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MILANO – Per gli amanti del teatro Milano è il Paradiso; dove ti giri rimbalzano cartelloni colorati con date e nomi, titoli e registi. Impossibile non essere bulimico, impossibile poterli vedere tutti anche facendo i salti mortali e gli incastri da tetris. Se Milano è il Bengodi, è il Paese dei Balocchi per chi si ciba di pane e palco, l'Elfo è una delle sue massime espressioni. Qui, in qualsiasi periodo dell'anno, ti puoi affacciare nel suo foyer, sempre affollato, e scegliere tra le tre sale o farti anche delle piccole maratone giornaliere entrando e uscendo da differenti visioni: qualunque cosa si scelga, si cade bene, la qualità è garantita. E così abbiamo fatto, siamo entrati ed uscite prima ci siamo tuffati tra registri di classe e cattedre con “La lingua langue” e successivamente ci siamo buttati tra la terra rossa e le palline gialle di “Open”.lalingualangue-phLailaPozzo-690x460.jpg

Partiamo dal testo di Francesco Frongia con in scena il vulcanico ed eclettico, pirotecnico e sulfureo Nicola Stravalaci, un vero portento di dialettica, una mitragliatrice micidiale, arguto professore adesso generale alla “Full Metal Jacket” adesso maestra di danza di “Fame” tra ingiurie e sproloqui per vivacizzare la sua platea (i suoi alunni) di asini pinocchieschi. Una vera e propria interrogazione interattiva e partecipata (e molto impaurita: i traumi scolastici non ci abbandonano mai). Niente a che vedere con “La Classe morta” di Kantor. La sua, soprattutto il pungente ed intelligente testo di Frongia, ci porta nella deriva dei nostri tempi, nel declino iniziato con gli sms e concluso miserabilmente con whatsapp. Non sappiamo più scrivere ma qual che è peggio è che gli errori più madornali non sono più visti e percepiti come tali perché “tanto basta capirsi” e se non hai messo l'acca oppure hai scritto “qual è” con l'apostrofo non è importante. Se pensiamo male, scriviamo male e soprattutto viviamo male, diceva Nanni Moretti.Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5340.jpg Oggi pare un'offesa, soprattutto tra i ragazzi, coniugare decentemente un verbo intransitivo o usare correttamente un condizionale o addirittura una consecutio temporum; sei visto come un sobillatore, un collaborazionista. E poi gli inglesismi a storpiare la nostra bella lingua secolare sostituendola con termini più efficaci certamente ma freddi e senza linfa. Nei suoi stivali da cavallerizzo, con il suo scudiscio segnala errori, con la sua grande matita appuntita (minaccia di farne un clistere per gli asini), Stravalaci è colorato e virtuoso, è il poliziotto cattivo, il professore arcigno fissato con i participi passati, l'uso degli articoli, un po' scienziato un po' Superquark. E poi ancora l'uso delle virgole o l'abuso dei punti esclamativi, o quello improprio dei superlativi, le doppie zeta. In video appare l'onorevole Razzi e abbinare il suo cognome a quell'aggettivo, lo so, fa accapponare la pelle. Come contraltare ecco Modugno e Pasolini. L'italiano è in continuo movimento e mutazione, non uccidiamolo prima del tempo, non gli pratichiamo l'eutanasia, non diamogli il colpo di grazia: la lingua langue dove il congiuntivo duole.

Proprio nei giorni nei quali il diciottenne Sinner, cognome altoatesino ma italiano, vinceva proprio a Milano il Next Gen, il torneo più importante a livello mondiale per le future generazioni di campioni con la racchetta, sempre all'Elfo andava in scena la vita del campione Andrè Agassi riassunta nella bellissima autobiografia “Open”. Testo meraviglioso, scritto da un Premio Pulitzer che ha affiancato il tennista, nel quale, più del tennis, emergono le dinamiche familiari soprattutto con il padre immigrato iraniano e portiere in un albergo a Las Vegas innamorato pazzo di set ed ace tanto da forgiare in prima persona con allenamenti massacranti fin dalla tenerissima età i suoi figli per dargli un futuro migliore, più ricco e più agiato di quello che aveva potuto garantire lui. La storia è emozionante, commovente, toccante, Ntfi_13062019_Open_lamiastoria_foto_di_SalvatorePastore_L0A5399.jpgla resa della compagnia Invisibile Kollettivo ha avuto alti e bassi. Intanto il muoversi sulla scena con il libro in mano allontanava la platea e non permetteva di lasciarsi andare pienamente al flusso delle vicende. In seconda battuta, la bella trovata di mettere al posto del volto dei cinque attori in scena un cartone con la faccia del tennista americano all'inizio è sembrava un escamotage azzeccato, quando però lo stesso effetto si è ripetuto per tutto l'arco della performance allora è sopraggiunta l'assuefazione e una certa stanchezza nei confronti del mezzo scenico. Passiamo ai costumi: se mi racconti la vita di un tennista puoi anche indossare abiti quotidiani, se invece nel mezzo del racconto vuoi cimentarti in battute da fondo campo, in top spin o discese a rete o serve and volley allora forse i tacchi non sono la cosa più indicata. Così come i movimenti: se hai l'ardire di mimare i gesti di un campione di net e lungo linea, di rovesci a due mani e smash forse quei movimenti devi saperli riprodurre invece di saltare come se dovessi schiacciare a pallavolo o danzare a corpo libero come libellule. Infine il telo centrale, quel velo spiegazzato che, se da una parte ha risolto scenicamente molte situazioni, dall'altra è stato abusato ed il sapore finale che ne è scaturito è stato leggermente amatoriale: il velatino per le proiezioni delle partite, il velo per le ombre, per i sogni contorti e gli incubi, il telo sempre troppo azionato, invasivo. Belle le scelte musicali da “Purple rain” di Prince, “My way” e “That's life” di The Voice. Sottotono rispetto alla materia incandescente che avevano tra le mani.

Al Franco Parenti invece vanno in scena gli Oyes con il loro nuovo "Schianto". Stefano Cordella sa scrivere per il teatro, la sua scrittura è un machete nella foresta, creando questi mondi paralleli, visionari, altri, debordanti, infarciti da dialoghi serrati, crudi di slang, sanguinosi di borgata che colano rabbia, cinismo, quell'acido gelo che nasconde la voglia di una carezza. Potremmo paragonare le sue drammaturgie, per lucidità e sprint, assonanze e slanci, a Carrozzeria SCHIANTO_Compagnia-Oyes.jpgOrfeo o a Bruno Fornasari dei Filodrammatici milanesi. Parliamo a ragion veduta dopo aver visto, nel tempo, “Vania” e “Io non sono un gabbiano”. Su “Schianto” (che vedemmo in fase di studio due estati fa a “Inequilibrio” a Castiglioncello) il quadro leggermente s'incrina, il vetro (come quello che riempie la scena e il fondale, pare un castello di ghiaccio come questi cuori resi duri e glaciali dal corso delle loro esistenze di solitudini) si frammenta e si crepa. Da una parte respira un'idea forte, dall'altra si ha la sensazione di aggiunte, di una eccedenza di particolari e storie che s'intersecano; se alcune parti sono troppo colme di elementi, altre avrebbero avuto bisogno di una maggiore analisi. Il gruppo degli Oyes (sempre intensi e in parte Dario Merlini, Francesca Gemma, Umberto Terruso e Fabio Zulli) comunque, dal punto di vista attoriale, regge l'urto ed ha la garra necessaria ad affrontare con grinta e tenacia questi testi dirompenti che fioriscono sul conflitto. Sta tutto nel titolo: “Schianto” appunto: un uomo solo per scelta e cinico manager ha appena saputo di avere un tumore sale su un taxi con un autista logorroico ignorante, sessista e razzista che sta per avere un figlio. schianto-cover-768x432.jpgLa frizione tra i due è naturale e logica e l'incidente con una figura mitologica e ibrida come uno strano essere che potrebbe somigliare ad un canguro (i rimandi a Lynch o Cronenberg si palesano). Forse sono già morti nel botto e si trovano in una sorta di limbo delle anime. Fin qui tutto scorre sul filo delicato di una poetica che taglia e di un'agguerrita dialettica aspra che cozzano creando una bolla di sospeso, irriverente e sorprendente che spiazza e affascina. Poi però, e qui sta l'assommarsi, l'accatastarsi di personaggi ed eventi, arriva un ragazzo travestito da Robin, che vuole salvare il mondo anche senza Batman, e una cantante mistress in latex disinibita e uno strano squallido bar nel bel mezzo del niente. Se prima ci poteva essere un equilibrio tra il credibile e l'incredibile, tra il plausibile e l'onirico, adesso, dopo le aggiunte, si ha la sensazione che la barra del discorso si sia un po' perduta alla ricerca del colpo ad effetto, della stravaganza allucinata, del tocco spiazzante che susciti un altro, ennesimo wow. E' quando la cantante prende la parola dal palco del locale che qualcosa si spezza e s'infrange e il patto tra platea e scena s'inceppa rendendo la visione non incredibile ma poco credibile, al netto della nostra mai richiesta di realismo e naturalismo.

