inserti musicali ora evocativi ora diegetici. Particolare menzione merita la performance di Mariateresa Pascale nel ruolo di Ilse: un efficace lavoro di make-up ed uno studio della gestualità e della voce restituiscono sul corpo di una giovane movenze e cadenze di un'anziana che, magnetica, si rivela il fulcro narrativo e scenico dell'azione.
Esempio virtuoso di drammaturgia contemporanea, divertente ma impegnata, e di allestimento di poche pretese ma di buona riuscita, "Sachertorte" è la ricetta del teatro indipendente che ce l'ha fatta: un pizzico di preparazione, una spolverata di entusiasmo, buona volontà e dedizione in quantità. Seppur artigianali, gli ingredienti con i quali è farcito lo spettacolo sono genuini.

Alessandra Pratesi
12/04/2018

«Non si è mai veramente finiti fino a quando si ha una storia da raccontare». Sicuramente non con una storia come quella di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il pianista sull'oceano di tornatoriana memoria e nato dalla penna di Alessandro Baricco. Il monologo del trombettista Tim Tooney viene messo in scena sotto la mano attenta di Pablo Maximo Taddei e dietro il volto unico di Flavio De Paola, anche direttore artistico dello stesso Teatro degli Audaci, dove l'opera è in scena dal 22 Marzo al 15 Aprile 2018, dopo il successo ottenuto negli altri teatri italiani.

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La resa scenica è sicuramente essenziale, così come le note di regia, opportunamente relegate all'estro quasi favolistico del cantore De Paola, sul quale però vengono settati quei dettagli di degli psicosuoni, introdotti dal regista, in cui viene orientata l'atmosfera, resa ancora più variegata e dotata di una profondità simbolica, che arricchisce talvolta la narrazione principale, con delle intrusioni vocali poetiche sulle quali talvolta cerca di sincronizzarsi anche la voce narrante principale di De Paola.

Interessante dunque il lavoro Danilo Iannacci al suono, che segue la regia con l'ondeggiamento sonoro della voce di De Paola, che fluttua come il Virginian sull'Atlantico, e che porta a variare le timbriche e gli interventi delle voci della narrazione. Il tono docile ma esuberante di Novecento riprende sicuramente l'impostazione già data da Tim Roth nel film di Tornatore: difficile, infatti, non prendere le mosse dalla riuscita interpretazione del regista siciliano alla luce di un'atmosfera quasi onirica e favolistica di cui è -naturalmente- intinto il monologo baricchiano.

L'incursione dell'accento siciliano di Tim Tooney non risulta per nulla macchiettistica, ma dona quel colore abbastanza personale che rende la scena -ed il racconto- personali e sinceri. Un'onestà di fondo, lontana da qualsivoglia presunzione, sembra essere quel sentore che rimane dopo che le cariche di dinamite fanno esplodere il transatlantico da crociera, unica casa di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento.novecento1

Interessanti e -anche loro- mai pleonastiche o invadenti le musiche di Vincenti Mareri, che fanno da contrappunto ai racconti del pianoforte che danza nella tempesta, della sfida con Jelly Roll Morton, l'inventore del jazz, della prima volta in cui il ragazzino nato su una nave si ritrova nella sala dei ricchi a mettere le mani su un pianoforte.

Un monologo e un racconto di sicuro impatto, quello in scena al Teatro degli Audaci, che vale la pena rivivere anche in questa sua veste più mite e serena ma non per questo priva di fascino.

 

Davide Romagnoli  08/04/2018

«È solo che prima ero tutto per lui e ora non sono più niente»: sintetizza così il suo malessere Paula, 31 anni e una storia d’amore fallita alle spalle. Non si rassegna all’idea di essere stata gettata tra i panni sporchi, per questo telefona, citofona, bussa alla porta dell’uomo che di punto in bianco ha deciso di non volerla più con sé. La storia di Paula inizia proprio dinanzi all’uscio di casa di lui, è inquadrata di spalle (così come molte altre volte nel corso del film), urla che le venga aperta la porta e la colpisce con la testa, in preda all’ira, per poi svenire e finire in ospedale con una ferita sanguinante sulla fronte. È il punto più basso che la protagonista tocca, necessario per iniziare il suo percorso di maturazione e presa di coscienza, il suo cammino verso la libertà e la riappropriazione di se stessa.

