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CHIANCIANO – “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale” (Bertolt Brecht).

La compagnia LST in questi venti anni ha spacciato la sua droga culturale, ha immesso il suo sguardo stupefacente su Toscana e dintorni. Il suo regista, e anima, Manfredi Rutelli, ha collaborato in questi anni con le sue regie al Festival Orizzonti di Chiusi, alla creazione del festival FermentinFesta dedicato alla formazione attoriale e alla direzione del Teatro degli Astrusi entrambi a Montalcino, alle ultime rappresentazioni del Teatro Povero a Monticchiello, e nella direzione del Teatro Caos di Chianciano. E quest'estate si è allargherà fino a San Miniato dove, con Simone Cristicchi in scena, daranno vita al “Paradiso” al Dramma eRnzg3CQ.jpegPopolare. LST dicevamo, Laboratorio Stabile Teatro, è una compagnia teatrale, di quelle che, con sforzo e caparbietà, battono la provincia, i piccoli teatri, quell'off che è linfa. E' la provincia che fa l'Italia, è la provincia che ha più bisogno di idee, di freschezza, di ventate di nuovo, sono i teatrini sperduti che formano questo tessuto, questa ragnatela di rapporti, i cosiddetti “presidi culturali” portati avanti con testardaggine e cocciutaggine da questi gruppi che sfornano attori convincenti, testi contemporanei e portano un po' di luce dove altrimenti arriverebbero soltanto le urla della televisione.

Sempre a cura dell'LST, nei mesi scorsi avevamo assistito a “La Stazione” di Umberto Marino, stavolta hanno messo in scena “Il dio del massacro” di Yasmina Reza, testo portato in tournée nei grandi teatri qualche stagione fa, nella versione con quattro nostrani assi attoriali: Alessio Boni, Anna Bonaiuto, Michela Cescon, Silvio Orlando. Roman Polanski ne aveva tratto il suo affresco cinematografico, spostando la vicenda dalla Francia agli USA, dal titolo “Carnage” con calibri come Jodie Foster e Kate Winslet. Insomma, ce n'erano di punti di riferimento da eludere, di trappole da evitare, di copie da cercare di scongiurare.

Il parco attori a disposizione di Rutelli ha feeling, tempi, buon ritmo e soprattutto amalgama e complicità che, in testi come questo, sono essenziali e in ogni dinamica e scontro si percepisce la velocità d'esecuzione, la cadenza, la cura, le giuste sospensioni, le attese, gli slanci, soprattutto jJJr2uTA.jpegle battute con intenzione; è tutta questa polvere di stelle, tutto questo ammasso invisibile di cose che stazionano shakespearianamente tra cielo e terra che sul palco si animano e danno impulso alla vita in scena che si alimenta dei suoi protagonisti che, come detto, non deludono anzi sono frizzanti, in parte, mai sopra le righe, mai esondanti, sempre nel rispetto del testo e mai cercando di prevaricare il compagno per il fine ultimo dell'ego personale.

Nella conversazione ci si astenga da osservazioni intese a correggere: poiché offendere la gente è facile, migliorarla difficile, se non impossibile” (Arthur Schopenhauer). “Il dio del massacro” (visto in una prova per pochi intimi al Caos) in questione è tutto un gioco sottile di incastri, di cambi repentini d'umore, di scivolamenti, e scivolate a piedi uniti, in bassezze come di grandi discorsi filosofici ad avallare ora l'una ora l'altra tesi; quindi i tempi sono tutto, diventano vitali ed energetici, danno corpo e sostanza alla parola. Teatro appunto di parola questo che vede due coppie di genitori affrontarsi, in un interno borghese, dapprima civilmente, dopo che il figlio di una coppia, identifichiamola come “manageriale”, ha picchiato il figlio della coppia chiamiamola “di sinistra”. Escono fuori rapidamente, dopo situazioni di stallo e finta educazione posticcia messa sul piatto della civile convivenza e parvenza, tutte le differenze di visione del mondo, di status, difendendo ognuno il proprio figlio e quindi, di riflesso, se stessi e le proprie scelte e convinzioni. I figli sono un pretesto, un paravento dietro ai quali nascondersi, quando fa comodo, o esaltarli quando conviene al cognome e al casato.