Tommaso Chimenti 15/11/2019

ROMA – Dopo averlo visto nelle vesti carnascialesche e viscerali dei Sonetti shakespeariani, dopo averlo ammirato in un Moliere colorato e raffinato, stavolta applaudiamo un Valter Malosti poliedrico, sempre più artista a 360 gradi, capace di cambi di registro, di sterzate, di intuizioni, di piccole grandi magie sceniche. In “Se questo è un uomo” (che in prima battuta era stato affidato a Paolo Pierobon che ha lasciato la “patata bollente” a 25 giorni dal debutto: un bravo a Malosti anche per aver preso la nave a quel punto della rotta), sempre terreno scivoloso con la retorica e la didattica e la didascalia sempre pronte a fare capolino, il direttore del Tpe di Torino (che lo produce assieme al Teatro Stabile di Torino e al Teatro di Roma) è riuscito, con una recitazione neutrale e che non lasciava adito né respiro a convenzioni né a facili commozioni, a far passare, nel suo quasi completo immobilismo, un dolore feroce, uno strazio silenzioso, lasciare ferite sotterranee.02-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera-1920x1278.jpg

Il suo è un teatro sempre curato all'estremo, denso di contenuti ma pulito in immagini che rimangono impresse anche molto oltre la fine della rappresentazione; qui l'uso delle proiezioni che dialogano perfettamente con il protagonista (1h 40' di monologo, mai stancante o fiacco, mai cede o tentenna), la scena (efficace di Margherita Palli) con il pavimento sconnesso e obliquo come un paesaggio lunare spettrale di crateri, come le vite degli ebrei dopo le Leggi Razziali, il coro (le bocche proiettate ci portano alla memoria “Non io” di Samuel Beckett) con i madrigali che trascinano con religiosità aulica e spirito febbrile, i due performer, usati con il contagocce, una danzatrice e un attore zombiesco, che intervengono a piccole dosi, come satelliti che danno ancora più risalto al pianeta centrale. Comunque non si tratta di un one man show anche se tutto ruota attorno al carisma e alla luce che emana Malosti/Levi fermo in mezzo alla scena nel suo cappotto, con la valigia, lì sospeso, abbandonato nel vuoto attorno e con tutto quel buio, soprattutto quando la casa alle sue spalle si alza dopo l'entrata nel lager, quel nero devastante, violento, crudele e brutale che dietro di lui vuole aggredirlo, tenta di mangiarselo, vuole inghiottirselo, vuole trascinare anche noi, succhiandoci dalla platea, come una calamita bulimica che attrae ogni materia che le gravita attorno.

Il progetto di Malosti è alto, inconsueto e impegnativo a cento anni dalla nascita del torinese Primo Levi (31 luglio 1919), tre gli appuntamenti ideati con altrettanti campioni della scena contemporanea nostrana: Pierobon, appunto in prima battuta, in “Se questo è un uomo”, Luigi Lo Cascio con “Il Sistema Periodico”, Fabrizio Gifuni in “I sommersi e i salvati”. La neve scorre sul velatino sul boccascena e, una volta caduto a terra, forma una sorta di fangoso appicicaticcio composto che sa di melma, di sporco, di quel laido incrostato che pervade i giorni nel campo di concentramento. Il suo è un racconto, il lento scivolamento nell'abisso, anzi in quell'Inferno che si fa parallelo, in audio, con quello dantesco. Il ritmo, nel suo incedere lineare e senza strappi, nella sua “normalità” di concatenazione degli eventi senza pathos03-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera-1920x1278.jpg (dona ancora più freddo alle ossa), è un cammino claudicante, una perdita, una discesa tra queste scale di grigi, sfumature di morte, con questi riflettori (le luci affilate sono di Cesare Accetta) che da più parti colpiscono, accecano, incartano Malosti come un interrogatorio al sapore di chiavistelli, al crudo rumore di ghigliottina. Malosti qui non è Levi, ma è Levi che racconta di se stesso in una triangolazione che restituisce gravità e distanza, un occhio esterno che allontana e rende la visuale più nitida sull'impianto. Un grande lavoro composito pulito.

Tante scolaresche (il tema si presta) e nessun fiato, nessuna distrazione, nessun bisbiglio: la luce oscura che arriva dal palco è talmente potente che annichilisce, ti rende esangue, prosciuga, congela, immobilizza, affascina, deglutisce come un imbuto, tira come un cono d'ombra, risucchia come sabbie mobili. E basta leggere Levi, e basta sentire Malosti per capire, anche a distanza di anni, quanto abbaglianti e incresciose fossero le inesattezze e gli errori grossolani e marcati disseminati all'interno della pellicola Premio Oscar “La vita è bella”: le baracche dei prigionieri in muratura con il pavimento, invece erano di legno con il fango a terra, il bambino che rimane con il padre, invece venivano separati e gassati subito, i teschi messi a piramide, invece c'erano i forni crematori per “farli passare per il camino”, gli americani che arrivano in Polonia con i carri armati a distribuire cioccolata e chewing gum (come accadde a Napoli, Malaparte docet), invece erano stati i russi CARIGNANO_12-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera_800_532.jpga liberare i campi. Inaccettabili stravolgimenti della Storia.

Valter Malosti conosce i meccanismi del teatro, le sue pieghe e al contempo non usa strategie, ruffianerie, sotterfugi, rimanendo minimalista pur nella somma che mai risulta debordante, anzi tutto è centellinato, misurato, millimetrico, ben calibrato. Inoltre, seppure tutto il testo sia concentrato su di lui e nelle sue mani e gravi sulle sue spalle larghe, mai si ha la sensazione del mattatore che “uccide” il testo e se lo mastichi per il puro gusto dell'applauso (abbiamo molti esempi in Italia di tale nefasto modo di stare in scena).

Il suo teatro.it-se-questo-e-un-uomo02-Valter-Malosti-ph-Tommaso-Le-Pera.jpgscorrere è ansiogeno in una calma apparentemente gelida che non ti concede vie di fuga né attimi dove poter stare tranquillo affossato sulla tua poltroncina, ogni incipit è uno spillo che ti costringe ad aprire gli occhi, ti mette a nudo in questa “demolizione di un uomo”, e ti senti piccolo, e ti senti vulnerabile, e ti senti indifeso e impotente, ingabbiato, “la presenza cattiva del filo spinato” la senti sulla pelle come brivido irto, sei solo, offeso, tramortito, senza speranza. Testo straziante e ancora necessario. E c'è quasi vergogna alla fine ad applaudire, perché il battere le mani è gioia o liberazione e in questo caso non ci può essere né l'una né l'altra. Se questo è Malosti lo vogliamo vedere altre dieci, cento, mille volte.

Tommaso Chimenti 10/11/2019

Foto: Tommaso Le Pera

PADOVA – Ormai la comunicazione moderna è talmente abbagliante sul momento, catalizza l'attenzione attraverso i media, i social network in maniera tanto invasiva da scemare in pochi giorni. Una luce potentissima che porta una luce flebile e spesso frivola buona per un tweet, un po' di commozione dal divano, un like svogliato e stanco e assonnato dalla scrivania. E poi? Rimangono i danni, rimangono gli abitanti sul territorio, rimangono i detriti, le macerie, fisiche e morali. E così è successo con la Tempesta Vaia nel Nord Italia dell'ottobre 2018, le immagini raccapriccianti di distese infinite di alberi travolti, smembrati, divelti come cerini da una terra prima arida e poi gonfia di pioggia. La comunicazione, dicevamo, è talmente insistente e pervasiva nei primi giorni e talmente 21-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4686.jpgpotente e violenta, occupando tutti i canali d'informazione che, necessariamente, dopo poco ha bisogno di altra carne fresca da spolpare, di nuovi casi, nuove tragedie, vicine o lontane, nuovi sensazionalismi da sparare in prima pagina o in apertura di tg. Gioco forza il dramma precedente finisce sotto la polvere, nell'oblio, nel dimenticatoio. Tutto diventa talmente preponderante e importante, tutto è sparato e strillato a decibel sempre più alti che la nostra concentrazione, interesse e memoria rimuovono, accantonano un po' per difesa e un po' perché tutto il bombardamento si somma e diviene una matassa indistinta di rovine e fatichiamo a ricordarci quando, dove, chi, cosa e a rimettere i pezzi a posto. La tragedia del Vaia è solamente di un anno fa e, come dice il testo di Matteo Righetto, al di là delle Dolomiti se lo scorderanno presto. Vero, anzi verissimo. E' quello che è successo. da sx_Sangati, Gobbo, Pagliei, Carcano, Righetto, Pennacchi, Beltotto, Ongaro.JPGNon se ne parla più. Altre tragedie in questi ultimi 365 giorni si sono affacciate, altri disastri, altre urgenze, tra la realtà e il bisogno dei media di riaccendere, con la paura e lo scandalo e lo stupore (creando spesso l'effetto contrario: l'assuefazione), il focolaio delle notizie da vendere.