A dare corpo e voce a Paula in “Jeune femme”, opera prima di Léonor Serraille (sue regia e sceneggiatura), è una impeccabile Laetitia Dosh, perfetta in questo ruolo di donna borderline, che dovrà toccare picchi bassissimi di povertà (umana ed economica) per potersi risollevare. La pellicola ha chiuso la quarta giornata di “Rendez-Vous – Festival del Cinema Francese”, a Roma fino al 10 aprile, rassegna che poi si sposterà a Bologna, Firenze, Milano, Napoli, Palermo e Torino per portare il meglio della filmografia contemporanea d’oltralpe, 

"Jeune femme” è stato in gara al 70esimo Festival di Cannes nella sezione Un certain Regard. Sempre nel 2017 ha vinto il premio come Miglior film francese indipendete al Champs-Élysées Film Festival. Nonostante porti sul grande schermo una storia già vista, letta e sentita, quest’opera prima di Léonor Serraille ha il merito di raccontarla con semplicità e fluidità. Il vero punto di forza è certamente l’interpretazione di Laetitia Dosh, che nonostante tutti i difetti del suo personaggio ce lo propone con una energia e una veridicità tali da non passare inosservati .I 96 minuti di durata del film si reggono interamente sulla sua interpretazione convincente, calzante e appassionata, che ci restituisce un ritratto dettagliato della protagonista. 

Paula è fragile, stravagante, a tratti isterica, incostante ma anche ironica, certamente problematica e difficile da gestire, molto bugiarda. Dice di essere esperta di bambini per essere assunta come baby sitter e si definisceJeune femme 1 una persona organizzata e maniaca dell’ordine e della pulizia per entrare come commessa in un negozio di intimo. Non esita a fingersi un’altra persona quando una bella ragazza di nome Yuki (Léonie Simaga) la scambia per una sua vecchia compagna di scuola. Paula diventa Sarah, per convenienza, per diventare qualcosa in quel suo sentirsi un informe nessuno senza meta, senza famiglia e senza amici. Paula, insomma, è un personaggio profondamente umano e quella cicatrice sulla fronte che si procura a inizio film la accompagnerà fino alla fine, come a ricordarglielo e ricordarcelo. Ma invece di soccombere trova la forza di risollevarsi. Anche quando il suo ex fidanzato Joachim (Grégoire Monsaingeon) torna alla carica lei lo respinge, non torna sui suoi passi: l’uomo non sopporta di essere stato dimenticato, non tollera che la vita di lei sia andata avanti e si rifà vivo. «Non mi ami più?», le chiede. «Nemmeno tu mi ami più» risponde Paula. La donna ha ormai raggiunto un nuovo livello di consapevolezza, grazie anche alla conoscenza di Ousmane (Souleymane Seye Ndiaye) e alla scoperta di aspettare un bambino, notizia che la metterà di fronte ad una decisione importante da prendere.

A fare da sfondo alla storia di Paula è la città di Parigi, ma non la Parigi dei cliché che incanta e seduce, ma una città inospitale, una metropoli ostile che ti divora. Il continuo vagabondare della donna si snoda attraverso una giungla di facce stanche nelle strade di periferia, di affollati treni, di squallide stanze d’albergo e ospedali. Inquadrata di spalle è solo una tra le tante Paula, quasi non ci si accorge di una sua caratteristica fisica particolare a cui accenna Yuki: quella di avere gli occhi di due colori diversi. Il primo piano che chiude il film e che ce li mostra in tutta la loro limpidezza è emblematico proprio per questo.

