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FIRENZE – “Tu da che parte stai? Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando?” (Francesco De Gregori, “Chi ruba nei supermercati?”)

Auchan, Coop, Esselunga, Carrefour, Conad, Crai, Despar, Eurospin, Lidl, Metro, Sigma, Pam, Penny, Unes, GDO, Famila, Panorama, Md, Emmezeta, Billa. E sicuramente ne stiamo dimenticando qualcuno. Sono solamente alcuni dei marchi e dei brand di supermercati che invadono le nostre città, con i colori, le luci, le offerte, le promozioni. Store, Iper, discount. I dati del 2018 ci dicono che sul territorio nazionale i punti food al dettaglio erano quasi ventiseimila. Oggi, a due anni da questa indagine, saranno anche aumentati. Quindi l'esperimento di musical moderno di “Supermarket”, caramellato con patina scherzosa e leggera, poggia le basi su un oggetto pressante e presente nella nostra economia, nella gestione-organizzazione del tempo di ogni individuo e famiglia, persistente nel nostro quotidiano tra spot in tv, volantinaggio nella cassetta della posta e la famigerata spesa con tanto di carrello sferragliante da colmare fino all'orlo.Q7B5921.jpg

“Spendere è molto più americano di pensare”. (Andy Warhol)

Il supermercato come emblema del consumismo, simbolo del capitalismo, bandiera dello spreco. Il carrello riempito poi (di cibi che non cucineremo, che scadranno, che forse nemmeno ci piacciono) ci fa sentire bene psicologicamente, ci fa sentire appagati. Il supermercato visto come grande microcosmo di indagine sociale e antropologica dove le nostre pulsioni entrano in contatto, dove il cibo, e il suo accaparramento, ci fa regredire allo stadio primordiale.

“Relatività: nei supermercati tre per due non fa sei”. (Fulvio Fiori, Umorismo Zen”)

Come detto, l'idea di questo “Supermarket” (lavoro cult della scorsa stagione, prod. Elsinor) comincia molto bene sfibrandosi con l'andare, con lo sciorinamento delle canzoni (sempre molto simili se non proprio ridondanti), con l'avanzamento delle storie che dentro questo fabbricato prendono corpo. Molte vite, molte anime si agitano davanti alla cassiera ma ogni piccolo Vaso di Pandora viene aperto senza poi una giusta e degna conclusione, lasciandoci in un coitus interruptus che non ci fa gridare “Wow” ma ci fa, al massimo, aggiungere un “Carino” che poco sposta e muove. rfegrgr.JPGMa, ripetiamo, c'erano tutte le carte in tavola perché il prodotto bucasse veramente e facesse davvero centro.

“Un tempo creavano civiltà. Adesso costruiamo ipermercati”. (Bill Bryson, “Una città o l'altra”)

Una decina di canzoni, divertenti, ironiche, pungenti, con coreografie stoppate e bloccate (ci ha ricordato il gioco infantile dell'“1, 2, 3 stella”), su questo mondo che ben ci raffigura, un affresco perfetto della nostra società. C'è la riflessione sul fatto che ci sia poca gente e che siamo stati fortunati, per poi accorgerci che la folla sta arrivando e che tutti, come noi, abbiano pensato a fare la “spesa intelligente”, c'è la domanda amletica davanti allo scaffale o con il prodotto in mano “Lo prendo oppure no?" che ci tormenta e attanaglia, c'è l'immancabile coda alla cassa e il numerino da prendere per il banco dei prodotti freschi, c'è la promessa, l'impegno e il buon proposito per il futuro che “stavolta non farò scadere niente”. Un arcobaleno di figure affollano il capannone con i prodotti lucenti: la coppia con lui premuroso, l'attrice disoccupata, il single che ci prova con tutte in fila alla cassa, la signora impellicciata, quello contro il PD che ci ha ricordato John Goodman ne “Il Grande Lebowski”, lo sportivo attento alla linea, l'ingenuo titubante.

“Entriamo in un supermercato convinti di scegliere. È da anni che non scegliamo più, ci fanno scegliere tra cose tutte identiche”. (Beppe Grillo, “Tutto il Grillo che conta”)

Ed assieme a queste situazioni ed a questi personaggi, immancabili sono anche i prodotti bio, i nazi-vegani, le gallette, la soia, il tofu, e soprattutto la voce, Supermarket-1.jpgcome deus ex machina, che dall'alto ci informa, ci dirige, ci instrada, qui grottescamente e assurdamente (ci ha ricordato la voce fuori campo ne “Ci scusiamo per il disagio” de Gli Omini), verso cibarie ed opportunità, sconti miracolosi e proposte imperdibili. Ne viene fuori un caos brillante e spumeggiante che ci mette davanti l'immagine di come siamo, e di come ci trasformiamo, con un carrello in mano in mezzo a tanti altri come noi affannati, indaffarati, affamati, famelici, assatanati alla ricerca del miglior rapporto prezzo/qualità, toccando la frutta per carpirne i segreti e la freschezza, scansando come in Formula Uno i clienti più lenti, andando in fuga per trovare la cassa libera, controllando gli zuccheri contenuti negli alimenti, senza farsi fregare dal prezzo al chilo della merce. Anzi, sono i carrelli (che ci ricordano la libertà dello skateboard come il monopattino) ad essere mancati iconograficamente, sarebbero stati utili se non proprio necessari ed avrebbero dato brio e slancio come oggetto-simulacro-feticcio (l'immaginario dei cestelli metallici con le ruote era forte e prepotente nei Ricci/Forte: in “Imitationofdeath” come in “Troia's Discount”).

“Una vita spesa a fare la spesa”. (Leo Longanesi)

Supermarket-teatro-bella-storia.jpgInguaribilmente grotteschi ci aggiriamo, come giaguari nella foresta, alla ricerca dell'opportunità, del prezzo in saldo, del 3 per 2. Il ritratto che meglio funziona, nella sua drammaticità, sempre sotto il velo dell'ironia, è quello della cassiera, frustrata, insoddisfatta della sua routine fatta di turni 24h 7/7 sempre pronta a scattare quando la voce cattiva dagli autoparlanti la riporta alla sua gogna, la sedia alla cassa, ferma, fissa, intrappolata, come carcerata senza una vita fuori da quelle quattro mura, lontano dai codici a barre dei prodotti: “Tutta la vita è scontata, non è giusto il prezzo”. “Supermarket” è una Grande Abbuffata con la sua forma allegra che nasconde molte denunce al nostro mondo così sviluppato e civilizzato: il precariato con i suoi ricatti, la fretta, la spesa compulsiva per riempire altri vuoti, la bulimia dei rapporti, la mancanza di affettività, l'aggressività crescente, il grande malumore che serpeggia. Per questo “Supermarket” propone una bella idea di fondo ma non la sviluppa a pieno, quanto avrebbe potuto: il finale arriva un po' a sorpresa tranciando molte storie aperte e si ha la netta sensazione che qualcosa non sia stato detto, che manchi quel quid che ci avrebbe fatto sobbalzare dalla poltroncina, quel lampo, soprattutto sul fronte musicale abbastanza piatto e monocorde, che avrebbe potuto esaltare questo esperimento, purtroppo riuscito soltanto a metà, che ci ha lasciato con il gusto di ciò che poteva essere, non osando fino in fondo, fermandosi sulla superficie.