Sta di fatto che il teatro, forse perché mezzo ed arte più terrena e umana, più artigianale e tattile, in due recenti produzioni ha ricordato la sciagura di fine ottobre scorso: a Siracusa questa estate nella produzione Inda del Teatro Antico gli abeti abbattuti erano la scenografia de “Le Troiane” pensata dall'architetto Stefano Boeri, e in questa nuova produzione del Teatro Stabile Veneto, “Da qui alla Luna”, viscerale, sentita, partecipata. Il titolo fa riferimento alla portata del disastro che pare impalpabile parlando di alberi ma che invece, parlando di numeri diventa ingombrante: se messi uno in fila all'altro i 16 milioni di alberi abbattuti dalla furia della bufera riescono ad arrivare ad una somma di chilometri tali da poter raggiungere dalla Terra la Luna, la Luna dei poeti, la Luna di Pierrot, la Luna di Astolfo, la Luna di Armstrong. Una tragedia di proporzioni bibliche che ha colpito Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia. In questo “Da qui alla Luna”, commovente e toccante, il regista Giorgio Sangati è riuscito a far dialogare l'affabulatore Andrea Pennacchi, il chitarrista e cantautore Giorgio Gobbo e l'Orchestra di Padova e del Veneto, con oltre trenta elementi, che si è fatta pioggia, uragano, tsunami e ha tratteggiato, sottolineato e non semplicemente accompagnato, tutti i momenti e le fasi del disastro, da quando montava a quando infuriava fino alla devastazione che ha lasciato a terra.45-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4817.jpg

Un piccolo inciso è necessario sul protagonista, da settembre nel cast di “Propaganda Live” di Zoro: Pennacchi è la risposta a Crozza quando apriva Ballarò, è la risposta a Stefano Massini a Piazza Pulita, è Grillo agli inizi della sua carriera, un po' Albanese, un po' Gnocchi, un po' Natalino Balasso, molto Paolini, ha la pastosità di Chef Rubio, l'imponenza di John Goodman, quella terrenità nostrana ruvida e semplice delle campagne, ha un'anima ironica travestita da tragedia, un telaio sarcastico vestito da cronaca, il tutto immerso nel dialetto feroce veneto, ha quell'aria rude da guerriero celtico, è spigoloso nella sua barba ispida, furibondo, furioso, imbufalito ti sfida selvaggio, il suo modo di stare in scena è crudo, sanguigno, sa di provincia, va dritto al punto, sferzante come una mazzata, duro senza tanti giri di parola, arrabbiato, corposo come un rugbista in mischia, testa bassa e pedalare. Un grande caratterista. I suoi sono sguardi feroci, lampi indagatori, che ti scavano dentro, fulminandoti, addosso, è burbero e brutale ma è anche un possibile Cipputi moderno: “con i Pennacchi e con le armi”, diceva De Andrè nella sua “Bocca di rosa”. Azzeccato.

Ma torniamo all'attualità: “Da qui alla Luna” è un colpo al cuore, un gancio ben assestato alla bocca dello stomaco, entra come un'autopsia dentro le pieghe della sciagura tra documenti, perizie, vita vissuta, lacrime, paura. Una foresta viene divelta, sradicata, mangiata, implosa. E dire che da queste parti, dal Polesine al Vajont, di tragedie, purtroppo, ne hanno sentite, vissute sulla pelle. Tanti ceppi a terra, che arrivano proprio dalle zone colpite, sono la scarna scenografia, magra e macabra di ombre basse come le immagini di quelle montagne adesso brulle e calve dove giacciono ancora i cadaveri di arbusti, linfa e resina non più verticali. Una disgrazia da dover necessariamente urlare anche oltre i confini macroregionali aggrediti dalla forza della Natura (e dalla stupidità umana che ha innescato il surriscaldamento globale e la conseguente tropicalizzazione alla quale viene imputato anche questo evento) per riportare l'attenzione nazionale, quelle “Venezia e Roma”, citate da Pennacchi, che hanno altro a cui pensare, a livello politico e non solo, per occuparsi delle “province”, del contorno, del laterale. Pennacchi, e il testo di Righetto, riescono a farci sentire la fatica, la preoccupazione crescente, la ferita, anche il dolore degli alberi: “Non è ambientalismo da salotto”. Adesso cadono gli alberi, “i prossimi a cadere saremo noi” in un parallelismo purtroppo molto vero.

25-DaQuiAllaLunaGiorgioSangati04112019-4710.jpgL'escamotage per raccontare la vicenda, anzi lo sviluppo e il corso degli eventi che in quella settimana dal 24 ottobre 2018 hanno cambiato radicalmente e per sempre il volto delle nostre montagne, è l'invenzione di tre personaggi, tre età scandite, l'uomo adulto, Silvestro, il bambino, Paolo, l'anziana signora, Agata, tre diversi sentimenti confluiti in un unico grande afflato, un solo respiro prima di grande timore poi di lacrime infine di scossa, rivalsa, rivincita. Possiamo dire che Vaia è stato l'11 settembre ambientale italiano ma in qualche modo sembra sia stato derubricato a qualcosa che interessi soltanto “i montanari”, che non tocchi tutto lo Stivale, tutti gli italiani. Il fumo staziona in aria, in alto a metà tra gli uomini e il cielo, ed è nebbia, è coltre, è mistero in questo thriller con molti cadaveri ma senza l'assassino. Ecco gli incendi, ecco il vento caldo Favonio che secca e prosciuga, ecco in successione venti fortissimi da tifone e piogge torrenziali monsoniche su una terra dura che non accoglie tutta l'acqua scesa e fa saltare come birilli gli abeti. E' un crescere, un aumentare il pathos, il respiro gonfio mentre in alto un faro diventa la Luna che ci guarda tra lo sconsolato e l'impotente. Una Luna che inquadra e impalla Pennacchi e che ci ha fatto trapelare l'immagine della copertina dell'album “Ruttle and Hum” degli U2 nella quale Bono Vox direzionava e da qui alla luna.posato (1 of 7).JPGpuntava un riflettore su The Edge curvo sulla sua chitarra.

Il racconto è denso come fango, è pregno e incessante come melma, è umido di lacrime, ora è una scarica adesso una riflessione sconvolta, ora è senza posa, ora è poesia senza resa, adesso decelera per poi risalire, perforare, trafiggere, solcare: “Una volta gli uomini vivevano con la Natura, ora contro la Natura”. Sembra un inferno di ponti che crollano, tetti che volano, “case scoperchiate e boschi stesi”, strade che cedono, la corrente che salta e gli alberi che cadono come birilli nel bel mezzo di uno strike, come grissini sgretolati, come fuscelli spezzati, come stecchini rotti: un vero massacro ecologico, emotivo, sentimentale, il Giudizio Universale, la Fine del Mondo, uno scenario apocalittico, di zolfo, di marcio, di crollo, di perdita, non solo materiale, di lutto. La Luna indica il progresso dell'uomo, questa Luna invece, questa distanza colmata con gli alberi messi idealmente in una linea ipotetica fino al satellite crivellato di crateri, certifica un regresso. Piacerebbe anche a Greta.

Tommaso Chimenti 08/11/2019

Foto: Serena Pea

FIRENZE – Di solito la mosca non è il problema ma rappresenta il sintomo, quel campanello d'allarme. La mosca rotea, svolazza, s'accapiglia sulle carogne, sulla decomposizione, sul marcio. La mosca è l'ultimo baluardo di vita dove vita già non c'è più, è l'ultimo fremito, l'ultimo colpo d'ali alla ricerca della carcassa in putrefazione. E l'occhio, e la penna, clinico come fosse un'anatomia dei sentimenti, di Michel Marc Bouchard (più volte rappresentato all'interno di “Intercity” al Teatro della Limonaia, come “Il sentiero dei passi pericolosi”) mette a nudo e scoperchia tutta l'infezione e la corruzione morale all'interno di una famiglia (potremmo essere sospesi tra i Kamamazov e “Il Giardino dei ciliegi”), se così si può chiamare. “Sotto lo sguardo delle mosche”, per la regia di Simone Schinocca e della compagnia torinese Tedacà, sono storie claustrofobiche che s'aggrovigliano, storie psicologiche torve e losche, storie di dipendenze patologiche cupe, storie di vendette fredde, storie dove manca l'ossigeno, dove non ci sono finestre per vedere un panorama che sia un po' più lontano, per constatare una siepe da voler superare.bouchard-web.jpg

E' nell'incipit 1987.jpgche la narrazione si dipana come fossimo in un teatrino e si delineassero e si mettessero in campo e sul tavolo gli oggetti e gli argomenti, come le puntate sul tappeto verde del poker; tre sono gli elementi che guerreggeranno, che si alimenteranno, che entreranno in frizione o si supporteranno: la morte, la sopravvivenza, la noia. Questi sono i motori dell'uomo moderno, ai quali cercare di nascondersi, dai quali tentare di mimetizzarsi per non farsi colpire dal virus: si sopravvive alla morte e si cade nella noia e nella noia si cerca la morte per poi riuscire a ritrovare faticosamente l'equilibrio barcollante della vita che presto tornerà noiosa contribuendo a questo vortice di up & down, di stelle e Fossa delle Marianne che non fa altro che produrre mostri e fantasmi. Bouchard, che si autodefinisce “autore canadese e non soltanto quebecchese”, ci presenta questi spaccati analitici di rapporti raggelanti, dove non scorre sangue ma calcolo, dialoghi come lame glaciali, famiglie spezzate da un odio sotterraneo che prude, frizza come sale sulla ferita, senza sconti, senza salvezza, senza vincitori né vinti. Se ne esce affranti e svuotati, contagiati, senza commiserazione, senza pietà, senza linfa né energie.

C'è un sipario rosso sul fondale come se fossimo in un teatrino di provincia e la vita che da lì a poco sarà messa in campo, nell'agorà salottiera casalinga, nella tavola imbandita di menzogne e recriminazioni, sia soltanto finzione, di ruoli, di vicinanza, di parentela. Un figlio (Elio D'Alessandro) che ha lasciato la casa, dove è tenuto da sempre sotto una campana di vetro, e dove fa ritorno dopo tre giorni di assenza. La sua nuova fidanzata (Valentina Aicardi decisa, sua anche la traduzione) appena incontrata giù in città. La madre del ragazzo che ha nell'armadio lo scheletro dell'eutanasia concessa alla sorella morente e sofferente. Il cugino, vero Joker del play (Andrea Fazzari, il vero protagonista, ha il cinismo calcolatore e il piglio lucido da Iago, è il Diavolo de “Il Maestro e Margherita”) attorno al quale tutto ruota, cambia, prende forma, si anima, si sciupa, deperisce. La matassa sono fili labirintici di sovrastrutture annodate dal tempo che mai perdona ma che tutto ingigantisce, incancrenisce, satura. I torti si sommano, si amplificano cercando punizioni, colpe divenute capitali e mai più amnistiabili.