Giuseppina Dente 08/04/2018

In una società come la nostra, tra stimoli televisivi, letterari, pubblicitari, cinematografici, politici e persino teatrali, abbiamo la percezione di conoscere ogni cosa. Conosciamo i nostri desideri a menadito, i nostri limiti, le nostre capacità e le nostre paure. Abbiamo paura, ad esempio, di tutte le malattie che non abbiamo, dai nomi altisonanti e che vediamo rappresentate, per l’appunto, ogni serie televisiva su due, sul grande schermo, o quelle di cui sentiamo parlare al telegiornale. E per quanto riguarda le cose, anzi, le malattie che non conosciamo? A rigor di logica, non possono intimorirci. Ma forse dovrebbero.
Questa è la prima, ma non ultima, riflessione che emerge da “Monsieur Sjogren e il coraggio di una donna”, andato in scena al Teatro Brancaccino di Roma, in data unica, lo scosjogren 1rso 29 marzo. Dalla penna di Elena Tommasini e di Stefano Sarcinelli, anche regista, interpretato dal duo Sarah Maestri-Adelmo Togliani, lo spettacolo è ispirato dal libro “La sabbia negli occhi” (da cui anche l’omonimo film di Alessandro Zizzo, con lo stesso Togliani) di Lucia Marotta, presidente di A.N.I.Ma.S.S. Onlus (Associazione Nazionale Italiana Malati Sindrome di Sjogren), che ha co-prodotto la pièce teatrale con Accademia Togliani. La Sindrome di Sjogren è una condizione auto-immune e degenerativa rara, che colpisce in gran parte donne e che, soprattutto, è sconosciuta ai più. Benché, dunque, la malattia produca nel tempo sintomi terribili, il dolore più grande viene inflitto proprio dal non sentirsi compresi, o quantomeno creduti.
La partita si gioca quindi tra la donna, un’empatica Sarah Maestri (“Notte prima degli esami”, “Il pretore”) capace di rappresentare entrambi gli opposti di un complesso dramma psicofisico e la sua sindrome personificata da Adelmo Togliani (“Boris – Il film”, “Un matrimonio”). Quest’ultimo, senza perdere un colpo né calare un secondo di intensità, si trasforma da gentiluomo d’altri tempi tutto eloquio e rime baciate a essere grottesco, sporco e maleodorante, sudiciamente e scarsamente vestito. Nella battaglia, che si fa presto guerra, la vittima non perde soltanto la padronanza del proprio corpo, ma quella dei suoi affetti e delle sue certezze. Eppure, quando le rimane da sacrificare solo la sua anima, proprio la donna trova una rivincita nel riconoscimento medico della sindrome, ormai partner di una vita. Creduta e riunitasi alle altre donne che soffrono come lei, ecco che rialza la testa, la voce e lo sguardo di fronte a un nemico che, spogliato (dentro e fuori di metafora), si rivela poco più di un germe fragile e impotente. Perché conoscere il proprio destino equivale a dominarlo, almeno abbastanza da non averne più paura, da non esserne schiavi.
Il tutto si svolge in un dialogo continuo tra l’uomo e la donna, che lascia intravedere stralci allegorici di conflitto sessista, arricchito peraltro da un ampio citazionismo musicale e culturale. Durante lo spettacolo, abbiamo modo di assistere a brevi numeri cantati, danzati, così come capita di ridere o trattenere il respiro. È un viaggio temporale all’interno di una stanza, che guarda al passato e al futuro attraverso il racconto, il ricordo, le emozioni e le parole. E niente, meglio di un’esperienza del genere, è più adatta a insegnare, con l’inganno furbo (e giusto) dell’intrattenimento.
Sjogren 2La stessa Lucia Marotta, autrice di tre libri narrativi e divulgativi (oltre al già citato “La sabbia negli occhi”, la fiaba illustrata “La Principessa Luce – Lo gnomo Felicino” e “Dietro la Sindrome di Sjogren”), attraverso questo spettacolo ci mette in guardia dalla presunzione di conoscere ogni cosa, che forse è essa stessa il nostro peggior male. La Sindrome di Sjogren, tutt’oggi, non gode ancora nel nostro ordinamento dello status di malattia rara, campagna per cui si batte A.N.I.Ma.S.S. Onlus e, di riflesso, “Monsieur Sjogren e il coraggio di una donna”. Aperto infatti un sottile sipario rosso, davanti ai nostri occhi si muove, canta e balla la prova vivente (presto in tournée nei teatri italiani) che in determinate situazioni ogni piccolo aiuto può fare la differenza tra una spirale di sofferenza e una vittoria che vale una vita. Anche un gesto apparentemente minuscolo, quale sollevare una cornetta che squilla e parlare.
Andrea Giovalè
4/4/2018