Tommaso Chimenti 19/01/2020

FIRENZE – Precursore malizioso, innovatore licenzioso, pioniere esuberante, sperimentatore esagerato, riformatore aggressivo, rottamatore ante litteram. La comicità, italiana e non, deve molto all'opera, alle invenzioni, alla faccia, alle parole di Ettore Petrolini, nato a fine '800, calcatore di scene a cavallo tra le due Grandi Guerre, il Ventennio del Fascismo. Cabarettista, mattatore, one man show, ogni definizione gli stava stretta, sta di fatto che ha inventato un linguaggio, un modo di stare in scena, di portare i suoi “tormentoni”, personaggi stralunati. Tutti i comici, come detto, gli devono qualcosa. E la storia di Dario Ballantini (qui accompagnato alla fisarmonica dalle atmosfere retro' di Marcello Fiorini), abile trasformista conosciuto al grande pubblico per le sue infinite imitazioni a Striscia la Notizia (da Valentino a Valentino Rossi, da Vespa a Morandi, da Maroni a Renzi, solo per citarne alcuni nella sua carrellata variopinta), si intreccia, per caso, per racconti familiari, per storia, per volontà e passione a quella dell'attore romano.Ballantini&Petrolini 2470 ®Pino Le Pera.jpg

L'omaggio “Ballantini & Petrolini” è una lectio, con tanto di leggio sul boccascena inframezzata con le figure e le macchiette che hanno animato e caratterizzato la carriera di Petrolini (scomparso a poco più di cinquant'anni per problemi cardiaci): l'artista livornese, con cambio a vista in una sorta di camerino con specchio e luci da varietà, con pochi tocchi d'abito e di cerone, interpreta e si cala ora in “Giggi er Bullo” adesso nella “Sonnambula abruzzese”, poi in “Salamini” fino a “Nerone” (nel quale molti ci videro Benito Mussolini), passando per “Amleto” con la sua parodia del teatro classico, cantando “Tanto pe' cantà” (portata al successo molti anni dopo da Nino Manfredi), arrivando a “Fortunello”, sfociando nell'iconico “Gastone”, quasi Penguin di Batman, dove regna l'autoironia, e esaltandosi nel “Pagliaccio del circo”. Un grande ventaglio, utile, per non dimenticare da dove arriva la comicità attuale: a Petrolini infatti, ci spiega l'attore livornese (anche grande pittore, fino al 31 gennaio la sua mostra è aperta alla Galleria d'arte La Fonderia con l'esposizione “Esistenze Inafferrabili”) nel suo fare bilanciata tra un'autobiografia tutta graffiante labronica e pagine di critica e giornali dell'epoca, tra la sua soggettività e ricordi dell'epoca, devono molti generazioni e generazioni dei creatori della risata nostrana: da Gigi Proietti a Enrico Montesano, da Pino Caruso ad appunto Manfredi fino a Carlo Verdone (l'astrologa) e Alberto Sordi.

Non solo Roma però, il suo repertorio e la sua arte anticipatrice ed ancora contemporanea è stata “saccheggiata” a piene mani. E' stato uno sdoganatore rivoluzionario e sotto la scorza del “Teatro demenziale” c'era una critica al sistema, al Palazzo, al Potere, al Teatro ufficiale, polveroso e formale. Aveva inventato quel mix tra teatro e falsa magia (che portano in scena oggi il Mago Forrest o Raul Cremona), quella demenzialità fatta di slogan e freddure non-sense e frasi ripetute alla Franco e Ciccio, l'atemporalità delle ambientazioni delle sue maschere (alla Mel Brooks), sforando nella canzone, così nello stornello. Sfuggiva ad ogni categoria, era fuori, era oltre, era altro, fuori classifica: campione di surrealismo, avanguardista del grottesco, anticipatore del futurismo.

Battute folgoranti, Ballantini&Petrolini 2192 ®Pino Le Pera.jpgbrucianti, al fulmicotone, roventi, urticanti, affilate, raffinate o gravi, ciniche, stilettate cattive, senza riguardi, tanto che all'ennesimo premio fascista, ritirandolo dal palco disse: “Me ne fregio” incosciente e sfrontato. Vite vissute come un'eterna avventura, cariche di aneddoti come quella di Ballantini comunicatore ed “erede” artistico del genio Petrolini, riconosciuto anche dalla famiglia del grande attore romano come suo tramandatore accertato.

Rime, slanci, barzellette con quel gusto acido, insolente, testardo come deve essere l'ironia, il sarcasmo, la risata scorretta, che altrimenti non vale: “C'era scritto formaggio da grattare e io me lo so fregato”; la maga che confessa: “Posso leggere l'Avvenire e pure il Corriere della Sera”. Serafico, appuntito, ficcante: “Un tizio mi indica una cancellata ma come fa ad esserci se l'hanno cancellata?”, “Mio figlio cammina già da due mesi” “A quest'ora sarà arrivato a Torino”. Battute senza tempo, fresche, non datate: “Mi sono accorto che Ballantini&Petrolini 2437 ®Pino Le Pera.jpgl'Italia non ama i suoi uomini più patriottici: per le strade ho letto Via Cavour, Via Mazzini, Via Garibaldi”; “Ho fatto uno scherzetto alle Ferrovie dello Stato: ho fatto un biglietto andata e ritorno per Roma ma non sono tornato”. Caustico, cinico nel suo linguaggio destrutturato che in qualche modo aveva anticipato il rap o quanto meno assimilabile al punk rock elettronico di Alberto Camerini.

“Mi chiamo Gastone ma mia mamma mi chiama Tone per risparmiare il Gas”; “Mi dia nome e cognome” “Ah bella se lo do a lei io domani come mi chiamo?”. Contemporaneo: “Non si vive di solo pane, ci vuole anche la cocaina”. “Fine dicitore”, “Fantasista”, ogni definizione è una limitazione. Se Petrolini è stato il Dio della comicità, Ballantini ne è certamente il suo Profeta. W Petrolini, W Ballantini.

Tommaso Chimenti 17/01/2020

Foto: Pino Le Pera

FIRENZE – Finalmente abbiamo visto Filippo Timi in un monologo. La critica che sempre gli avevamo mosso era quella di utilizzare un testo, che fosse Shakespeare o Ibsen, per tirare fuori le sue tematiche, il suo modo di stare in scena, “uccidendo” così la drammaturgia, che diveniva soltanto pretesto, e gli attori al suo fianco, schiacciati dalla sua forza. Timi qui invece è uno “Skianto”, performer a tutto tondo con quel suo modo poetico e vivace, verace e tagliente di raccontare, di portarti fino alle lacrime per poi, sul più bello, lasciarti lì sospeso ed immergerti in una bolla psichedelica e trash, rosa e svolazzante. E' la sua cifra: la ricerca della carezza, della condivisione, dell'apertura con il cuore in mano per poi, quasi accorgendosi di aver fatto trasparire troppo o di essersi troppo lasciato andare, rientrare nei ranghi a lui più congeniali, il video, la canzonatura, il perugino stretto e ruvido che non consola ma ferisce le orecchie, le canzoni trasformate, i balletti, gli immancabili Queen, Lady Gaga, Britney Spears, David Bowie, Elton John. Il suo show (accompagnato dal bravissimo Salvatore Langella al piano che “traduce” le hit in napoletano rivestendole 1 LOW Skianto - Filippo Timi.jpgdi un altro abito ancora più denso, vicino e struggente) sono delle montagne russe esistenziali, emozionali, sentimentali, ti porta in cima alla rupe e poi giù negli abissi ed è vero in entrambi i casi: ti scuote, ti muove, crea empatia, vicinanza, solidarietà con questo brutto anatroccolo nel suo percorso-passaggio doloroso prima di diventare cigno.