C'è un lascito biblico del Figliol Prodigo che l'epilogo dell'Ultima Cena, c'è una sorta di richiamo della foresta di Jack London attorno e dentro questa casa feticcio, questa costruzione nobiliare sorta e cresciuta accanto ad una popolazione di 14.000 maiali, allevatori arricchitisi con suini e prosciutti, con spalle e speck, con cotechini e zamponi. Le mosche intanto gravitano sopra attendendo il loro momento sotto-lo-sguardo-mosche-elio-d-alessandro-andrea-fazzari-ph-emanuele-basile.jpgda sciacalli in miniatura, da avvoltoio microscopici per calare come Unni sulle carni macilente e purulente. Si sono arricchiti con i maiali ma di fondo, nel dna, sono rimasti feroci, brutali, animaleschi. Del maiale si mangia tutto ma anche il maiale mangia qualsiasi cosa.74638436_10220603274857609_5134422412099584000_n.jpg

Sono tutti legati da un dolore straziante in una catena di vuoti e mancanze e assenze: il ragazzo (Amleto imprigionato nel castello di Elsinor?) non può stare lontano da quell'abitazione, il cugino non può vivere senza il ragazzo, la madre senza il ragazzo si sente persa, il ragazzo ha grandissimi mal di stomaco come crisi d'astinenza. E' il ricatto la base per le trattative in questa famiglia dove i ruoli sono saltati, dove tutto è labile, dove i contorni si sono sporcati fino a fare poltiglia delle regole sociali, fino a polverizzare convenzioni accertate. La violenza è il filo che li lega tra letame e larve, tra sangue ed escrementi, tra segreti e minacce. Loro sono i maiali, loro sono le mosche: un groppo che grattugia gravido, grave e gracidante.

Tommaso Chimenti 28/10/2019

VENEZIA – “Arlecchino è il rifiuto di tutti i perbenismi, i luoghi comuni, le ipocrisie” (Dario Fo).

Scordatevi l'Arlecchino burlone, saltimbanco e colorato. Quello che il regista Marco Zoppello (anima degli Stivalaccio Teatro) e il Teatro Stabile Veneto (due spettacoli su altrettanti canovacci goldoniani poco rappresentati, 70 repliche sul palco del Teatro Goldoni veneziano, con due cast di sei giovani attori per produzione provenienti dalle scuole venete affiancati ad un Arlecchino esperto) hanno deciso di mettere in scena, anche per questa seconda trance “Arlecchino e l'Anello magico” (l'anello ci riporta sempre alle atmosfere misteriche del “Signore degli Anelli” marco-zoppello.jpgo “Harry Potter”), ha un che di malinconico e lugubre, una seriosità, sotto la forma cialtrona e spumeggiante, che si fa scura, si incupisce la frizzantezza, si rabbuia lo spirito allegro. Ogni costume infatti ha note di scuro e bruno e un piccolo tocco nero (idea illuminata dell'ingegnosa costumista Lauretta Salvagnin) che fa da fil rouge e tiene uniti tutti i caratteri e le figure sul piccolo palco montato sul grande palco del teatro lagunare. Stare sulla piccola gradinata, a pochi passi dagli attori, e avere la doppia visuale della recitazione così fresca e vicina e, alzando gli occhi, sui palchetti accesi da piccole luci, con le ombre della scenografia di alberi che ci rimbalzano, è uno scarto emozionante che fa sentire nel cuore dell'arte, della creazione, della produzione, al centro di un grande progetto.

Dicevamo67602765_10219748058039959_1692225648724017152_o.jpg i costumi: già perché tutti e sette sono stati costruiti e cuciti con cenci e stracci, quelli per pulire la casa per intenderci, raccordati tra loro, anche questa una piccola grande ricercatezza, fervida intuizione di maestranze esperte che sanno lavorare, bene, con le mani e soprattutto con la testa. Forse è questo uno dei motivi dominanti della riuscita dell'operazione (inizio alle 19, sovratitoli in francese e inglese, tanti i turisti, sold out tutte le recite, la convivialità del prosecco distribuito a fine replica) che lancia la nuova stagione che sta per cominciare: la grande sintonia di più comparti, registico, attoriale, tecnico, dirigenziale (il direttore Massimo Ongaro soddisfattissimo del risultato e sempre presente) uniti, concentrati e affiatati; si sente, si intravede, si tocca, si percepisce tra le pieghe dei non detti tangibili.

Costumi più contriti e anche la maschera del nostro (anti)eroe (Stefano Rota, unico perno non intercambiabile tra le due piece, “Il figlio” e “L'anello”, attorno al quale ruotano sei giovani attori per volta) che si fa cagnesca ma, oseremmo dire, suina o ancora, forzando la mano, cinghialesca, in una sorta di ritorno alle origini animalesche (vaghi rimandi alle maschere giapponesi guerresche o a quelle tribali rituali africane). C'è da dire che i due canovacci (appunto, non testi) di Carlo Goldoni erano poco più di qualche appunto e schizzo, 67638025_3082772498429873_7308939185556029440_n.jpgpoche pagine che Zoppello (reduce da un Avignone con i fiocchi e con il botto che gli ha portato in dono le repliche parigine di novembre al Petit Palais) ha reintegrato, adattato, infarcito, espanso, raccordato. Tutto è a vista, compresi i rumori prodotti accanto alla scena dagli stessi attori che ne fanno quasi una striscia di fumetto; altro tocco di artigianalità. A livello linguistico vengono utilizzati più che i dialetti, le calate regionalistiche: il veneto, ovviamente (ad esempio “desmentegarme” al posto di dimenticare), il laziale, il napoletano, con irriverenti e ilari strafalcioni ed errori grammaticali.

La melancolia pensierosa e lo spleen di fondo, che scorre e ogni tanto fa capolino con piccoli tocchi leggeri ma pungenti, se nel primo episodio del dittico riguardava la violenza sulle donne e il machismo diffuso antifemminista, in questo secondo step si rivolge e guarda un altro problema del nostro tempo, una patologia che colpisce moltissime famiglie: l'alzheimer o la demenza senile. Infatti Arlecchino, che si vuole suicidare (altra piaga sociale del nostro mondo progressista, evoluto e benestante), fa un patto con una sorta di mago mefistofelico (strano che somigli ad una figura papesca) che gli dona un anello con il quale dimenticherà il suo passato. E sono tenere e dolcissime le scene nelle quali Arlecchino (dai tratti interiori del Joker di Joaquin Phoenix) non riconosce sua moglie Argentina (spicca Eleonora Marchiori, brava anche negli stornelli; struggente il primo “S'è fatta mezzanotte e io non so perché”) ma le chiede la mano perché, anche se non la ricorda, la vorrebbe sposare nuovamente. 68475937_3082766461763810_7811090848950517760_n.jpgQuesto il dato più esistenziale, sentimentale e familiare, se vogliamo, al quale si aggiunge una velata critica sociale che però fa comunque rumore: Arlecchino, che appunto ha perso la memoria, non conosce più il valore dei soldi e, come un bambino ingenuo e puro, si chiede come sia possibile che chi non ha denaro non possa cibarsi, sfamarsi e alimentarsi, “E' una bestemmia questa libertà”; e anche qui apre un'ampia finestra di riflessioni sul nostro Primo Mondo che produce, consuma e fa crepare.

Tutto il cast comunque è up: il Signor Gendarme, alquanto carabiniere pinocchiesco, è Davide Falbo che ha fisico, news-arlecchino-estiva.jpgprestanza ed ironia, Amelia, la madre di Rosaura è Meredith Airò Farulla, il suo ruolo ha un che di dantesco, Celio è Marlon Zighi Orbi che ci ricordato Orlando Bloom, Lorenza Lombardi è Fernanda l'ostessa manesca, il suo romanesco è da Rugantino o Marchese del Grillo, e Pierdomenico Simone è Trappola il gobbo, “falso invalido”, molto “Pirati dei Caraibi”, un picchio punk, Puk rock. Uno, cento, mille Arlecchini.

“Arlecchino è savio o matto? È intelligente o balordo? Sono domande impossibili, perché la maschera si muove su un piano diverso. Anzi ciò che turba è la doppiezza o polivalenza della maschera” (Giorgio Strehler).

Tommaso Chimenti 17/10/2019

FIRENZE – Sublime. La perfezione. La precisione. La Pulizia. La Grande Bellezza. Il Teatro della Pergola, che apre col botto la nuova stagione, e Firenze di rimando in un gioco di specchi, torna ad essere al centro del discorso teatrale europeo con una coproduzione che esalta la scena, l'arte attoriale come quella registica. Una grande attrice, Isabelle Huppert, che da sempre alterna cinema d'autore e palcoscenico, un immenso regista, scenografo e datore luci, Bob Wilson, uno splendido compositore, Ludovico Einaudi ed un testo, allo stesso tempo ostico, poetico, raffinato, alto e pungente, “Mary said what she said” di Darryl Pinckney, grande autore americano vivente.bob_e_isabel-780x405.jpg

E' la storia di Maria Stuarda post mortem, i suoi ricordi, la Scozia, la Francia, le quattro ancelle di nome Mary come lei, soprattutto il figlio, la prigionia. Una sola donna in scena, la magnifica Huppert che si muove come danzatrice di carillon con un controllo del corpo sopraffino, delicato, eccezionale, che dialoga con questi grandi chiaroscuri e questi abbagli di luce che fulminano. Sembra la Regina degli Scacchi, dama di porcellana dai movimenti lentissimi a danzare, roteare, spostarsi come geisha che fruscia e scorre come su un tapis roulant. La luce adesso è un'alba, una lama che taglia il fondale (orientaleggiante) orizzontalmente, quasi un tramonto post atomica, una luce biancastra, malata e queste risate di bambino che inquietano l'inizio e decantano il finale commovente.