 

Fotografie di scena: Giancarlo Fiori

Sipario rosso, buio, silenzio e atmosfera di sorpresa. È ciò che accade pochi attimi prima dell’inizio di ogni spettacolo teatrale. Ma si tratta di qualcos'altro: si sente infatti una musica lontana, gridi di guerra. Nell’oscurità, un fascio di luce illumina di taglio Alessandro Mannarino e la sua chitarra acustica. Tra le tappe del tour del cantautore romano, il Teatro Verdi di Firenze, ormai infestato dagli spiriti dei personaggi che abitano il suo Impero: Marylou, Deija, Babalù e i tanti animali tra cui i pesci del mare. Dopo più di quindici anni di carriera Mannarino ha creato un vero regno ma l'"Impero crollerà", il suo scopo è distruggerlo: «qualunque sia il tuo Impero, ovunque si trovi, qualsiasi nome abbia, ci deve essere da qualche parte un suono che lo farà crollare». La scelta di esibirsi nei teatri italiani è curiosa: si tratta della ricerca di uno spazio più intimo? Di un altrove sacro e ancestrale per mostrare i suoi dei? Un’operazione di protesta nei confronti dei luoghi comuni? Sperimentazione artistica?
Presentandosi come cantastorie, figura ormai Mannarino fotodiPaoloPalmieri1perduta, Mannarino pratica un recitar-cantando che ricorda qualche grande cantautore del passato; narra fiabe per adulti in cui non critica ma stimola la riflessione su temi più che attuali. Discutere di politica, religione, scienza, crudeltà umana, amore, famiglia, solitudine, paura e attrazione per l’ignoto non lo spaventa e se nelle prime canzoni lo faceva senza filtri, adesso usa sottili metafore; prendendo le distanze dal tema trattato, stimola un discorso critico disincantato, oggettivo, sincero. Si rivolge a personaggi diversi incontrati per strada o nei suoi viaggi. Nel tour 2018 porta con sé brani tratti dall’ultimo album "Apriti Cielo" (“Roma”, “Apriti Cielo”, “Arca di Noè”, “Babalù”, “Le Rane”), da "Al Monte" (“Malamor”, “Deija”, “Gli Animali”, “L’impero”, “Scendi Giù”, “Al Monte”, “Le Stelle”), e indietro nel tempo da "Supersantos" ("Rumba Mannarino fotodiPaoloPalmieri3Magica", “Serenata Lacrimosa” w "Marylou") e dal "Bar Della Rabbia", con versioni riarrangiate di “Tevere Grand Hotel” e “Me So’ Mbriacato”. Notevole la versione personalizzata di “Ultra Pharum”, il nuovo singolo composto con Samuel, alla cui musica associa le parole de "L'Onorevole".
Ogni titolo è una storia, ogni album un pellegrinaggio. Pensiamo ad "Apriti Cielo", esito artistico di un viaggio in America Latina. In quest’occasione assorbe e sperimenta sonorità etniche, come già in parte aveva fatto con “L’impero” e con i ritmi popolari italiani e balcanici degli album precedenti. I ritmi latini fanno danzare l'anima e l’organico strumentale, già ricchissimo, accoglie nuove idee dall’esterno. L’Impero di Mannarino è supportato da un esercito di musicisti poliedrici e di talento che non solo lo accompagnano, ma si esibiscono con lui in un unico e perfetto meccanismo contrappuntistico.
La scenografia è costruita su atmosfere ricche di ombre che rimandano a foreste esotiche inutilmente colonizzate. Una bandiera si innalza dai fumi del sottobosco e si fa guidare da un caldo vento. Un manifestante e un onorevole amplificano la propria voce con un megafono; sui visi, segni tribali di battaglia. Gli interpreti si esibiscono in penombra, quasi insinuandosi nel golfo mistico, facendosi sentire prima che vedere. La musica è palpabile, le vibrazioni sonore si fanno via via più forti fino a far crollare idealmente l’Impero dei pregiudizi che avvolge il nostro quotidiano, per trascorrere una serata di libertà in mondi incontaminati e per concludere con un grido di spensieratezza. E ricordando, infine, che dopo la spensieratezza di una sera in compagnia, si torna a casa guardando le stelle e chiedendo loro risposte, dimenticando che non sono altro che lo specchio in cui si proiettano i nostri pensieri.