Tanti cubi smontabili, componibili, spostabili e sovrapponibili (le nostre aree di comfort zone a compartimenti stagni che, per opportunità, possono essere divisi, segmentati o uniti a seconda delle situazioni nelle quali ci troviamo a doverci destreggiare) al cui interno oggetti entrano ed escono, vengono parcheggiati o immessi nella scena come conigli usciti dal cilindro. Cubi bianchi mentre tutti gli altri oggetti che ruotano attorno a questa commedia dark-noir (che parla a tutti noi perché demolisce la nostra società e il politicamente corretto che tanto va di moda rendendoci piatti e scialbi) sono rossi, di un rosso acceso, rosso peccato, rosso sangue, rosso scontro, rosso violento: il telefono, il catino, i tovaglioli, il phon, i fiori, i libri, i piatti, i bicchieri, le ciotole, il cardigan, il lampadario, le unghie, il liquore che stanno bevendo. E' un contrasto cromatico che ci accompagna dall'inizio alla fine mentre sale la tensione, mentre i decibel schizzano, mentre l'atmosfera si surriscalda e diviene bollente e urticante.

Enrica Zampetti (energica, soprattutto nel finale) e Alessandro Waldergan sono la coppia più agiata, soprattutto il secondo (fisicamente, e per timidezza e garbo e gentilezza e postura, ci ha ricordato lo scrittore Fabio Genovesi), che abbiamo apprezzato in svariate versioni, è sempre lucido, pungente, centrato nei cambi di registro, ha tatto e precisione nelle battute come è ficcante nelle punzecchiNgY4pkTA.jpegature mantenendo concentrazione senza perdere mai di vista il fine ultimo del teatro: il racconto, il passaggio, la storia, il personaggio come ingranaggio. Mihaela Stoica (molto attiva e presente, dà il cambio di passo ai vari momenti, è il la, la spinta, l'incipit della valanga) e Gianni Poliziani (tiene il polso della situazione, è il metronomo, dirige dall'interno le operazioni) sono invece la coppia più riflessiva che però mostrerà, messi in discussione e sotto pressione, il loro lato oscuro e isterico. Un gong, come sul ring, chiude le scene e apre immediatamente al cambio di climax: le coppie si confrontano e adesso sono schierate l'una contro l'altra ma i ruoli si invertono e gli aggressori diventano aggrediti, i boia declinano nelle vittime, i carnefici ribaltati nei sacrificati, oppure la solidarietà maschile cementa gli uomini come quella femminile unisce le due signore contro le idee dei due coniugi, le alleanze si consolidano così come le coalizioni si sfasciano. I piani si ribaltano velocemente e le fazioni si creano come precipitosamente si sfaldano, basta una parola o un silenzio per far scattare qualcuno o allontanare un, fino a quel momento, sodale. Le frivolezze e le buone maniere lasciano il posto alle accuse e un salotto compunto diviene terreno di scontro e battaglia, agorà dove far rispettare le proprie usanze, dove gli altri non sono solo avversari ma anche nemici, dove mors tua vita mea diventa motto da urlare sul campo di Marte.

Anche chi è largo di vedute e progressista presto scende dal piedistallo delle sovrastrutture dell'educazione e delle buone maniere per atterrare volentieri sul terreno scivoloso della violenza, della minaccia, della forza. Si vogliono dare lezioni a vicenda, i toni si alzano e l'inciviltà prende il posto della compostezza. Gli uni sottolineano agli altri le mancanze dei loro figli e quindi della loro famiglia che viene continuamente messa in discussione. r3cFdy2w.jpegI “pacifici”, sulla carta, diventano così provocatori, gli “aggressivi” rintuzzano e colpiscono in contropiede, si puniscono miscelando finta moderazione e calma apparente con crisi nervose e attacchi impulsivi all'arma bianca, insinuazioni e scuse, prediche e offese, colpe e sfide in un'altalena di sensazioni e sentimenti che chiedono alla platea, continuamente, di posizionarsi e schierarsi adesso con l'una ora con l'altra coppia. Un testo che ti tira per la giacca, ti smuove e ti scuote perché parla del nostro Occidente imploso, del nostro voler regolamentare anche la violenza dentro “canoni accettabili”, di voler legiferare ogni aspetto della vita rendendola noiosa, paludata, fangosa e soprattutto falsa e pesante. Diventano cinici, cattivi, corrosivi: in definitiva sono/siamo criceti dentro la nostra ruota a correre a perdifiato per non pensare, intenti a non renderci conto, dolo(ro)samente, la reale forma della nostra condizione, animali all'ingrasso che devono bruciare energie e aggressività altrimenti si estinguerebbero.