Una Huppert-Wilson1.jpgmegaproduzione che, oltre alla Pergola, ha visto tra i finanziatori il Theatre de la Ville di Parigi, il principale, la Wiener Festwochen di Vienna, l'Internationaal Theater di Amsterdam, il Thalia Theater di Amburgo tra i coproduttori. Tutta Europa ai piedi della Huppert. La scena è vuota, lugubre, uno spazio dove non ci sono più appigli né oggetti materiali, solo il suo abito scuro e nero che fronteggia questa luce che non dà calore. E' un manichino, è una bocca beckettiana che avanza piano, con una forza da togliere il fiato Mary si riprende il campo che le hanno sottratto, il terreno che le hanno tolto da sotto i piedi. Si confronta e si scaglia, duella, dribbla e fronteggia la sua stessa voce in loop registrato. La luce dietro, alle sue spalle, da tramonto macilento si fa adesso elettroencefalogramma piatto, una linea costante ad indicare che le funzioni vitali hanno abbandonato quel corpo che però ancora inveisce eMARY-SAID-WHAT-SHE-SAID__LUCIE_JANSCH-2-700x477.gif s'impunta, indica ostinato e azzanna nella sua impotenza coloro che l'hanno arrestata, giustiziata, dimenticata.

Maria disse quel che disse: siamo davanti ad una confessione, è un togliersi i sassi dalle scarpe, è un grido, è una liberazione, finalmente, è rivoluzione, è giustizia. Come fotogrammi immobili si sposta millimetricamente, una scarpa in mano come Cenerentola e questa luce che si fa buio accompagnata dal suono macabro e metallico di una ghigliottina che seziona, separa, divide irrimediabilmente. Luci, corpo e voce, che altro. Sul grande palco della Pergola la Huppert sola non sparisce, tutt'altro, lo conquista, lo cavalca, lo domina, lo riempie con la sua figura esile, con la sua voce corposa che zittisce l'aria, che ammutolisce. La luce adesso si fa verticale come un richiamo a Dio, una scala, un ponte verso l'Alto, a cercare quella croce che salva dalle nebbie pannose e cotonate che invadono la teca dove appare marysaid_1.jpgreclusa sul fondale. Nelle ripetizioni catartiche delle frasi, come una marionetta interrotta, Isabelle/Mary infine lascia andare l'ascia di guerra e si scioglie (e noi con lei) ricordando il figlio che non ha visto crescere. Lì la voce s'incrina, il tono si rompe e la regina torna donna, torna madre, torna umana e terrena. L'Arte può risarcire la Storia.

Tommaso Chimenti 14/10/2019

GENOVA – Cos'è un uomo senza i suoi ricordi? Il duo degli Instabili Vaganti da Bologna si è spostato nel mondo in questi ultimi quindici anni e qui, vagando appunto come il loro nome ci suggerisce, hanno trovato una casa, un luogo, più luoghi disparati sul mappamondo, dove risiedere, creare, fare residenze, progettare lavori. Si sono creati il loro status, il loro passaporto artistico passando frontiere e riportando le loro esperienze nei loro laboratori, prima, e nelle loro performance, poi. Lo scrissi al tempo della visione de “Il Rito” dove pareva che, dopo tanto peregrinare e tanto materiale accumulato nelle retine, sulle ossa, tra gli appunti, dovessero ancora pienamente metterlo a fuoco, selezionare, digerire le esperienze per farne “teatro”, e non per mettere in scena i loro viaggi. I loro viaggi artistici di una vita, che li hanno formati e li hanno portati ad essere ciò che adesso sono, che hanno creato quell'humus, quell'habitat dove stazionano, ed è da lì, in questo luogo immaginifico e metaforico, inesistente e immateriale, che devono tentare di far passare, di comunicare il loro mondo interiore.global_city_1.jpg

Anche questo “Global City” soffre delle stesse sbavature, seppur nel complesso si noti un deciso miglioramento e una maggiore accuratezza, video, coreografie e scene (la produzione del Teatro Nazionale di Genova, insieme al Festival uruguaiano FIDAE, nonché del Bando Siae “Per chi crea”, a sostegno del coro di sette giovani, si sente), con quadri dove ci raccontano il loro viaggio come una serie di diapositive e sezioni e racconti in giro per il globo. Sono ricordi estrapolati (come in “Minority Report” o in “Atto di forza”, “Se mi lasci ti cancello” e “The Bourne identity”) come in un laboratorio da esperimenti e cavie per toccare con mano il loro diario di bordo tra Messico, India, Uruguay, Corea del Sud. Malmo_600x400.jpgRimaniamo in superficie: ci raccontano quello che già sappiamo, ovvero che hanno fatto migliaia di chilometri per lavoro. Ne siamo entusiasti, li ammiriamo per questo, per ciò che sono riusciti a ritagliarsi. Ma poi? E quindi? Il viaggio dovrebbe essere un mezzo per raggiungere altre parti di sé non il fine ultimo come appare qui, viaggiare per raccontare di aver viaggiato.

Dovrebbero lasciarsi alle spalle questa loro poetica ed usarla e farla fruttare mettendola a servizio del teatro, non raccontarci che cosa hanno visto e fatto ai quattro angoli del pianeta ma, attraverso questa grande esperienza e fortuna che sono riusciti a crearsi e guadagnarsi sul campo, riuscire a metterla in un'opera senza cartina (altrimenti si scade nell'autocompiacimento), senza mappe e freccette (altrimenti è tripadvisor o booking.com), senza geografie tangibili (altrimenti si è blogger di viaggio o reporter, che è un altro mestiere rispetto all'attore o al performer). Manca il giusto distacco e la distanza necessaria per accantonare le proprie biografie, un lasciarsi in un angolo, divenire personaggio, quindi universale e trasversale, e abbandonare se stessi in camerino. Che il viaggio serva a formare, umanamente, esistenzialmente e professionalmente, ma che non sia lo scopo conclusivo e definitivo del racconto, il fine ultimo dello stare sul palco: “Queste sono le mie città, città reali nelle quali megalopolis_tampico-ph_TFM.jpgho vissuto e nelle quali mi sono sentita viva”, dice Anna Dora Dorno (deve lavorare sulla parte canora), “Questo è il mio teatro, questa è la mia arte e mi batterò per difenderla”, proclama Nicola Pianzola (bene, soprattutto nella parte coreografica e atletica). Un teatro che parla degli autori che fanno teatro, in un circolo claustrofobico a senso unico che fa il giro e che poi torna al punto di partenza.

Gli Instabili sono anche cresciuti come estetica, come impianto, più articolato, come struttura complessiva, più composita, come assemblaggio attorno ad instabili-vaganti.jpgun'idea. Dall'altra parte, in vari passaggi e fasi, si ha la sensazione di svariati riverberi che ci hanno ricordato troppo Pippo Delbono, echi della sua enfasi, rimandi al suo pathos. In mezzo a tante scene dove si susseguivano racconti e record delle varie fasi estere e in terra straniera del duo, questo il fil rouge di fondo, alcuni quadri invece ci hanno lasciato perplessi: estemporanee le maschere di Trump e Kim Jong-un, il wrestler messicano, un rap molto jovanottiano sulle città incontrate nel loro cammino, il tutto mischiato in un melting pot, english & espanol, senza essere riusciti a capire l'idea che gli Instabili hanno del teatro, sul teatro. Ci rimangono i chilometri che hanno percorso, ci è mancata la tridimensionalità. Un teatro di viaggio e non il viaggio del teatro.

Tommaso Chimenti 11/10/2019

TORINO – E con questa sono ventisei le edizioni del “Festival Incanti” (3-10 ottobre) dislocato tra Torino, Grugliasco e Rivoli con la centralità della Casa del Teatro ma anche, sempre nel capoluogo piemontese, il magnifico Circolo dei Lettori, il Teatro Astra e il Cinema Massimo. Il direttore Alberto Jona ha stilato un cartellone (supportato e sostenuto da Compagnia di San Paolo) con ospitalità da Perù, Canada, Spagna, Svizzera, Francia e Italia per un giro del mondo attorno e dentro al teatro di figura, piccole e grandi scoperte capaci di meravigliare, far sobbalzare o semplicemente sognare: non è poco.