Dove va a finire
il profumo delle stelle
che da qui non si sente…

Dopotutto, ognuno lotta contro il proprio Impero interiore.

Foto: Paolo Palmieri

Benedetta Colasanti 27/03/2018

 

È il 1908 quando Robin Hood, eroe del folklore inglese, fa la sua comparsa in un film muto di Percy Stow. Da qual momento in poi le ricorrenze di questo personaggio in produzioni di svariato genere si sono moltiplicate. L’interesse per questa figura, emblema di coraggio e lealtà, non si è mai placato, stimolando la fantasia di registi e scrittori. Troviamo Robin Hood o versioni a lui ispirate nel cinema, in tv, in cartoni animati, fumetti e videogiochi. Ultimo dal punto di vista temporale è il musical prodotto da Tunnel e Medina Produzioni dedicato al coraggioso eroe che rubava ai ricchi per donare ai poveri.

Robin Hood – Il Musical” di Beppe Dati incanta grandi e piccini. Stavolta la regia è firmata da Mauro Simone, che raccoglie il testimone di Cristian Ginepro. A lui era affidata la regia del primo allestimento (stagioni 2008/2009 e 2009/2010). Fino a domenica 25 marzo lo spettacolo sarà in scena al Teatro Brancaccio di Roma, per poi spostarsi ad Aosta, Milano e Assisi. A vestire i panni di Robin Hood e Lady Marian troviamo Manuel Frattini e Fatima Trotta. Lui dopo una lunga carriera in TV ha intrapreso la strada del teatro musicale, comparendo in numerose produzioni di successo (tre le ultime "Pinocchio" e "Peter Pan"). Lei approda al teatro dopo diverse esperienze televisive, ultima in ordine temporale ma non di importanza quella alla conduzione di "Made in Sud", che le ha fruttato il Premio Personalità Europea 2011 nella categoria Trasmissione Rivelazione dell'Anno.

Robin Hood – Il Musical” è una storia di amore, inganno, avventura, ambizione e racconta un mondo fatto di banditi, damigelle, arcieri, servi e avventori. Le coreografie di Gillian Brice mescolano jazz e tip tap in un mix piacevole che funziona. La scenografia fonde elementi mobili e colorati sfondi 3D, rimanendo comunque essenziale seppur vivace. Gli sgargianti costumi risultano coerenti col quadro scenico proposto.

«Bisogna vivere senza paure» cantano in coro i due protagonisti, che sfidano il mondo ingiusto che li circonda e che li vorrebbe dividere e sopraffare. Primo tra tutti Giovanni (fratello di Re Riccardo I), uomo assetato di potere, Robin Hood 1codardo e villano, il quale fa credere che Cuor di Leone sia morto, pur di usurparne il trono. Con lui, nella schiera dei cattivi, il suo subdolo consigliere (non a caso chiamato Sir Snake, vestito come un serpente) e lo Sceriffo, uomo legato ai soldi e vanesio. Ad aiutare i due innamorati ci sono invece il simpatico Little John (fidato amico di Robin), Lady Belt (confidente di Marian), il saggio e affettuoso Fra Tuck e tutti i compagni di avventura dell’eroe.