“Skianto” è la storia, pinocchiesca (c'è anche il naso; omaggio a Carmelo Bene), di una morte, di ciò che era prima, prima della sua resurrezione e rinascita, che ogni fine è un inizio. E lui, partendo dalla provincia della provincia, Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia, sa cosa è stata la fatica di emergere, di uscire da una realtà piccola e misera e claustrofobica. E' la storia di un bambino che non riesce, metaforicamente, a parlare, ad esprimere le proprie emozioni, chiuso in un mondo suo che lo schiaccia e lo inaridisce. Timi è appeso nella sua tutina bianca spermatozoica da astronauta (ci ha ricordato la pellicola “Gravity” con George Clooney) e fa capriole da trapezista consumato ed evoluzioni tra luci e palle stroboscopiche, un canestro e il fondale a pois: “Siamo tutti marziani” come a sottolineare la diversità di ognuno di noi e la non omologazione. “Life is now2 LOW Skianto - Filippo Timi.jpgè il ritornello che chiude i capoversi tragici e drammatici, e cozza (l'inglese ha sempre quel sapore di futuro e progresso, quel gusto di pulito che appiattisce le differenze linguistiche, regionali e geografiche) con il suo umbro strascicante che sa di terra, materico e duro, che sa di tradizioni, di un tempo lontano. L'intimo lascia il posto allo psichedelico, il retrospettivo si discioglie nel conturbante, il racconto toccante e commovente scivola nello scoppiettante sfrenato, il profondo tramuta nel delirio scatenato, euforico, esondante, il dramma e la disco, lacrime e sorrisi, up & down. Non ci sono vie di mezzo. E' una confessione, uno sfogo, un vomito sconsolato. Si piange e si balla.

Puoi togliere Timi da Ponte San Giovanni ma non potrai mai togliere Ponte San Giovanni da Timi, parafrasando Ibrahimovic e il suo “ghetto”. Legato a fili come un burattino, la sua (quella del protagonista; c'è sempre molto di autobiografico anche se romanzato) è una 3 LOW Skianto - Filippo Timi.jpglunga lenta presa di coscienza del proprio corpo, dell'intorno, fino alla liberazione. Accettazione, emarginazione, isolamento, identità: chi sono, chi ero, chi sono diventato, chi sono voluto diventare con estrema fatica, lavoro, sudore. La storia di Timi è una rivincita, è un esempio, deve essere trascinante, è per questo che è così amato ad ogni latitudine, perché, sotto il trucco o le paillettes, i pattini a rotelle o i jingle anni '80, sotto questa patina che è più una difesa colorata, il pubblico ha capito quanto è vero, quanto si conceda, quanto ogni sera si metta in gioco, in ogni replica generosa, quanto, catarticamente, ogni sera sia unica in quell'impasto di hic et nunc che non lascia spazio al mestierante ma lascia posto all'uomo (a tutti noi), con le sue piccolezze, con la sua polvere di stelle. Timi ci dimostra che è possibile farcela, pur partendo dalla provincia, pur senza possibilità, pur con ogni sorta di difficoltà: il pubblico lo ha adottato e, al netto delle canzonature, del non prendersi mai troppo sul serio, Filippo è diventato paladino, vessillo, bandiera di questa grande voglia e desiderio di essere amati e abbracciati senza la paura di ammetterlo. Dovremmo preservarlo, proteggerlo, come uno degli ultimi panda.

Tommaso Chimenti 16/01/2020

MILANO – Dopo le tre figure paterne racchiuse nel drammatico “In nome del Padre”, Mario Perrotta, abbonato ai trittici ed alle trilogie (piacciono molto anche anche a critica e pubblico, sanno di un fil rouge non interrotto, di un ragionamento da poter continuare nel tempo) attacca anche il ruolo della Madre, la afferra, la morde, la azzanna, senza lasciare prigionieri. Se il Padre era tragico, qui, con “Della Madre” (prod. TSBolzano, Piccionaia) siamo nel campo del tragico-comico, di quel riso isterico grottesco che lascia l'amaro in bocca. Azzeccatissima e di forte impatto visivo la scena, composta da due elementi invasivi, opere d'arte contemporanea, inglobanti l'occhio, accerchianti nel loro essere tondeggianti, cosmici e “mammici” per definizione: potrebbero essere due enormi seni bianco latte, ma anche due gonne dentro le quali, come Winnie dei beckettiani “Giorni Felici”, se ne stanno le due donne protagoniste, topos della Nonna (o Grande Madre) e della Madre. Due missili, due capanne protettive, due mondi come se fossero stati estrapolati dal “Piccolo Principe”, due verande da camping osmotiche, due igloo che ci hanno ricordato quelli di Mario Merz (un paio di stagioni fa, proprio a Milano, all'Hangar Bicocca, andava in scena una sua mostra retrospettiva ed esaustiva sull'argomento). Queste cupole tanto proteggono dall'esterno quanto asfissiano all'interno, chiudono in relazioni problematiche, senza aria, senza scampo, senza fuga né mobilità, né azione. Infatti le due, che si azzuffano dialetticamente impossibilitate allo scontro fisico proprio perché bloccate nel loro tumulo, quasi fossero dentro sabbie mobili, sono ancorate e possono soltanto usate contro l'altra le armi della minaccia, del risentimento, soprattutto del senso di colpa: “la gente dà buoni consigli se non può dare cattivo esempio”.it_della-madre-luigi-burroni-6-850_original.jpg

Ma c'è anche, ovviamente, un terzo elemento focale attorno al quale tutto ruota, s'argomenta, s'avviluppa: la figlia. Ancora femmina, un terzo gradino rosa di questa scala evolutiva. La Grande Madre, la Figlia e la figlia della figlia. Oppure: la Nonna (lo stesso Perrotta, di spessore), la Figlia-Madre (Paola Roscioli, tempra aulica, lirica) e la Nipote (Yasmin Karam in ombra con videoproiezioni, fa capolino con una mano-cannocchiale come da dentro un sommergibile, “e guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po'”). A cascata, discendenza di Eva. E in questo mondo distopico futuro (si muovono sincopati, come robot, le due hanno giacchette bianche da Star Trek), da navicelle nello spazio dove ormai si è perso il contatto fisico (forse anche per procreare: il maschio non esiste e quando è chiamato in causa lo si fa per la sua assenza, o per offenderlo e denigrarlo, definito nella migliore delle ipotesi “inutile”), la figlia piccola, la nipotina, pur essendo già grande, preadolescente, naviga e fluttua, danza e nuota come una sirena, in questa campana di vetro, pancia calda e marsupio avvolgente, placenta acquacea, liquida e amniotica, miracolo della scienza del futuro, potendo passare senza problemi dall'utero materno a quello nonnesco. E qui scatta il cortocircuito, affettivo, sentimentale, semiotico, analitico.

Si scontrano due mondi opposti di educazione e sulle spalle della piccola si scarnifica una guerra di nervi tra Madre e Nonna. Vincerà l'anziana, la capofamiglia che detterà le regole sia alla figlia sia sul come portare avanti la vita della nipote. Le due, in perenni scintille, ci raccontano i loro Giorni Felici (eufemismo), incastrate senza via d'uscita, senza spiragli di domani. Un giorno anche la piccola diventerà madre avrà il suo seno gigantesco, il suo utero a forma di igloo dove poter recintare i suoi cuccioli e le proprie paure. La madre tiene saldo il cordone ombelicale della figlia, e lo strattona e ne fa cappio, allo stesso modo fa la Nonna, ingombrante e dittatoriale, con la propria figlia, richiamandola all'ordine, punendola, frustandola, tenendola in scacco, al lazo, costringendola nel suo cerchio. Potrebbero essere due Dee che si accapigliano sulla sorte degli uomini sottostanti dentro le loro bolle-mondi, dentro le loro vesciche-globi “giocando a dadi” con l'universo.

Questo it_della-madre-incontro-850_original.jpgil lato tragico mentre il comico, esasperato e spinto, è principalmente racchiuso in whatsapp, esilarante, tra le mamme (le temute chat di classe) con consigli, esperimenti, dialoghi tra suggestioni, scaramanzie, superstizioni, sui vaccini come sui comportamenti da tenere, la meningite, l'autismo, il diabete infantile. La madre è senza autorità e sia la Nonna che la figlia se ne approfittano. La donna di mezzo (è troppo grande per essere considerata ancora piccola, è troppo giovane per sentirsi madre), schiacciata tra le altre due figure in maniera ricattatoria, è oggi fragile, non ha strumenti, è in balia, terrorizzata, spaesata tra mille comunicazioni e suggerimenti da seguire, naufraga in una realtà che cambia forma velocemente e nella quale è spaesata tra gli insegnamenti rigidi che ha avuto e le libertà che vorrebbe concedere ai figli trattati come coetanei, amici ai quali non dire mai di no: una parabola del nostro tempo.