Il fatto che l’uomo sappia distinguere il giusto dallo sbagliato prova la sua superiorità intellettuale sulle altre creature; ma il fatto che egli possa agire in modo sbagliato prova la sua inferiorità morale rispetto a qualsiasi creatura che non può farlo” (Mark Twain).

Tommaso Chimenti 17/04/2021 

GENOVA – Avete mai provato ad iscrivervi a quei siti che propongono di trovarvi velocemente un lavoro? Ecco, non sono altro che contenitori per raggranellare indirizzi mail di persone che effettivamente stanno, disperatamente, cercando un'occupazione e che verranno, da allora in poi, subissate di mail di corsi di formazione (a pagamento, ovviamente), di master, di diplomi online utilissimi per riuscire finalmente a trovare l'impiego giusto per te. La sensazione è quella del parcheggio, del limbo, della sala d'attesa mentre l'obbiettivo si sposta sempre più fino a smaterializzarsi, a diventare nebuloso e, dopo alcuni anni, chiedersi che cosa stavo cercando e, non trovando risposta, smettere di cercarlo. In Italia il tasso di disoccupazione è quasi al 10%, mentre quello giovanile (15-24 anni) sfiora il 30%. E questi dati nel Sud Italia aumentano vertiginosamente. Un Paese basato sui bar e sulle pizzerie altro che cultura, sul lavoro nero altro che la dieta mediterranea e il Patrimonio Unesco.Il mercato della carne 12_ph Federico Pitto.jpg

Diminuiscono sempre più le persone che cercano un lavoro, rassegnandosi, e andando ad ingolfare la categoria degli “inattivi” ovvero chi non studia, non lavora e nemmeno cerca più un lavoro. Mettiamoci la crisi degli anni 2000, il Job Act, il Covid e il fatto che le aziende vogliono soltanto stagisti inesperti da formare, con sgravi fiscali annessi, e che una volta formati vengono “liberati” sul mercato e rimpiazzati con nuovi ragazzi a stipendio da apprendista. Siamo in troppi e troppo scolarizzati. Anche l'università è diventata un grande parcheggio dove sostare dopo le superiori per altri cinque anni minimo in attesa che qualcosa si sblocchi e alla fine di quel corso-periodo di studio ti accorgi che da una parte sei più consapevole e quindi, dall'altra, ancora più infelice. Anche perché ti stai affacciando sul mercato del lavoro ad un'età compresa tra i 25 e i 30: il mutuo non te lo darà nessuno, la pensione scordatela, vivi ancora con i tuoi perché un affitto è difficile da pagare soprattutto in una grande città. E intanto su Instagram vedi soltanto fotografie di aerei privati, piscine e luoghi da sogno che non potrai mai raggiungere. E' il post capitalismo, bellezza.

E' di Il mercato della carne 21_ph Federico Pitto.jpgquesta grande bolla-farsa generazionale che parla l'autore Bruno Fornasari (codirettore insieme a Tommaso Amadio del Teatro dei Filodrammatici milanese) nel suo testo “Il mercato della carne” dove i ragazzi, le persone non sono nemmeno numeri ma oggetti da spostare, sostituire, neanche vendere ma illudere giorno dopo giorno di un nuovo step da inseguire, di un nuovo piccolo traguardo da conseguire per essere più appetibili nei confronti del famigerato mondo del lavoro che chiede esperienza senza averti mai messo nelle condizioni di poterla fare, che chiede che tu sappia le lingue straniere, meglio se cinese o russo o arabo, che ti chiede di essere sempre al top quando mancano le basi, l'abc della sopravvivenza. Non si parla di felicità ma proprio di sussistenza. E questa drammaturgia, messa in scena qualche anno fa all'interno del laboratorio di recitazione Oltrarno del Teatro della Pergola, scuola di formazione del mestiere dell'attore diretta da Pierfrancesco Favino, dove Fornasari era docente, e stavolta portata sul palcoscenico dal Teatro Nazionale di Genova con gli allievi appena diplomati, crea un immaginario purgatoriale dove l'attesa snervante sposta di ora in ora, di giorno in giorno, di mese in mese non tanto l'impiego agognato ma quanto la possibilità, preceduta da test complicatissimi, di poter accedere quanto meno ad un misero e basilare colloquio. Quindi si lotta e si fatica, ci si scervella e ci si contorce non per il successo, non per il goal ma per avere soltanto la possibilità di poter essere ascoltati e messi alla prova.Il mercato della carne 49_ph Federico Pitto.jpg