Grande colpo per “Incanti” quest'anno è stato quello di essere riusciti a portare a Torino il memorabile gruppo svizzero dei Mummenschanz, storica compagnia mummen.jpg(riconosciuta a livello globale al pari di Cirque du Soleil, Stomp o Momix) da cinquant'anni in giro per il mondo con le loro creazioni, compreso Broadway. In un Teatro Astra gremito e traboccante (la rassegna si è aperta nel teatro del TPE diretto da Valter Malosti) si è sciolta e diffusa la loro ingenua e colorata vitalità con “You & Me”, vero inno fanciullesco, leggero e trasognante. Quasi due ore, ma godibilissime e scorrevoli, pur senza una parola né una musica, per un impianto gigantesco dalle mani bianche del mimo, su uno sfondo nero perfetto, che fanno il “muro”, si danno il cinque, si stringono in segno di saluto, indicano il pubblico, vagamente e gentilmente minacciose. Nascono, crescono e proliferano creature curiose e fuori dall'ordinario in questo universo che ribolle sul palco: grandi vermi verdi con la faccia da pesce e pavoni, farfalle e fantasmi, spermatozoi e murene, esseri marini stranissimi e meduse che lottano, giocando, tra cromatismi sfavillanti e spumeggianti. Una gioia per gli occhi. Un habitat primordiale, un terreno sommerso, forse primitivo e ancestrale, prima, molto prima della comparsa dell'uomo e di qualsiasi genere animale che conosciamo oggi. Orecchie blu Mummenschanz.jpggiganti, anemoni di mare e cavallucci marini tenerissimi e trasparenti, perfetti nella loro dolcezza e vulnerabilità, o pesci luminosi che vivono nelle profondità degli abissi o nella Fossa delle Marianne. Ma sono le meduse le vere attrici principali, sinuose, melliflue, seducenti come sirene, volanti, caracollanti in questa loro danza continua di tentacoli come braccia della Dea Kali. E ancora uova e rane e umanoidi stilizzati e segmentati che ci hanno ricordato la mascotte del campionato del mondo di calcio di Italia '90. Teste che diventano violini, volti di gong o di triangolo, che si trasformano in formiche o nell'urlo di Munch, tubi che sono lombrichi, mostri gonfiabili e bocche che ingoiano rifiuti. L'unica regola è che non ci sono regole, non cercare spiegazioni, segui soltanto il fluire, lasciati trasportare nella corrente.

Mettere i sacchi di sabbia vicino alla finestra come diceva Lucio Dalla ne “L'Anno che verrà” non servirà. Il gruppo pisano rimane travolgente, sempre elettrico ed eclettico, riesce sempre a stupire, coerenti all'interno di una loro poetica riconoscibile e congrua ma sempre spiazzanti, proseguendo nel loro percorso brillante, alto e popolare, insistendo sull'altra loro vena artistica, quella del disegno, del fumetto, del segnoMoschettieri 3.jpg sulla carta. I loro “I quattro moschettieri in America” è un inno al cartoon, alle storie lette da ragazzi, che poi sono quelle che costruiscono un immaginario e ci fanno sognare, alle figure con le quali giocavamo, non supereroi ma terreni, fallimentari, umani. I Sacchi di Sabbia miscelano i moschettieri di Dumas con la New York in bianco e nero del cinema del dopoguerra, cappa e spada e pistole, fioretto e le magnum dei mafiosi d'Oltreoceano con cognomi italiani. E l'incrocio e l'incontro sono fertili perché le risate e i colpi di scena appaiono come pop up (meravigliose opere d'arte) che si aprono dai libroni posti su un tavolino centrale. C'è il canto in rima, altra peculiarità e scelta del leader Giovanni Guerrieri, moschettieri in america-2.jpgc'è un'emigrazione al contrario, dall'Europa negli Stati Uniti, c'è la disoccupazione e la disperazione con la conseguente presa di posizione di farla finita decorosamente: “Spesso ci scambiano con i Fratelli Karamazov”. Personaggi involontariamente invincibili. Appare anche una battuta tratta da “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, altro caposaldo che mischiava attori in carne ed ossa e cartoni animati: “Hai una pistola lì sotto o sei soltanto contento di vedermi?”. Un road movie pieno di inseguimenti, di disegni mirabolanti (bel tratto di Guido Bartoli), di fumetti eccitanti, una graphic novel di fuggiaschi e gangster senza scrupoli, dove per una volta vincono i più scalcinati e cialtroneschi: per bambini di tutte le età.

Sia nel 2017 che questa estate siamo stati invitati e abbiamo seguito il Festival Biennale della Marionetta di Saguenay, il Fiams in Canada, su un fiordo in Quebec. Proprio nell'ultima edizione abbiamo avuto la fortuna di assistere, della compagnia La tortue noire che organizza l'impegnativa rassegna nel Canada francofono, al monumentale “Ogre”. Se l'Orco del titolo era un pupazzone di quattro metri e la scena aveva grandoeuvre-adam.jpgnecessità di spazio per aprirsi ed esprimersi, questo “Le grand Oeuvre” si presenta in tutta la sua ristrettezza e piccolezza. Uno spettacolo per pochi spettatori, tutti a contatto con questa struttura magica, affatto semplice, dove tutto si trasforma, prende vita, si anima. Un teatro da camera che ci porta dentro gli esperimenti e le alchimie di un monaco incappucciato che già ci conduce all'interno dei misteri, delle penombre e dei chiaroscuri del “Nome della Rosa”. Una postazione dove il frate (Martin Gagnon, somiglia a Kevin Spacey) mischia, sposta, confabula, aggiunge pozioni e intrugli, crea, cupo e fosco e losco, in una serie di rituali esoterici e fumi e nebbie. Due sono i “palchi” a disposizione dentro questa minuta cabina: lo spazio sul tavolo davanti al religioso e il mondo dei suoi pensieri che si manifestano e solidificano e diventano reali e tangibili e prendono vita Le grand ouevre.jpgsulla sua testa calva, rasata come il Mondo, sferica come la Terra, rotonda come il nostro Pianeta. Lì le idee prendono corpo. L'alchimista è governato da due mini droni, il Bene e il Male che si scontrano e cozzano infondendo le loro volontà e verità alle azioni dell'ecclesiastico. Nascono tanti piccoli oggetti (il manovratore invisibile alle sue spalle è il regista Dany Lefrancois, un lavoro millimetrico e precisissimo il suo), quasi una creazione del mondo in sette giorni. L'alchimista è Dio che gioca sia con gli uomini che a dadi, sul suo tavolo da esperimenti e prove: ecco gli alberi, ecco una coppia, presumibilmente una sorta di Adamo ed Eva, e poi ancora alambicchi e bilancini, centrifughe e spume, ricette e ingredienti segreti e fatati e fatali, incantati e prodigiosi. Sulla sua testa spuntano missili e lampi di guerra fino ad una croce e ad un inquietante umanoide: la storia, complessa e articolata, di Dio e dell'uomo in mezz'ora, vitale ed esplosiva, colma di effetti artigianali e pirotecnici: magico.

Tommaso Chimenti 07/10/2019

Venerdì, 27 Settembre 2019 09:15

Humana Vergogna irrompe a Skopje al MOT Festival

SKOPJE – Contraddizioni e Balcani. Separazioni. Chiusure. Skopje si trova nel mezzo al quadrilatero formato da Pristina, in Kosovo, Sofia, in Bulgaria, Salonicco, in Grecia, Tirana, in Albania. Dove ti volti sono frontiere, confini, passaporti e visti e timbri. Siamo in Macedonia del Nord. La bandiera è un sole giallo su sfondo rosso, un Sol dell'Avvenire che ricorda quella giapponese. Il terremoto del '63 aveva raso al suolo la vecchia Skopje e la ricostruzione (costata 600 milioni di euro) ha creato una creatura ibrida e multiforme per appassionati architetti o per fotografi dai tanti spunti. Un accatastamento, un affastellamento, una somma continua di misure e strutture. Se appena usciti dal centro i marciapiedi sono divelti, le case distrutte ed occupate, famiglie dormono sotto i ponti, molti cercano cibo dentro ai cassonetti e ci sono cani randagi in quantità industriale, il centro è una scintillante Las Vegas dove edifici in onore a Madre Teresa di Calcutta (c'è anche la sua casa) si spintonano con gigantesche colonne neoclassiche e templi, banche dalle vetrate riflettenti e statue comuniste con figli che partono alla guerra e bandiere che sventolano, casinò per turisti e l'Old Stone Bridge, anch'esso ricostruito, della metà del '400. Costruzioni indiscriminate senza un preciso disegno complessivo. Nel fiume, basso e melmoso, pescano ancora ma quello che maggiormente salta agli occhi e che spunta grossolano e invadente sono i galeoni immensi, addirittura tre, che sembrano usciti dai Pirati dei Caraibi, dove al loro interno spumeggiano ristoranti vip e hotel top. A_Tri-sestri-3.jpgE poi fontane (dentro le quali non annegano nemmeno uno spicciolo: il benessere si vede anche da queste cose) e giochi d'acqua si inseguono con i marmi bianchi, i lampioni e il gusto per le statue ha un po' preso la mano: guerrieri, leoni, spade, cavalli in un incrocio kitsch e mastodontico del quale non se ne capisce bene il senso. Stucchi e santi mentre sotto vendono pannocchie, cantieri aperti e cumuli di macerie, teatri (qui convivono quello macedone, quello albanese e quello turco) e l'Opera con una predilezione per il cemento. Tutto è sovradimensionato rispetto alla popolazione. Addirittura si erge un Arco di Trionfo e la copia del toro di Wall Street. Eros Ramazzotti sarà qui in concerto il 30 settembre. Tanti turisti giapponesi, i tour operator stanno lavorando bene. Donne completamente velate in nero con la sola fessura degli occhi ad immaginare il mondo e auto truccate che sgommano sui viali, gli autobus cittadini a due piani rossi come quelli londinesi, i lucchetti attaccati sui ponti (simili a quelli di Lubiana) ricordano amori certamente già finiti. Se alzi lo sguardo da una parte una croce, che la notte si illumina, a proteggerci (quasi, senza voler essere blasfemi, un Cristo del Corcovado) mentre dall'altra ciminiere che sbuffano e sputano senza sosta. Appena si lascia il centro a misura di turista, ci accolgono giardini incolti e una generalizzata incuria, aria di disfacimento, di perdita, di caduta, di arrugginito, di lasciato a se stesso: Skopje “è 'na carta sporca e nisciuno se ne 'mporta e ognuno aspetta 'a ciorta”. I macedoni la definiscono “barocca” ma forse non conoscono bene il significato della parola. Cenci e cianfrusaglie, scartoffie e scatole, desolazione, aria di dismissione lontano dalle palme in stile Cannes piantate sul lungo fiume. E poi moschee e minareti e la grande fortezza fanno da spartiacque con la parte più colorata e viva della città, sicuramente più autentica: l'Old Bazaar, città dentro la città, fatto di stradine in pietra, di venditori di limonate e banchi dove vendono paprika e burek, pasta sfoglia con verdure e carne.