Anche stavolta Mario Perrotta (c'è la consulenza di Massimo Recalcati) è stato abile, brillante e illuminato, nel creare un affresco che tutti tocca con le armi più pure del teatro: la sintesi, il tentativo d'analisi del fenomeno, la non ricerca delle soluzioni, il non cadere nella dicotomia del giusto e dello sbagliato, il non schierarsi, il rimanere in bilanciamento tra la realtà dei nostri giorni e quell'esagerazione-inasprimento-esasperazione dei comportamenti per ridere, a denti stretti, di noi che ancora ci dichiariamo esseri evoluti, animali pensanti.

Tommaso Chimenti 10/01/2020

FIRENZE – Dopo aver scritto “Odore di mare” e “Odore di Marsiglia” era impossibile fare a meno di Andrea Kaemmerle per questo “Odore di chiuso” (prod. Teatrodante Carlo Monni) tratto dall'omonimo romanzo di Marco Malvaldi. Già al tempo della trasposizione, sempre al Teatro di Rifredi, della “Briscola in cinque”, altro testo dell'autore pisano divenuto celebre per “I delitti del Barlume” (su Sky), avevamo capito che se le sue storie possono reggere su carta, con molti dubbi, e tengono botta sul piccolo schermo grazie a qualche piccola trovata, in teatro è davvero difficile che possano trovare una collocazione: l'ironia è flebile, la scrittura incerta, i dialoghi tentennanti, la suspense assente, il giallo mancante. Non abbiamo mai capito il successo editoriale di Malvaldi ma forse il problema è nostro, forse la sua fama è data proprio dalla semplicità, dalla leggerezza, dai suoi personaggi strampalati tratteggiati in allegria. Il mistero e l'omicidio, così come la ricerca del colpevole, sono faccende totalmente secondarie. Infatti dopo poco ci si scorda di dover capire chi ha commesso il reato.OdorediChiuso_rifredi.jpg

In mezzo ad armature in stile Stibbert (la casa-museo dell'antiquario-collezionista inglese è a pochi passi dal teatro dei Pupi e Fresedde, da poco insigniti del Premio Ubu speciale) un tavolo molto ingombrante, che blocca l'azione, riempie la scena: ci sono una famiglia di aristocratici al verde, un poeta, un usuraio, varia servitù e una sorta di commissario improvvisato, tipo Miss Marple o la Signora Fletcher o appunto i quattro vecchietti arzilli del Barlume (niente di nuovo sotto il Sole, dunque), nella persona del cuoco Pellegrino Artusi. Kaemmerle qui sfoggia il suo emiliano-romagnolo (a metà tra la Zocca di Vasco e la Tavullia di Valentino Rossi) che già gli ha portato fortuna nell'affrescare uno dei suoi più riusciti monologhi, quell'“Uomo tigre” colorato che commuove e stringe, nostalgico, tenero, cinico da balera e feroce da autogrill.

E' lui il protagonista, Artusi-Kaemmerle, perno sul quale tutta la commedia (?) ruota, in questa quasi Ultima Cena dove, ovviamente, qualcuno deve lasciarci le penne. La trama è sottile e neanche molto ben congegnata ma a Rifredi, nei giorni a cavallo tra la Fine dell'Anno e la Befana, hanno fatto quasi sempre il tutto esaurito e adesso si apprestano ad una breve tournée tra Campi Bisenzio e Viareggio (nei teatri, Dante-Monni e Jenco, diretti dal regista Andrea Bruno Savelli) e Bientina e Casciana Terme (diretti appunto da Kaemmerle). Detto di Kaemmerle che odore-di-chiuso.jpgtiene i fili della piece con mestiere, sicurezza e capacità di improvvisazione brillante, si salvano Amerigo Fontani, impostato signorotto ottocentesco, e Sergio Forconi, il cognato poeta (tutta Firenze gli vuole bene per le sue interpretazioni a fianco di Pieraccioni o Benigni, è presente anche nell'ultimo “Pinocchio” di Garrone, come nelle pietre miliari “Amici miei”, “Madonna che silenzio c'è stasera”, “Il ciclone”) che nel cuore dei fiorentini ha sostituito l'insostituibile, innarivabile, irraggiungibile Carlo Monni. Da sottolineare il doppio ruolo di Diletta Oculisti, cuoca e governante, unico personaggio che ha ritmo e tempi comici. Da difendere anche la poesiola sull'urinare con rime baciate scanzonate da bettola.

Ma tante, troppe, sono le incongruenze, dai personaggi evocati e però mancanti sulla scena, figure non da poco, il morto e una sospettata dell'omicidio, il cadavere che viene, chissà perché, portato sul tavolo della cucina e lì lasciato durante discussioni e scambi di battute varie, lo stesso cadavere che pare di dimensioni molto minute (ci ha ricordato ET oppure le immagini dell'alieno ritrovato nell'Area 51 statunitense), la canzone finale, “Luna” di Gianni Togni, che piace a tutti ma non ha alcun senso con il dispiegamento delle azioni sceniche.

Tommaso Chimenti

BOLOGNA – Quando si prendono in mano testi come “Nozze” di Elias Canetti, fortemente connotati storicamente e politicamente, o si decide di dargli un taglio appunto di sguardo su un certo passato oppure si sceglie la via del parallelismo tra quell'ieri descritto nella drammaturgia e i nostri giorni. Invece qui, nel “Nozze” (prod. Ert Fondazione) per la regia, traduzione e dramaturg Lino Guanciale, si ha l'impressione che l'operazione sia rimasta in fieri, abbozzata prima, miscelata dopo, rimanendo sospesa senza la fotografia di ciò che era e altrettanto senza 25-NozzeLinoGuanciale ph Serena Pea.jpgla metafora grottesca sull'oggi. Intanto il tempo che, all'inizio, scorre all'indietro, dal nostro 2019 a ritroso, fermandosi fino al 1932, anno della stesura e riferimento temporale dello svolgimento dei fatti. Ma il dato cronologico subito si scontra e fa frizione con alcune (ormai assodate, ridondanti, abusate) frasi ed espressioni che caratterizzano il nostro tempo (“La pacchia è finita” e il rosario baciato e sappiamo a chi sono rivolti questi dettagli). Quindi è proprio la scelta di campo che rimane sospesa, è la sua definizione semantica e intrinseca ad essere confusa ed a confondere.

In questo condominio di varia umanità, che ci ha ricordato quello di “Sterminio” di Schwab ma più annacquato e scolorito, vivono, sopravvivono, si accalcano e si azzannano gruppi familiari tra strategie per la ricerca del proprio benessere anche a danno degli altri. Il mondo là fuori non esiste, esistono solo microcosmi che entrano in conflitto nel grande macrocosmo di questo palazzo colmo di nefandezze spacciate per “normalità”: nipoti che vogliono la morte della nonna (avida) per lucro, un pappagallo isterico, tradimenti alla luce del sole, incesti, figli handicappati abusati, malati terminali. Un grande caravanserraglio di figure urlanti, un “Ubu roi” ma senza quell'ironia amarissima di Jarry.

Due i tratti che ci hanno colpito favorevolmente: questa polvere, che anticipa ed è sintomo di un imminente crollo, un terremoto (del palazzo come della società e della Nazione, forse dell'Umanità) che è in atto e dà i suoi colpi, che imbratta teste e abiti, come una sorta di bambagia calata dal cielo, punizione divina, borotalco che imbianca senza profumare, candida forfora che sporca e lorda, fuliggine grigia che invecchia alla quale nessuno 14b-NozzeLinoGuanciale ph Serena Pea.jpgdà importanza o presta attenzione, infarinati come mummie resuscitate da un altro tempo. Inoltre il modellino del palazzo, all'inizio messo sul boccascena, che è la chiara esposizione in verticale in miniatura della scena che, palco rialzato sul palco, si agita dietro sul piano orizzontale. Una buona idea sarebbe stata quella di tenere il modellino fisso sempre ben visibile (viene accantonato in un angolo dopo poco) per così visualizzare dove, in quale appartamento, si stanno sviluppando le vicende, visti i continui cambi di posizione.