Questo “Mercato della carne”, nel contingente reale, racconta anche di molto altro: i ragazzi in scena si sono diplomati lo scorso febbraio e pensavano di entrare nel mondo del lavoro attoriale dalla porta principale, invece il Covid ha annullato prima le repliche già fissate per maggio '20 e saltate per il primo lockdown al quale è seguita un'apertura dei teatri e dunque procrastinate a novembre ma a quel punto era intervenuta la seconda quarantena a zone colorate e infine nuovamente cancellate. A metà aprile, in una prova aperta a pochissimi operatori, è andato finalmente in scena, quasi un parto, un respiro, un cerchio che si chiude, una boccata d'ossigeno, la degna conclusione di un percorso triennale che senza questo approdo sarebbe rimasto zoppo, infelice, monco. Questo spettacolo è un segno di rinascita, di ritorno, di speranza, di domani. E proprio in questi giorni la scuola del TN di Genova festeggia il ritorno degli allievi in presenza. Stop allo streaming, stop alla dad, l'attore si fa guardandosi, toccandosi, sudore e carne.

La carne di questo distopico (neanche poi tanto) scritto che confeziona una decina di figure lontanissime (che compongono tutto lo spettro dei caratteri) tra di loro in uno spazio claustrofobico carico di tensione, aspettative, illusioni e conseguenti forti e acre disillusioni. Come se facessi una maratona e alla fine ti aggiungessero sempre nuovi chilometri, il miraggio della ricompensa che sfiorisce, tu che sei sempre più stanco, più depresso, meno motivato, svuotato e senza forze mentre il Mercato ti chiede sempre di stare sull'attenti, sempre pronto perché eventualmente, forse, non si sa mai che la ruota giri. E, nella penuria dei posti di lavoro, vincono le raccomandazioni (e anche l'alibi delle raccomandazioni altrui), le conoscenze, le amicizie, le promesse, i cognomi. Che tutti gli altri si scozzino in questa agorà senza dignità, tutti a cercare un posto al Sole quando tutti i lettini da abbronzatura sono stati occupati e per te non c'è più posto se non nella fredda ombra.

La regia di Simone Toni, al quale è stato appena conferito il “Premio Ivo Chiesa” proprio da parte del Teatro Nazionale di Genova (e attore per Ronconi, Castellucci e Lavia) costringe questi ragazzi in una sorta di scantinato dalle pareti a scomparsa, quasi boudoir, o separè da casa giapponese, che chiudono, limitano, soffocano. In alto campeggia la scritta “La città dei mestieri” che sembra uno di quei tanti slogan ministeriali che sono efficaci soltanto a parole ma che nei fatti si sbriciolano davanti alla dura realtà, al muro solido della mancanza di prospettive. Pare di essere dentro Pinocchio con i giovani, che non cercano neanche più il Paese dei Balocchi disfatti da alcool e droghe, che sostano, che aspettano il loro momento, il loro treno che mai passerà. Sembra di vedere quasi le folle oceaniche di migliaia di persone che si accalcano per avere una chance in un Reality pur avendo la netta sensazione di non essere all'altezza, di non sapere quale profilo stanno cercando, di parteciparvi per mancanza di alternative.

La crisi è permanente e qui in scena la puoi palpare con mano, nelle parole, nei discorsi, negli atteggiamenti, nelle posture, tutto non ha più ormai alcun senso, la vita, la morte, il sesso, il domani, la scala valoriale ha smesso di avere una logica. Ma tra il Mercato della Carne, i ragazzi cestinati nello sgabuzzino, e il lavoro ci sono sempre intermediari senza scrupoli che se ne approfittano, che si ingozzano e s'ingrassano sul desiderio di molti di uscire da quella condizione. E il gioco, al massacro, è tutto tra questi dieci nuovi schiavi e il caporale con marcato accento del Sud, tra i dieci laureati e un ignorante, maleducato, rozzo, grezzo che dispone dei loro destini facendosi pagare per dare loro la falsa illusione di un probabile, futuribile colloquio con i cinesi, i nuovi padroni. Incontro che, come accade con i miraggi, mai si potrà toccare con mano ma che sempre si sposterà un po' più in avanti, come oasi nel deserto.