«Non rubo ai ricchi per dare ai poveri, faccio girare il danaro», dice ammiccante il bandito/giustiziere che è un gentiluomo generoso, determinato e fedele. Oltre a vendicare i soprusi subiti da lui e da tutto il popolo inglese (trascinato in miseria e in continue guerre) vuole coronare il suo sogno d’amore con la bella e ribelle Marian. 

Lo spettacolo non incide in particolar modo dal punto di vista recitato o cantato, ma è gradevole e leggero, adatto a tutta la famiglia, anche se strizza l'occhio in particolar modo ai più piccoli. Robin e la sua Marion avranno il lieto fine che meritano.

 

Giuseppina Dente 24/03/2018

Bandane, skateboard, tute colorate e sneakers insieme a calze a rete, scarpe col tacco, paillettes e camicie: “Break the tango” è lo spettacolo dove la strada e la milonga si uniscono, rompendo le righe e superando i confini tra due danze molto diverse tra loro per origini, linguaggi musicali e codici di movimento. Da un lato la break dance e dall’altro il tango, che si sposano aderendo perfettamente alla musica e ai corpi dei ballerini. Sullo stesso palcoscenico c’è posto sia per la sfrontatezza e il dinamismo dell’una che per la fierezza e la sensualità dell’altro.

In scena fino al 25 marzo presso il Teatro Olimpico di Roma, “Break the tango” è al suo primo tour in Italia e questa nella capitale è l’ultima tappa, dopo aver toccato Milano, Trieste, Torino, Genova e Bologna. Nasce da un’idea dell’argentino German Cornejo, che oltre ad essere creatore è anche direttore artistico e coreografo di questo spettacolo che ha girato il mondo e collezionato una serie di sold out: al Maag Halle di Zurigo, al Casino de Paris di Parigi, all’Admiralspalast di Berlino, al Museumsquartier Halle di Vienna. Con lui in scena la sua storica partner, Gisela Galeassi, altri tangueri di altissimo livello (Nicolas Schell, Noelia Pizzo, Ezequiel Lopez, Camila Alegre, Edgar Luizaga, Pamela Pucheta, Martina Waldman, Josè Fernandez, Mariano Balois, Micaela Sina) ed eccellenze del mondo della street dance provenienti da ogni dove (l’italiano Jonathan Anzalone, Henry Monsanto, Gil Adan Hernandez Candelas, Kwangsuk Park, Cho Joo Hyosung, Dol Jinhyoung Park). 

Lo spettacolo si avvale di musica live che costituisce un valore aggiunto, soprattutto in termini di coinvolgimento del pubblico. Perché “Break the tango” è, sì, un viaggio nella fisicità e nella danza, ma anche nellabreak the tango 2 musica: infatti si spazia dal pop (Adele, Cranberries, Shakira, Beyoncé) a classici della tradizione argentina. La potente voce di Gisela Lepio e quella calda di Luciano Bassi si accompagnano a quattro strumenti: piano, chitarra, bandoneon e batteria.

Cornejo e l’intero corpo di ballo si esibiscono in acrobazie, salti, passi a due, prese spettacolari: nello specifico lui e Gisela Galeassi riescono ad essere credibili e fortemente presenti sulla scena anche quando non eseguono coreografie di coppia riconducibili prettamente al tango. Ma quando si avvicinano e si mettono in posizione per eseguire la loro specialità l’atmosfera si scalda e si percepisce la sensualità, la forza, la bellezza dei loro movimenti. Occhi, sguardo, gambe, mani: l’affiatamento tra i due, il loro talento e la tecnica impeccabile sono evidenti. Non a caso i due vantano oltre 40 medaglie d'oro vinte nelle competizioni nazionali nonché il prestigioso titolo di Campioni Mondiali di Tango, conquistato nel 2003 e nel 2005.