E' il caos a regnare (le voci si accalcano strepitanti), i decibel esondano,5-NozzeLinoGuanciale ph Serena Pea.jpg i costumi perplimono con tre divise naziste (molto didascaliche) e continui Heil Hitler con braccio destro teso. Un grottesco boccaccesco colorato, ritmato, rincorso, sudato del quale però non si capisce bene l'intento: denuncia? Affresco dell'attualità con le sue pericolose derive simili a quelle che furono? La prima parte, quella della presentazione dei personaggi e del condominio, nei confronti della seconda, le “Nozze” appunto, ha certamente più carica, che emerge paradossalmente dalla fissità e dal poco spazio compresso di questo palazzo visto in orizzontale. Il finale è estenuante e non riesce a chiosare né a chiudere, una lenta eutanasia che si/ci sfibra per consunzione.

Tommaso Chimenti

Foto di Serena Pea

UDINE – L'Accademia Nico Pepe da qualche anno si sta dimostrando una scuola teatrale che ben forma e prepara i suoi allievi divenendo, nel panorama nazionale, un punto di riferimento attoriale al livello della Paolo Grassi e dall'Accademia Silvio D'Amico, della scuola del Piccolo o del Teatro Nazionale di Genova o Torino. Dalla scuola di Udine recentemente sono usciti gruppi come i Carrozzeria Orfeo o i Kepler 452 o ancora i VicoQuartoMazzini. In quest'angolo di Friuli le distrazioni sono poche, a differenza delle “tentacolari” Milano e Roma. Il “Premio Giovani Realtà del Teatro”, alla dodicesima edizione, oltre ad essere un concorso e una competizione, è anche un momento a chiusura di un ciclo triennale, un saluto ai diplomati e un benvenuto alle nuove leve: in poche parole una festa che va avanti dalla mattina alla sera con la visione di oltre venti lavori under 35 (quest'anno erano 23, dieci minuti per i monologhi, venti minuti per gli altri) provenienti da tutta Italia.

Quello che più emerge è il grande entusiasmo, l'affiatamento, l'attaccamento, il collante tra docenti e ragazzi, tra insegnanti e allievi, in un clima serio e leggero allo stesso tempo, dove si fa, si realizza ma sempre con il sorriso sulle labbra e una grande consapevolezza sul lavoro intrapreso. Tre le giurie, Artistica, dei Docenti e dei Giornalisti, con altrettanti premi da assegnare, il premio del direttore Claudio De Maglio, quello del Pubblico, quello degli Allievi dell'Accademia, due Menzioni speciali, una Residenza di quindici giorni a cura delle Periferie Artistiche del Lazio Premio19_DallAltraParte.JPGdi Maurizio Repetto e Gloria Sapio. Insomma una grande abbuffata di targhe e riconoscimenti. Abbiamo scelto, sui ventitré visti (selezionati tra i quasi cento arrivati in video), le sette piece che hanno ottenuto il plauso dell'alloro, tutte da vedere e da scoprire.

Partiamo dai due (sì, perché c'è stata una vittoria ex aequo) che si sono spartiti il premio più ambito (3.000 euro, da dividersi), quello della “Giuria Artistica”, della quale chi scrive faceva parte: il riconoscimento più alto del “Premio Giovani Realtà” è andato pari merito a “Dall'altra parte/2+2=?” della compagnia campana Putéca Celidonia ed agli svizzeri de “La Principessa azzurra”. Il filone è quello brillante in entrambi i casi, quel comico che ha un risvolto amaro e sociale. In “Dall'altra parte” (il titolo completo è abbastanza complicato e difficile da ricordare) tre fratelli, ancora allo stadio di embrione e feto nella placenta della madre, collegati tra loro da un cordone ombelicale, che diventa strumento per movimenti e gag da teatro fisico e circo teatro, parlano di noia, attese, speranze nel classico schema delle due fazioni contrapposte (Romolo e Remo...) e di un moderatore, l'ago della bilancia, il più riflessivo e pacato. Ma il parto trigemellare avrà delle complicazioni per un finale amaro e toccante.

PremioNicoPepe_Principessa azzurra.JPGPer quanto riguarda “La Principessa azzurra” (per loro due premi: infatti si è aggiudicata anche la Targa delle preferenze del Pubblico in sala) è luminosa la presenza scenica dell'attrice Saskia Simonet, anche regista insieme a Filippo Capparella, attorno alla quale si muovono questi tre uomini, come satelliti intorno al pianeta, uomini medi che la nostra eroina scaccia e schiaccia con il suo carattere forte e la sua determinazione: il principe tutto impostato e impomatato stile Ken di Barbie, il muscoloso tutto intento a guardarsi i bicipiti e fare volteggi in aria controllando il suo capello fluente biondissimo, il nerd impacciato e goffo. La principessa si salva da sola, anzi se la fa con il Drago. La vasca piena di tulle, con la principessa isterica che cammina sul bordo, è una scena che ci è rimasta impressa. L'italiano “svizzerizzato” della protagonista ha donato alla piece ancora più vivacità semantica, quel suo “mi guardami”, quando chiede attenzioni e amore al principe, una richiesta agguerrita e aggressiva, ripetuto all'infinito, rimbalza e scalda la questione femminile: la donna non deve essere salvata, non la salveranno certo gli uomini, non è più, non lo è mai stata, la “Bambola” di Patty Pravo.

Per la “Giuria dei Giornalisti” (premio di 1.000 euro, intitolato all'attore Omero Antonutti da poco scomparso) ha vinto “Presente!” della compagnia emiliana “Chièdiscena”, affresco giovanile (forse troppo giovanile, si parla delle scuole superiori quando questi ragazzi hanno già passato da un po' i diciotto anni) che porta a galla, ancora una volta, disillusione e mancanza di prospettive delle giovani generazioni tra assuefazione al fallimento e voglia di mollare la presa prima ancora di aver cominciato a lottare. Gli otto in scena (forse è difficile una collocazione distributiva per una compagnia così ampia, visti i tempi di magra del teatro italiano) si muovono bene, coordinati, ritmati (ci hanno ricordato molto collettivi come “L'Amalgama” o i “Controcanto”, questi ultimi hanno vinto “In-box” con il loro ficcante “Sempre domenica” che metteva sul piatto gli stessi temi post adolescenziali tra biografismi e precariatoPremio19_BiancaStella.JPG in qualsiasi settore della vita) e ci fanno riflettere con tocchi leggeri. Interessante la cromia: questo ritorno di sfumature di rosso e nero nelle sedie, nell'abbigliamento che crea un'armonia disturbante, un andamento visivo che frigge e fa pensare.

La Giuria dei Docenti ha decretato invece vincitore (1.000 euro) “Bianca stella/Ballata per piccole cose” (titolo che confonde) di Giulia Lombezzi; qui due solitudini entrano in gioco e in azione, in frizione e in amicizia, la giovane, Michela Caria, e l'anziana, Marzia Gallo perfetta nei movimenti e nelle posture, fisiche e vocali, agée. Anche qui la questione femminile viene prepotentemente a galla con donne, in età diverse, storiche e anagrafiche, che devono continuare a combattere per la loro dignità, e non devono cedere di un millimetro ad una “normalità” diffusa che le vorrebbe sempre un passo indietro all'uomo, nell'ombra, succubi, vittime: le mele che rotolano sanno di Eva e del suo peccato originale: delicato, con una bella scrittura e una altrettanto sicura recitazione.