Ed eccoci al A_Tri-sestri-4.jpgMot Festival, alla sua quarantaquattresima edizione, oggi diretto da Ruse Arsov, che si svolge principalmente nel centro culturale MKC e che in queste quattro decadi ha ospitato da Grotowski a Barba, Ostermeier, Korsunovas e Jan Fabre. Altri festival macedoni sono quelli di Bitola, shakespeariano, Ohrid, Prilep ma ce ne sono una ventina sparsi. Lo stipendio medio di un attore sotto contratto con un teatro nazionale si aggira, al cambio, sui 400 euro. Il Mot (budget 100.000 euro) si inserisce in quella lista di grandi festival balcanici che va dal Mladi Levi di Lubiana passando per il Mess di Sarajevo, fino al Bitef di Belgrado. Una grande produzione l'anno, quest'anno dedicata allo sloveno Tomi Janezic, la maratona di 10 ore “No title yet”. C'è anche un attore italiano, per ora primo ed unico, ad essersi diplomato in queste zone: Luca Cortina. Per quanto riguarda i gruppi italiani, sono passati a queste latitudini, il Teatro dei Pupi di Palermo e i Koreja di Lecce, i Motus di Rimini ed Eugenio Allegri e in quest'ultima edizione (13-21 settembre) i ReteTeatro41 con la produzione “Humana Vergogna” che ha debuttato a Matera a marzo, ecco la recensione: https://www.recensito.net/teatro/humana-vergogna-matera-capitale-gribaudi.html

Altri due spettacoli hanno attirato le nostre attenzioni, un “Tre sorelle” (regista Vasil Hristov, Teatro Turco di Skopje) a dir poco catartico e pungente, acido e grezzo, che tra pianti disperati, dolorosi scontri e abbracci tragici ci ha straziato, aprendoci dentro. Una trasposizione contemporanea cechoviana che ha lasciato inalterate le universalità contenute nel sottotesto, la disgregazione familiare come l'attaccamento, il sangue e la colla del nucleo primigenio, la difficoltà di lasciare il nido come l'estrema complessità nel tornarvi, le divisioni, le differenze, le impossibili A_Moonlight-2.jpgconciliazioni, il tempo che passa e tutti ferisce, allontana. In turco con i sottotitoli in macedone ma è riuscito lo stesso a colpire con una strana carica emotiva poderosa che arrivava sottopelle tra i microfoni sul boccascena dove amplificare la portata delle proprie frustrazioni, questo Padre che sul suo trono, stanco e rassegnato, vede i suoi eredi lacerarsi, un batterista che pestava duro e scandiva i bassi di queste vite frantumate, il plexiglas obliquo che avvolgeva cassa e rullante e che rifletteva, sporcandone i contorni e rendendoli opacizzati, dei protagonisti sempre in scena tra le sedie sul fondale o l'essere protagonisti. Quasi un concerto con le musiche calde, da Bob Dylan a Nick Cave a creare una patina epica che ha sovrastato e permeato ogni gesto, corposo, pieno, decisivo, infinito. Molto urlato, molto sudato, molto sentito, molto. Eterno. Disarmante.

Inoltre il curioso “Moonlight” (compagnia Lokomotiva, Skopje) dove, all'interno del Kino, il vecchio cinema della città, ci accolgono i due danzatori-performer completamente nudi. I due ragazzi omaggiano Marina Abramovich schierandosi molto vicini costruendo una nuova porta, dopo l'ingresso, di carne umana, dovendo il pubblico scrusciarvisi contro per poter accedere alla sala. Ci regalano frutta e dolcetti in perfetto stile panem et circenses: mele, uva, banana, lecca lecca, tutto ha un richiamo vagamente erotico. E' una performance estremamente fisica dove aggiungono movimenti a movimenti in serie precise. Sembrano atleti delle Olimpiadi greche classiche (gareggiavano nudi) ballando senza toccarsi, adesso con le proprie ombre, ora come carillon. Sembrano pugili sudati alla fine di ogni round ed i loro gesti e saltelli concentrici e insistiti creano una trance sensoriale e un mantra che in loop regala misticismo. E, continuando sul filone atletico, sembra che diano di scherma o di boxe, che tirino con l'arco o che giochino a tennis. Senza esclusione di colpi né di corpi. Nella prima parte muovono A_Moonlight1.jpgle gambe, nella seconda invece i piedi sono fissi e immobili mentre nella terza, finalmente, la danza si fa a due divenendo un tango silenzioso e muto e, adesso senza musiche, si sentono soltanto il rumore delle assi che scricchiolano come dei due cuori in sussulto in questo liscio atono, in questo valzer sfiatato. Ipnotizzanti.

E' proprio vero che il luogo dove viene portato uno spettacolo, soprattutto per le performance interattive, è come un abito che cambia connotati a seconda del contesto. E' quello che (mi) è successo durante la visione di “Humana Vergogna”, creato da Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti per Matera Capitale della Cultura Europea (progetto coordinato Franco Ungaro) e adesso portata a Skopje dove aveva avuto tre settimane di gestazione nel dicembre scorso. Il rapporto con il pubblico è fondamentale nel cercare di analizzare, anche giocando, i retroscena del senso di colpa, i perché reconditi che cambiano a seconda del luogo nel quale siamo cresciuti. La colpa, e la conseguente vergogna, sono culturali e sono sedimentati nei dna dei popoli, stratificati in gesti, comportamenti dati per scontati. La platea, molto corposa, è risultata più fredda, più titubante e “impaurita”: si parlava di qualcosa che li poteva toccare da vicino, c'era da sporcarsi le mani, bisognava riflettere non sull'oggetto teatro ma era il teatro che parlava al loro vissuto, al loro interno, al loro essere profondo. Parlare, ad esempio, di “Nazione” nei Balcani sfugge sempre, è un concetto ora labile, adesso forte e saldo, impermeabile, che genera anche contrasti, mai sopiti, e chiusure. Cinque performer: una macedone, una giapponese, tre italiani, quattro donne e un uomo, in calzini, mutande e pellicce. Vergogna qui si scrive CPAM. Corpi non perfetti e la loro accettazione, ognuno con la propria corona che può essere di spine come da Re o Regina, ossimoro della loro sconfitta.foto25.jpg

Ogni spettatore ha ricevuto all'entrata un foglio bianco sul quale scrivere la propria più intima vergogna: alla fine, come riscatto catartico e liberazione, verranno lanciati come biglie scagliate, ognuno contro il proprio passato, sul palco. Sono raccolte e impilate: si spera in una pubblicazione. In territori martoriati come quelli balcanici ogni senso è amplificato. “Posso piangere?” ci chiedono, e qui ne hanno avuti motivi per farlo e forse, proprio per questo, adesso è più complicato farlo oppure mostrarlo quel dolore sotterraneo e soffuso. La ricerca di consensi e false amicizie passa inevitabilmente anche dai social network: ci sentiamo più amati e desiderati a seconda se i like, i pollicioni verso l'alto sono in grande quantità. Ma questa è una droga che non ha né dà soddisfazione; ogni volta servono più like, e la posta si alza sull'inventiva e sull'estremo a cui tendere, per sopperire e colmare vuoti reali d'affetto, di vicinanza, di sensibilità. Chi siamo ormai passa soprattutto, purtroppo, da come gli altri ci vedono, ci sentono, ci percepiscono. La parte del “Touch me” mette in contatto la platea con i propri vicini ed anche questo piccolo gesto eucaristico da rito cristiano diventa motivo scardinante delle loro piccole fortezze. “My memory” è sempre lo step che più tocca nel profondo, che riesce come un amo sul fondo a grattare via il fango, a farci sentire tutti un po' meno sbagliati, errati e imperfetti ma non per questo punibili. Le autobiografie dei performer (non è importante né ci è dato sapere se realmente sono le loro, ma non è assolutamente vincolante e fondamentale, il teatro è il terreno della finzione e del verosimile) aprono spazi di rappresentatività, di interconnessione profonda, tutti Humanavergogna_fascia.jpgci siamo sentiti un pezzetto di quello che ci stavano raccontando. In quel momento è come se fosse scesa quella carezza che non ti hanno dato, la pacca sulla spalla mancante al momento opportuno, quell'abbraccio che ancora è pressante nella sua assenza che fa vuoto, che dà gelo e fa sentire maledettamente soli. Chi ballava e ce la metteva tutta e la madre invece le trovava tutti i difetti possibili, la prima volta che abbiamo fatto sesso e le cose non sono andate come nei film romantici, chi non aveva abbastanza soldi, chi ha baciato una persona del suo stesso sesso e si è sentita giudicata ed è stata bollata con un “mi fai schifo”. Ed è al grido di battaglia, prima sommesso e che poi cresce, di “questa non è la mia storia, questa è la tua storia”, che il ghiaccio pare sciogliersi. E' la chiamata alle armi dello Zio Sam che parla proprio a te, alla tua piccola esistenza. Uno spettacolo con una patina di leggerezza colorata che porta con sé la rottura di schemi e barriere, un articolato pensiero su chi siamo, e soprattutto su chi non vogliamo più essere. Più che uno spettacolo un esame compresso di sociologia e antropologia, un breve decalogo esposto da questi corpi che esprimono erotismo, una grande carica fisica, animalesca, primitiva, eccitante. Corpi che danno la forza di accettare il proprio, di sentirsi in pace con l'intorno, corpi che ci dicono che non sono gli altri il metro di giudizio della nostra felicità. Via le paure, viva la bellezza dell'empatia.