"Break the tango" vince quella che sembrava una sfida persa in partenza: unire con convinzione due mondi distanti e apparentemente inconciliabili. Street dance e tango acrobatico vengono amalgamati e sovrapposti, così da fare emergere le specificità di ciascun ballo e al tempo stesso creare anche un linguaggio nuovo, audace e moderno. Questo incontro-scontro fa battere le mani e portare il tempo coi piedi, fa respirare contemporaneamente l'aria di Buenos Aires e quella di New York senza mai sentirsi fuori posto. 

Giuseppina Dente 22/03/2018

Dall’8 al 18 marzo Mariné Galstyan è stata protagonista assoluta del Sala Uno Teatro di Roma con “Se la terra trema”, storia di una donna, scritta e interpreta da un’altra donna: la regista, scrittrice, acrobata e ballerina Maria Inversi, che in questo testo ha sdoganata anche tutte le doti da poetessa.


Se la coincidenza della data d’esordio con quella della Festa delle Donne non pare assolutamente casuale, la sua vicina con le recenti elezioni politiche è altrettanto significativa. Il monologo è costituito infatti da un costante flusso di coscienza di una donna, di cui non si conoscono né nome né provenienza o direzione, ma di cui diventa ben presto chiaro che la tragica situazione in cui si trova abbia un forte legame con gli avvenimenti geopolitici del nostro presente. Sola, abbandonata o forse dispersa, questa donna si risveglia in luogo desolato e distrutto – un bosco, sì, ma pieno di macerie-, vittima anch’esso dell’evento catastrofico che ha segnato la vita della protagonista. Non sapremo mai di cosa si sia trattato. Potrebbe essere stato un terremoto, come il titolo lascia presagire. Ma non per forza. Tant’è che come ci ha raccontato la stessa Inversi l’idea dello spettacolo è nata prima dei recenti sisma che hanno colpito il nostro Paese e non solo. Il suo fulcro è bensì «l'idea che le guerre siano sempre state dannose e che gli europei vi abbiano una responsabilità immensa». E anche alla guerra ci viene effettivamente da pensare o, meglio, alla fuga da una guerra, dati i ricordi che piano piano emergono nel racconto che la nostra donna fa a sé stessa prima ancora che al pubblico. 29257746 1339574492814633 9008773145506611200 o


È una donna che è fuggita dalla sua terra, costretta ad abbandonarla a malincuore nella speranza di trovare un futuro migliore, ma che nel suo viaggio verso la Terra Promessa ha perso tutto, compresa la vista. Una cecità fisica che rende la protagonista ignara della sua posizione quanto lo sono gli spettatori, ma che le permette di guardarsi dentro come mai prima pare aver fatto. Lo spettacolo mette in scena così un viaggio, ma non verso un luogo, bensì nell’intimo di questa donna, che con il suo vissuto diventa simbolo e voce di tante donne e tanti uomini. Anche letteralmente. La sua lingua è infatti uno slang poetico in cui si intrecciano numerosi idiomi: non solo italiano, ma anche tanto francese, spagnolo, inglese, tedesco e non solo. Un multilinguismo come segno della sua peregrinazione nel mondo, ma anche della trasversalità dei suoi temi.


D’altro canto il suo essere poliglotta, viaggiatrice, ma anche cantante, ballerina e poeta la lega fortemente alle due donne che l’hanno ideata e messa in scena. Due donne che il mondo lo conoscono bene avendolo viaggiato e studiato molto. Non dimentichiamoci che la Inversi è la laureata in lingue e che la Galstyan ha un forte legame con la sua terra d’origine, l’Armenia, dalla quale lei stessa è emigrata. Uno spettacolo ricco quindi di spunti di riflessione – autobiografici o politici -, intenso, struggente, che certamente non lascia indifferenti, pur non risultando sempre di facile fruibilità.


20/03/18 – Virginia Zettin

Klimt Experience” ripercorre la vita, il contesto storico, la produzione del grande artista austriaco Gustav Klimt (Baumgarten, 14 luglio 1862 - Vienna, 6 febbraio 1918), attraverso un’esperienza multimediale immersiva fortemente coinvolgente.