Premio19_LaMogliePerfetta.JPGTre i monologhi che più hanno scaldato la giornata. “Edip” con Michele Ragno ha vinto la categoria “Monologhi” (500 euro). Ragno ha abbinato una recitazione e uno stare sul palco pieno e maturo, consapevole, ad un testo (di Maria Luisa Maricchiolo) mai scontato né banale che mai scivola su temi patetici familiari o di scontro generazionale e mantiene sempre uno standard alto e ricco di idee, nelle parole, di forma, nel suo riempire la scena con un pathos naturale mai artefatto, con una presenza che colmava il grande palco vuoto e teneva l'attenzione soprattutto nelle pause e nelle sospensioni.

Altro spettacolo “wow” è stato “La moglie perfetta” di e con Giulia Trippetta che ha portato a casa il “Premio degli Allievi” così come una “Menzione Speciale” (la seconda l'ha ottenuta “Porcellina” della compagnia Rusalka Teatro con Caterina Luciani sugli scudi). Poteva essere il side b dello spettacolo “Bianca stella” per la tipologia dell'argomento trattato, nel primo caso più drammatico, qui frizzante ma con venature fortemente malinconiche. La bravissima e completa Trippetta, grande forza e determinazione, bel ritmo e uso del corpo, un mix tra Paola Cortellesi e Virginia Raffaele, ci porta dentro il decalogo di regole (un opuscolo vero e reale),Premio19_Sete_.JPG in vigore fino alla fine degli anni '70 su come essere una brava donna di casa, madre, moglie, amante. Uno di quegli spettacoli che, dopo aver visto 20 minuti, vorresti assolutamente vederne la conclusione, assaporarlo fino in fondo.

Terzo monologo premiato, “Sete” con il mattatore Giorgio Sales, ha vinto il “Premio Speciale” conferito dal Direttore dell'Accademia De Maglio e la “Residenza alle Periferie Artistiche” della Regione Lazio. Sales, capace e sicuro, che qui ci presenta il primo dei cinque personaggi che compongono la piece, in una irritante cadenza berlusconiana, forse demodé, ci racconta, con parole che mai scadono nel trito e nel già sentito (testo lucido di Walter Prete), il desiderio, da dove nasce, come si alimenta, come se ne sta, sotto la cenere di ognuno di noi, pronto a fare capolino, ad azzannare, a mordere, a prendersi tutto, a mangiarci dall'interno e che difficilmente riusciamo a tenere a bada perché siamo come in un deserto e la Sete perenne (di vita, di vittoria) ci attanaglia.

Tommaso Chimenti

CHIANCIANO TERME – Qualche giorno fa abbiamo trattato, raccontato e scritto del lavoro di Andrea Kaemmerle che tra Bientina, Casciana Terme, Volterra e Utopia, dislocata su tutto il litorale tirrenico, ha creato, con fatica, sudore e impresa, un suo pool d'attività che va allargandosi. Un parallelo può essere costituito attorno alla figura di Manfredi Rutelli che tra Chianciano Terme, dove ha la direzione del Teatro Caos, Monticchiello con il Teatro Povero, ultimi due edizioni alla drammaturgia e regia condivisa, Montalcino, con la direzione del Teatro degli Astrusi, e Chiusi dove al Festival è regista della produzione annuale, ha costruito il suo raggio d'azione, il suo solido spazio dove creare, progettare, organizzare. Che a Chianciano prima ci si andava soltanto per le terme (le rinnovate, 9695_manfredi-rutelli.jpgampie, comode Theia, con due piscine interne ed altrettante esterne con temperature a 33 e 36 gradi: relax garantito e assicurato), adesso è possibile abbinarvi un intrattenimento serale di qualità per completare la vacanza o il week end. Dicevamo figure simili (Kaemmerle e Rutelli; si spera che presto o tardi realizzino un progetto comune) che si rimboccano le maniche con un lavoro maniacale e artigianale, partendo dal basso, con poche risorse ma tante idee.

Una lst.jpgdi queste è la novità “Quizas, Quizas, Quizas” (testo e regia di Rutelli, produzione LST) che prende le mosse dal motivetto omonimo, qui diventato refrain che ritorna prepotente e assillante, canzone cubana che ha avuto illustri e innumerevoli cover dal '47, anno della composizione, ad oggi. Sta tutto qui, tra le pieghe del testo della canzone: “Stai perdendo tempo, pensando, pensando a ciò che più desideri, fino a quando, fino a quando? E così passano i giorni ed io mi dispero e tu rispondi Chissà, Chissà, Chissà”. E' in questo stallo, in questo immobilismo esasperante, in questo precario equilibrio claudicante che si sviluppa la vicenda che apre molte riflessioni sull'oggi, sulla situazione sociale contemporanea come sui suoi riflessi esistenziali che toccano tutti. Tutto può essere visto nella sua accezione reale come in quella metaforica, come una medaglia dalle due facce egualmente ed equanimemente parallela: una donna rimane bloccata in un ascensore.

Non è semplicemente una donna: è una cinquantenne che ha perso il lavoro e che adesso sta andando ad un colloquio di lavoro con un'agenzia interinale per essere “ricollocata” nel mondo del lavoro. Non soltanto: la donna è separata ed ha una figlia alla quale ha dato tutto e davanti alla quale non si è mai fatta vedere debole, una figlia che vuole aiutare a non fare i suoi stessi errori e sostenerla per farle raggiungere i suoi obbiettivi e desideri, cercando quella felicità, lavorativa e personale, che lei stessa ha messo in secondo piano prima per la famiglia e successivamente proprio per la ragazza. I rimpianti diventano un “chissà”, in questo vago futuro che le si prospetta davanti, nebuloso, confuso, incerto, fatto di vedremo, mai solido, mai duraturo, sul quale è impossibile fare affidamento, mettere le basi per un domani migliore. In qualche modo, perché monologo d'attrice e per la tematica di fondo, la perdita dell'occupazione, ci ha ricordato “Gli ultimi saranno i primi” di Massimiliano Bruno che portò, prima in teatro e poi al cinema, una superba Paola Cortellesi.QUIZAS-19-0102.jpg

La donna sospesa, letteralmente, in questa scatola, appesa a cavi d'acciaio, si confessa al pubblico in un monologo a cuore aperto dove passa in rassegna la propria vita e soprattutto i fallimenti in questa situazione di claustrofobia e costrizione che le ricorda la sua stessa esistenza fatta di infiniti obblighi, una rincorsa continua con il fiatone senza mai potersi rilassare, sempre stanca, senza mai un grazie, una pacca sulla spalla, un aiuto, un incoraggiamento. A “farle compagnia” in questa piccola, ennesima sventura, appaiono, in audio attraverso l'interfono, il custode del palazzo, un pompiere, il consulente del lavoro, altri uomini che non la capiscono, che non colgono il punto, che travisano, che non ascoltano le sue esigenze, che ironizzano, drammatizzano, sottovalutano nell'incomprensione più assoluta.

Nel testo di Rutelli, ben bilanciato tra un'ironia rassegnata e un realismo amaro, si fa riferimento a licenziamenti all'interno di un'azienda di calze, e la mente non può che volare alla vicenda Omsa. La precarietà nella vita di Anna (questo il nome assunto dall'attrice Cristina Aubry che si porta con forza sulle spalle il peso di un monologo non semplice) è condensata in questa situazione grottesca, sospesa a metri d'altezza dentro una scatola di latta dalla quale non può fuggire e dove anche i ricordi, del marito, della madre, fanno soltanto male e riaprono vecchie ferite mai rimarginate: “Cosa cambia se esco?”, si chiede in presa all'insoddisfazione più Progetto-senza-titolo-1.pngcompleta, mentre problemi, preoccupazioni, pensieri si sono mangiati l'entusiasmo per questa possibile, tentata nuova rinascita. I suoi ricordi sono un continuo Sliding Doors (ritornano le porte che a volte si aprono spalancando scenari, altre, come in questo caso, si chiudono, emarginandoti) sulle possibilità-opportunità, sulle infinite occasioni perdute. Adesso appare tutto troppo tardi: “Non ho più vie d'uscita”, sconsolata, quando anche la rabbia sembra passata, “Non so neanche se voglio uscire da qui”, lancia sul piatto svuotata. Ma non tutto è perduto, chissà, chissà, chissà...Perché non è finita fin quando non è veramente finita.