Tommaso Chimenti

VERONA – C'è chi sta sette anni in Tibet e chi due giorni in Veneto. Verona e Venezia, stessa iniziale, stesa regione. Se la città degli innamorati è ancora legata, troppo, a Romeo e Giulietta e all'Arena, la città sull'acqua per eccellenza fa rima con la Biennale e Goldoni. In Veneto è molto apprezzato un certo tipo di teatro dialettale ed amatoriale al netto di compagnie (Babilonia, Ippogrifo, Teatro Scientifico) di nuova drammaturgia che negli anni hanno tentato di creare un altro tipo di discorso attorno al teatro. Proprio lo Scientifico, che quest'anno ha spento le cinquanta candeline, si inserisce in un terreno di qualità, innovazione e teatro d'attore solido che deve “combattere” contro l'insormontabile Teatro nel Chiostro di Santa Eufemia, il Chiostro Santa Maria in Organo e l'Arsenale dove, tra giugno e settembre, le repliche totali sono oltre 200: un sovraffollamento tra leggerezza, risate, frivolezze brillanti. La loro novità “Il serpente”, da Luigi Malerba, infilato nell'Estate Teatrale Veronese e spostata 20150412-Teatro-Laboratorio-Verona-Isabella-Giovanna-Luca-Caserta-dismappa-.jpgda luglio all'aperto a settembre al chiuso (non favorevoli i giorni di riapertura delle scuole e il debutto infrasettimanale) è la prima trasposizione teatrale del romanzo degli anni '60: ne esce fuori un piccolo gioiellino tra note attoriali (Francesco Laruffa tiene saldo le redini, Isabella Caserta emana lampi di luce), video in bianco e nero proiettati sul velatino (sempre bellissimo e funzionale il Teatro Camploy) di quell'epoca di grandi trasformazioni e cambiamenti (le 600, una anche in scena, le lambrette), la musica degli anni '60 che riempie il cuore, scioglie la nostalgia, ci culla in quella patina di sospensione.

Tutto è giocato sul filo del vero e del falso. Il nostro antieroe, ha tratti dello scrivano Bartleby di Melville, è un uomo medio, grigio, avvilito, soprattutto solo pur non volendo esserlo. Si trova nella condizione di una solitudine amara e permanente e quindi, da commerciante di francobolli stantii, è costretto ad immaginarsi, inventarsi di sana pianta, una vita alternativa. Oggi la chiameremmo second life, con incontri, avventure, non tutte positive, ma piene di sale e pepe, di quella verve esperienziale che la sua indolenza e apatia, frutto più della paura di perdere che dal rischio di vivere, non gli ha fatto provare, privandolo delle gioie della vita. Ci racconta, quasi in una confessione aperta, lo scopriremo alla fine, in una sorta di interrogatorio, ma felice finalmente per la prima volta forse, di essere ascoltato, di avere un suo uditorio a disposizione al quale mostrarsi, tirando fuori la sua vera anima che mai si è Il-serpente-6241-2.jpgallineata con l'immagine sociale che si era ritagliato: rigattiere, topo da biblioteca. Un uomo compresso in ciò che è diventato per abitudine e svogliatezza, che non preso in mano la propria vita e adesso si trova ad immaginarsene una piena di eventi e accadimenti. Ma mentre ci racconta del corso di canto, della moglie, dell'amante, delle gite in spiaggia, noi non sappiamo che sta cercando un'esistenza migliore della sua. Più racconti le bugie e più diventano vere. Ogni affermazione viene scardinata nella fase successiva, screditandola, negandola. Cosa è vero e che cosa è falso? Tutto si confonde nel pantano fangoso dove è difficile, se non impossibile, riconoscere chiaramente i contorni del reale e quelli della fantasia.

Un uomo pieno di contraddizioni (un bellissimo personaggio dai tanti spigoli e dalle infinite ombre, una scrittura a tratti gaddiana), silenzioso collezionista abituato alle scartoffie da impilare e archiviare più che ai rapporti interpersonali, che ha desiderio e ambizione di cantare ma lo vuole fare “interiormente” senza emettere un suono, mentalmente, geloso retroattivamente della sua amante (la Caserta ci ha ricordato Monica Vitti), fino a perderla, che è quello che gli riesce meglio: risultare sconfitto, farsi schiacciare dalla vita, lui che chiacchiera in maniera logorroica ma al quale, parole sue, non piace parlare con gli altri. E' titubante e ossessivo, ossessionato e ossessionante, ha incubi e allucinazioni. Vende il-serpente.jpgfrancobolli ma li odia, tradisce la moglie ma accusa l'amante di tradirlo, ha un amico che però gli è antipatico. Si inventa un'altra realtà fino a sconfessarla, a distruggerla, a cancellarla con un colpo di spugna pezzo dopo pezzo fino alla scissione tra il protagonista, che perde i contorni della figura realistica e che torna ad essere letteraria, e lo scrittore che manipola e distrugge, con la forza dell'immaginazione e della pagina bianca da riempire, la sua creatura riportandola alla sua condizione bidimensionale, rimettendola in naftalina, costringendola in quella bolla di sapone, la carta e l'inchiostro, dove tutto è possibile proprio perché pensato, il che non significa che sia irreale o non plausibile. Un mitomane come forse lo sono tutti gli scrittori che descrivono mondi, delineano personaggi, raccontano sogni. Un volume da rileggere, teatro da respirare.

La Venezia arlecchino-anello-sito.jpgmalata di goldonite invece piazza un piccolo e onesto adattamento goldoniano di Marco Zoppello (attore e regista degli Stivalaccio Teatro) per un grande progetto che prevede, tra Padova e la città di San Marco, una settantina di repliche suddivise tra “Il figlio di Arlecchino perduto e ritrovato” e “Arlecchino e l'anello magico” (che seguiremo ad ottobre), operazione in equilibrio tra turismo (l'orario delle 19 e i sovratitoli sia in inglese che in francese, ottima trovata), prosecco (aperitivo finale), e la magia di assistere ad uno spettacolo sul palcoscenico. Luci sul pubblico (settanta persone a replica la capienza sulle tribunette montate sul palco) e grande interattività, attori pronti a dialogare e a sentire la platea, i suoi umori, dove spingere, quando puntare, quando accelerare. Ne viene fuori, tra continui colpi di scena e scambi di persona (di bambino in questo caso) un divertimento per tutte le età, con segreti che vengono a galla e gelosie. C'è la francese e la siciliana a vivacizzare. Nello stesso momento nel quale Arlecchino e la sua Camilla mettono al mondo un pargolo, Maddalena (con le attrici che a turno a lato del palcoscenico emettono gridolini, gemiti, pianti e mugugni infantili), anche la figlia di Pantalone, Rosaura, ha avuto un figlio, Checchina, ma, non essendo sposata con Florindo, non può confessarlo al padre-padrone rigido ma ingenuo.

Su tutti Pantalone, Emanuele Cerra degli Evoè Teatro di Rovereto, la serva intelligente e furba Marionette, Emilia Piz (giocoso l'escamotage di storpiarle sempre il nome; diventa infatti: sauvignon, merlot, fois gras, vinaigrette, baguette, baionette fino a cabernet, cordon bleu e ratatouille) che danno spumeggianti toni e briose sfumature. Ma tutta la compagnia è ben collaudata in un ritmo incessante di brillantezza e colore. Potremmo dire una commedia dell'arte fresca e frizzante che, seppur con le tinte leggere proprie, non disdegna, di sottofondo, una neanche così velata critica all'uomo, al maschio, dipinto e disegnato come incapace di ascolto, furioso e talmente geloso da sfiorare la tragedia appiccando un incendio casalingo morso dalla rabbia (in anni di femminicidio e di sensibilità sul tema), mentre dall'altra parte le donne hanno una marcia in più, sono più sveglie, più pronte non certo all'inganno quanto alla risoluzione pacifica dei conflitti e delle incomprensioni con garbo, gentilezza e delicatezza (non è un caso se i due neonati siano due bambine: il futuro è femmina).figlio-ve-fg9.jpg

Vedere lo scintillio del Teatro Goldoni (mentre viene recitato Goldoni) da questa angolazione, con le luci di sala a rischiarare tenui come fosse un'alba violacea, è un privilegio, Arlecchino (Stefano Rota, anche formatore) è una maschera universale, esplosiva e stupida, goffa e geniale, istrionica e terrena che rivedersi in lui è naturale e catartico. Una buona operazione che miscela territorio e saperi teatrali, vivacità (tanti giovani attori) e vitalità imprenditoriale con l'artigianato scenico: esperimento curioso e soprattutto riuscito anche per i costumi (di Lauretta Salvagnin) che esaltano musica e parole, dando luce al tutto.

Tommaso Chimenti

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