La mostra arriva a Roma dopo aver suggestionato la Chiesa di Santo Stefano al Ponte di Firenze, il MUDEC di Milano e la Reggia di Caserta per un totale di oltre 250 mila spettatori: sarà aperta al pubblico fino al 10 giugno presso il Complesso Monumentale San Giovanni - Addolorata. La selezione della produzione è a cura dello storico dell’arte Sergio Risaliti, mentre il regista Stefano Fomasi si è occupato di coordinare la “messa in scena”. Prodotta e organizzata da Crossmedia GROUP in collaborazione con Azienda Ospedaliera San Giovanni - Addolorata, “Klimt Experience” riproduce oltre 700 immagini con definizione Full HD attraverso proiettori laser del sistema Matrix X-Dimension. Poi ci sono le accuratissime ricostruzioni 3D della Vienna di inizi Novecento e la straordinaria potenza della colonna sonora, diffusa da un impianto Dolby Surround di ultima generazione. 

“Aria sulla Quarta Corda” di Bach, “Inno alla Gioia" di Beethoven e ancora Mozart, Strauss, Wagner: la musica accompagna dolcemente lo scorrere delle immagini nella prima enorme sala, dove si può godere di una vista senza paragoni grazie a più pannelli affiancati, di dimensioni notevoli, che si estendono soprattutto in altezza. Il racconto visivo si snoda tra la vita e la produzione dell’artista passando per alcune sue celebri citazioni: «Sono bravo a dipingere e disegnare, lo credo io stesso e lo dicono anche gli altri, ma non sono sicuro che sia vero». 

È un’esplosione di colori, ma è l’oro che domina sovrano, illuminando gli schermi e riempiendo completamente gli occhi. La produzione “aurea” di Klimt è il frutto del suo viaggio a Ravenna, città dove conobbe lo sfarzoKlimt Experience 2 dei mosaici bizantini che lo affascinarono profondamente con la loro ricchezza e brillantezza. Basti pensare al celeberrimo “Il bacio”, ma anche “L’albero della vita” e “Le tre età della donna”. Proprio quest'ultima opera, un olio su tela, è conservata a Roma, presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna. 

La “Klimt Experience” si sofferma anche sulle figure femminili dei dipinti (“Portrait of Emilie Flöge”, “Signora con cappello e boa di piume”, “Giuditta I”, “Ritratto di Adele Bloch-Bauer I”) e sui paesaggi (“Campo di papaveri”, “Beech Groove I”). Tutto è dominato da grande sensualità e armonia, gli altissimi schermi consentono di ammirare ogni singolo dettaglio delle opere, ingrandite e valorizzate così da esaltarne la bellezza e la complessità. 

Nella Sala degli specchi ai giochi di luci e colori si aggiungono gli effetti ottici dovuti alla presenza di pareti a specchio. Il visitatore viene circondato completamente, come fosse in una scatola e si trova coinvolto sotto ogni prospettiva possibile dalle immagini proiettate, non solo lateralmente ma anche sopra la sua testa e sotto i suoi piedi. 

Il percorso si chiude in uno spazio dove a disposizione dello spettatore ci sono degli Oculus Samsung Gear VR, proposti per la prima volta al mondo in una mostra dedicata a Gustav Klimt. La app consente letteralmente di immergersi all’interno di quattro celebri opere di Klimt. Di ciascuna si può percepire tridimensionalmente ogni dettaglio, rimanendo inglobati nelle forme e nei colori: dal verde dell'erba al rosso del fuoco allo scintillio dell'oro.

"Klimt Experience" è l'occasione per ricordare e omaggiare il pittore austriaco a 100 anni esatti dalla sua morte. Il percorso espositivo mira sì all'approfondimento di questa illustre personalità del mondo dell'arte novecentesca, ma soprattutto al coinvolgimento, non solo mediatico, ma soprattutto emotivo e sensoriale. 

Giuseppina Dente 15/03/2018

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