Tommaso Chimenti 03/12/2019

CASCIANA TERME – Ventidue anni di “Utopia del Buongusto” e quattordici del Teatro delle Sfide di Bientina, alle quali, qualche anno fa, si è aggiunto il Teatro Verdi di Casciana Terme, ribattezzato, in omaggio a Carlo Monni, “Giuseppe fu Carlo, Oste” per renderlo meno celebrativo e più terreno, e due edizioni, biennali, del “VolterraTeatro”. Insomma il panorama e il ventaglio di possibilità che offre Andrea Kaemmerle va sempre più allargandosi. Non cede di un millimetro, anzi rilancia. E come esiste la tempesta perfetta ecco, a detta proprio del direttore artistico prolifico e grande giocatore di tennis, la “Perfetta Stagione, dove ogni scelta e ogni desiderio, finalmente, è caduto a puntino, ha trovato una sua strada e collocazione, un suo naturale sbocco”. Le stagioni di Bientina e Casciana si riassumono nel cartellone condiviso chiamato Teatro Liquido dove gli abitanti del pisano possono tranquillamente scegliere la destinazione che è più vicina tra il piccolo e caldo Teatro Kaemmerle-Monni.jpgdelle Sfide e il rinnovato e presidenziale Teatro Verdi. Tanti i titoli programmati, tanto lo sforzo produttivo e organizzativo per i Guascone Teatro, lo stesso Kaemmerle e Adelaide Vitolo. La linea è sempre quella di un teatro brillante che faccia riflettere, commedie con gusto e brio ma mai scontate e banali, con un occhio al sociale, al contemporaneo, ben ancorate al nostro vivere, attori, monologhi, storie da portarsi a casa, personaggi da ricordarsi.

Da inizio dicembre a fine maggio, sei mesi pieni e intensi, oltre quaranta spettacoli diversi tra i quali spiccano “Angeli a terra” con Dio e tre angeli fallaci, imperfetti, sbagliati, un po' incapaci e inadatti, il concerto di Nada (8 dic), il ritorno di Riccardo Goretti (12 dic) con “Io sono partito”, con Massimo Bonechi, storia di un uomo che ha intrecciato la propria esistenza, fin dalla nascita, con il PCI. A gennaio ecco “Odore di chiuso” (18-19) produzione del Teatro Dante-Monni di Campi Bisenzio, tratto dal volume omonimo di Marco Malvaldi, quello dei Delitti del Barlume, con Sergio Forconi, mentre il 30 un'altra chicca tutta da seguire sarà “Fake club” con Stefano Santomauro, scritta assieme a Francesco Niccolini, pluripremiato Paolo_Hendel_1.jpgdrammaturgo e scrittore.

A febbraio saremo rapiti da “Toscanacci”, con Goretti, Kaemmerle e Paolo Hendel (il 7), mentre l'8 “La maratona di New York” porterà sul palco l'ex olimpionica di salto in lungo Fiona May e Luisa Cattaneo. Il 15 e 16 il trasformista e imitatore livornese Dario Ballantini renderà omaggio a sette personaggi culto ideati e portati in scena oltre un secolo fa da Petrolini. A marzo faremo una full immersion nella vita di straordinaria forza e tenacia e nelle opere di Frida Kahlo (il 14), ad aprile (il 4) potremmo farci un frullato salutare e concentrato delle “Opere complete di William Shakespeare in 90 minuti”, quasi una partita di calcio dove verranno riassunte e compattate commedie e tragedie del Bardo.santomauro-2.jpg

A maggio chiusura con i fuochi d'artificio con quattro appuntamenti superlusso: il 10 la novità “Stramilly” con Adelaide Vitolo tra ricordi, canzone e sciantose, il 17 “La strana razza Festival”, dedicato a Carlo Monni, rassegna di cortometraggi, il 23 i Gogmagog, da Scandicci una formazione che ha rappresentato il meglio del teatro contemporaneo e di ricerca toscano, con “Scherzo ma non troppo”, ed a chiudere (il 30) un evergreen, una ripresa perché era ingiusto che in molti non lo avessero mai visto, “La febbre”con Kaemmerle che lo rievoca e lo ripristina a quasi trent'anni dalla prima volta, un testo frizzante, corrosivo, urticante e scoppiettante, solo per trenta spettatori in un luogo particolare, meta ancora sconosciuta. L'ennesima sorpresa di questa stagione “perfetta”. Bientina e Casciana Terme, gli abitanti e le amministrazioni, devono essere grati e sentirsi fortunati di avere il capocomico Andrea Kaemmerle che fa vivere i teatri, riempie i cartelloni, riesce a portare nel pisano nomi, divertimento, pensiero con lungimiranza e intelligenza.

Tommaso Chimenti

Martedì, 19 Novembre 2019 09:04

Gli otto spettacoli migliori di Next 2019

MILANO – Sarebbe bello (utile e funzionale) se ogni regione o macroregione (inteso come accorpamento) potesse offrire ognuna ad inizio della stagione la sua “Next”, ovvero la vetrina dei migliori progetti di quello che vedremo, delle produzioni che verranno. Certo alle spalle ci vorrebbe una banca come Cariplo che finanzi l'operazione. Sta di fatto che da anni Next per tre giorni è il centro nevralgico del teatro italiano; lì si fanno incontri tra operatori, si scorgono nuove compagnie, c'è un fermento e una vivacità concentrata tra le sale e i foyer difficilmente rintracciabile in altre simili occasioni. Anche quest'anno una gioiosa maratona ci ha portato a vivisezionare i ventidue progetti (tutti vincitori, una commissione ad hoc stabiliva la reale entità del premio di produzione o, se il lavoro ha già debuttato, di sostegno alla distribuzione) da venti minuti l'uno, una full immersion con varie sorprese, come sempre, e tante conferme. Due giorni per scegliersi, e segnalare sul taccuino del critico, quali produzioni seguire nella stagione appena iniziata, le opere che ci hanno incuriosito, quelle imperfette ma che presentavano un germe, uno snodo, uno spiraglio tutto da evolversi. Next è elettrico, è sprint, è glamour, è fresco. Anche quest'anno tra Elfo Puccini e Franco Parenti. Faremo dei piccoli spot rispetto a quelle piece che, in qualche modo, ci abbiamo stuzzicato, Tradimenti.jpegtoccato, smosso, scosso, spostato. Cominciamo con due lavori che hanno debuttato proprio in questi giorni: “Tradimenti”, produzione Elsinor, e “Gioventù senza”, a cura dei Filodrammatici.

Per quanto riguarda il regista pugliese Michele Sinisi, che da qualche anno fa coppia fissa con il Sala Fontana, stavolta, per quello che abbiamo potuto vedere in questo gustoso assaggio pinteriano, non ha fatto sfoggio, il testo non lo permetteva, di colori, azioni debordanti, fantasia proiettata, invenzioni sceniche, suo marchio di fabbrica stimolante. Ma, al di là dell'incrocio-scontro dei tre personaggi in scena che si tradiscono credendo che gli altri non sappiano quando tutto il gioco è palese, svelato e fintamente celato e nascosto coperto da tabù e vergogna, dal ludibrio del proibito, è questo grande pannello, come il cruciverbone di “Non è la Rai” di Enrica Bonaccorti (ricordate “Eternit”?), con le parole e le frasi che si illuminano, strumento efficace per delineare l'azione, il luogo e il tempo, semplice meccanismo (ci ha ricordato le opere luminescenti di Mario Merz) che diventa esplosivo, chiaro, lampante, metafisico e concreto. Alla fine dei 20 minuti se ne esce con la voglia di vederlo tutto perché, come sempre, Sinisi ha una marcia in più nelle vene, ha quell'acceleratore che tocca la pancia come la testa, scardina al tempo stesso budella e cervello. Gioventù senza.pngLa gioia e il piacere dello stare a teatro. E non è da tutti.

Stavolta Bruno Fornasari firma soltanto la drammaturgia di questo nuovo testo, “Gioventù senza” (regia di Emiliano Bronzino) tratto dall'omonimo di Odon von Horvath. Fornasari e i Filodrammatici sono sempre sul pezzo dell'attualità con un respiro ampio e profondo sul contemporaneo, pori, occhi, orecchie, cuore aperti a cogliere le sfumature del tempo, le pieghe, i movimenti ed a metterli su carta e in scena. Hitler è padrone della Germania e le sue idee hanno pervaso la società e soprattutto le scuole, le nuove generazioni: un professore (Tommaso Amadio sempre autorevole sul palcoscenico) tenta di perseguire il dubbio, la ragione, il punto interrogativo ma sarà messo alla berlina e disarcionato dalla classe: la dittatura della maggioranza, il silenzio-assenso della massa di pavidi. Con dieci (bravi) attori provenienti dalla loro scuola-fucina.

Lo Straniero” del Teatro I ci ha colpito per la messinscena di pochi elementi scenici ma catalizzanti. La drammaturgia (di Francesca Garolla) parte, ovviamente, da Camus ma se ne discosta, anzi potrebbe essere un sequel, un post che riassume le vicende e crea un ponte versolo-straniero.jpg il non detto. Se Woody Neri è convincente e spiazzante tra follia e lucidità, è la gru (manovrata con abilità e quasi carezzata con dolcezza dal regista Renzo Martinelli) con un faro sopra che, cinematograficamente, illumina e segue, quasi fosse un drone agganciato al suo bersaglio mobile, l'imputato protagonista. Una “giraffa”, quasi canna da pesca per andare a stanarlo, che diventa violino da grattugiare e arpa da solcare e pizzicare. Se le luci intorno fossero state spente, l'effetto sarebbe stato ancor più catartico e se, attaccato alla luce che colava dall'alto, vi fosse stata anche una telecamera che riprendeva e proiettava un'altra visione della scena, l'impianto sarebbe stato ancora più invasivo e straniante.

Coloratissimo icabaret-delle-piccole-cose.jpgl testo (anche la regia) di Filippo Timi, “Cabaret delle piccole cose”, targato Franco Parenti, debordante di lazzi, frizzi e paillette. Dieci personaggi, tutti con il naso di Pinocchio (Collodi tira sempre più) che impersonano altrettanti oggetti minimi delle nostre case, i rifiuti messi nei cassetti, gli scarti, le cose non più nuove o sorpassate o obsolete. Il gusto di Timi è visibile nei costumi eccentrici come nelle sonorità come nell'uso del linguaggio, nella scelta delle musiche come nel gancio sensibile e accorato: c'è il dialetto napoletano, il siciliano (la più brava) con eco emmadantesco durante un funerale frizzante, il rubinetto romano che “piange”, il toscano rustico della candelina, l'abatjour mal funzionante, lo specchio ed altre suppellettili casalinghe. La sensazione che rimane però è quella del “numero”, della gag sospesa tra lacrima cercata, risata inseguita con colpo ad effetto sulla coda.

Minimalista e giocato sulle pause e sui silenzi che tutto avvolgono è “Come Out! Stonewall Revolution” (prod. Triennale Milano Teatro), toccante affresco della lotta per i diritti Lgbt nella New York del '69. Se dietro sul fondale passano immagini in bianco e nero dell'epoca,Stonewall.jpg su una poltrona il protagonista racconta i due piani della vicenda, vicino e lontano, la storia piccola, la sua, e quella con la esse maiuscola, i cambiamenti personali e quelli epocali. Un monologo intimo, misurato, quasi sussurrato (il giovane attore è incisivo e soffice, caparbio e dolce), abile a districarsi nel non-detto, nelle sospensioni, in equilibrio in un tempo che sosta tra l'attesa e la sorpresa. Lui, che avrebbe voluto essere lì in mezzo alla guerriglia, ai cortei per rivendicare i propri diritti, che invece è tornato a casa, in una casa che non lo ha mai capito né accettato in quanto omosessuale, perché sua nonna, l'unica che lo ha supportato, sta morendo. E rimane lì impotente tra la voglia di ribellarsi e la realtà che lo zittisce, tra il desiderio di tornare nella Grande Mela e quella piccola provincia bigotta che lo trattiene come colla a sé.

Doppio filone anche per “Il rumore del silenzio” (prod. Teatro della Cooperativa) con due mostri sacri viventi del teatro di narrazione: Laura Curino e Renato Sarti. Se la prima ci racconta di Piazza Fontana e dell'anarchico Giuseppe Pinelli, dall'altra parte Sarti ci porta nella sua Milano, Il rumore del silenzio.jpgnei suoi ricordi, nella sua memoria, in quegli stessi luoghi, visti con i suoi occhi più giovani di cinquant'anni, scenario della bomba alla Banca dell'Agricoltura. Ma non solo: da una parte c'è la morte, il passato (nei fumetti solidi) dall'altra la vita, la gioventù, le case di ringhiera, la bicicletta, gli amori, tutta la vita davanti. In questa frizione tra il bianco e nero della Storia e i colori del presente ci sentiamo fortunati a poter sentire ancora Sarti farci vivere attraverso le sue parole quegli anni. Uno spettacolo che vale decine di volumi sugli anni '70.

La compagnia Eco di Fondo continua a stupirci per la sua sensibilità, per la ricerca di temi etici, per quella pulizia di pensiero che sta alla base del loro lavoro. Se con “Sirenetta” si affrontava l'argomento dell'estetica collegata alle giovani generazioni e al bullismo, stavolta con quest'“Antigone” moderna ci immergiamo nel caso Cucchi (Giulia Viana sempre tosta), ma potrebbe essere anche Regeni o Aldrovandi o Uva o ancora forzando un po' la mano Khashoggi, perdite inspiegabili. Un cerchio di terra al centro (elementi e luci molto efficaci) e la storia che si sposta su più piani, il prima, il dopo la tragedia, il dialogo tra questa sorella e un fratello ormai soltanto spirito, l'autopsia disarmante che atterrisce, i flashback e quel muro di gomma dove rimbalzi senza trovare giustizia né pace.

Lo spettacolo più divertente e scanzonato è stato sicuramente la scrittura collettiva “M8 Prossima Fermata Milano” (prod. Animanera; testo composito di Davide Carnevali, Magdalena M8 Prossima Fermata Milano.jpgBarile, Carlo Guasconi, Pablo Solari, Camilla Mattiuzzo) con l'esplosivo e scintillante one man show (in questi 20 minuti, nel proseguo della piece interverranno altri personaggi) Fabrizio Lombardo nella sua stand up comedy irriverente, urticante, debordante, varietà per presentare vari progetti visionari per le Olimpiadi 2026 tra Milano e Cortina. E' anche un'analisi sulla Milano di oggi, sui suoi meandri, al sua collettività in perenne movimento e cambiamento: ne esce un affresco pittorico idealista impossibile e fanciullesco come chiudere tutta Milano al traffico e riaprire tutti i corsi d'acqua e renderli navigabili, le chiatte trainate da ippopotami, al reintroduzione della nebbia, la grande caccia al tesoro per ritrovare le zampe dei piccioni monchi e zoppi. Finisce e ne vorremmo sapere ancora, come andrà a finire, dove andrà a finire Milano, la vera capitale d'Italia.

Tommaso Chimenti 19/11/2019

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