C'è Il mercato della carne 60_ph Federico Pitto.jpgquella che guarda sempre il telefonino, chi dormicchia ubriaco ma quando si sveglia ragiona di genocidi e politiche economiche complesse, chi ascolta conferenze sul clima, chi è timido e introverso come Woody Allen, chi estroso e dinamico come Damiano il cantante dei Maneskin (Michele De Paola tiene botta), chi è depressa e, forse per questo, si è rifatta il seno, l'attore innamorato del “Gabbiano” cechoviano, l'uomo che esce dalla spazzatura saggio angelico con il suo palloncino come uno Smile inebetito e fuori luogo, il kapò appunto e la sua geisha. Sono rabbiosi ma anche senza forze. Potrebbero essere clandestini ad un qualsiasi confine in attesa del lasciapassare che oggi non arriverà e neanche domani e forse, vedremo un giorno, e intanto invecchi, appassisci e forse, in un futuro prossimo ti daranno quel foglio non saprai più che neanche fartene, non avrà più senso, non avrai più energie per andare dove volevi andare quando era importante arrivarci. Anche mantenere la lucidità emotiva e psichica è complicato. L'infelicità si cura con lo xanax, rimane l'assuefazione a quel nulla pallido e smorto. Non si arriva mai, siamo sempre in apnea.

“No future” urlavano i Sex Pistols ma a differenza degli anni '70, quando curavano il male con la protesta e i buchi nelle braccia, adesso con un telefonino, gli aperitivi e una parabola ci hanno silenziato. Per essere scelti i ragazzi devono avere in dote dinamismo, ottimismo e intraprendenza ma il Mondo ha succhiato ai candidati queste qualità perché quel Mondo si nutre di quella determinazione, di quella costanza e di quella voglia di arrivare e la spolpa fino all'ultima goccia prima di passare alla nuova informata di giovani da sgonfiare. I tentativi di suicidio sono all'ordine del giorno. Un testo acido, critico che non ci fa vedere la luce, anche se alla fine vengono aperti i grandi finestroni laterali e le porte a far circolare aria, ossigeno e chiarore, lucentezza, luminosità e splendore. Dopotutto il teatro è il luogo dove l'impossibile diventa possibile, dove il non credibile diventa incredibilmente plausibile. Dopotutto, come diceva il grande Eduardo, “il teatro non è altro che il disperato sforzo dell'uomo di dare un senso alla vita”.

Tommaso Chimenti 17/04/2021

Ph: Federico Pitto

PISA – “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare” (Pastore Martin Niemoller).

La batteria in primo piano, come terzo protagonista a tutti gli effetti accanto alle due sedie da scuola elementare, ci ha fatto sobbalzare alla mente quelle operette rock, quel teatro punk proprio dell'Europa del Nord, quella mixture caratteristica di 2568_big_La nostra maestra è un troll 2.jpgcerte performance che sfociano nel punk dove non riesci più a distinguere monologo e concerto. E infatti Sandro Mabellini, regista che si cimenta sia nel teatro di prosa che in quello per ragazzi (dicotomia tutta italiana, all'estero la linea di demarcazione non è netta), è di stanza da molti anni a Bruxelles e in Belgio, tra Jan Fabre, Jan Lauwers e Milo Rau, i motivi di visione e gli accessi al contemporaneo esondano e pullulano e le possibilità di abbeverarsi e alimentarsi a nuove forme sceniche è pressoché quotidiano. Il mash up di arti che si fondono e si inseguono sul palco è cosa consolidata, non crea scalpore né stupore. Alle nostre latitudini una batteria in scena diventa già “Wow”. Forse, andando indietro con la memoria, sovviene a riguardo quel “Roccu u stortu” per la regia di Fulvio Cauteruccio con la compagine musicale de Il Parto delle Nuvole Pesanti che dal vivo argomentava, grattava, solcava, cospargeva le scene di note piene e mai sazie.

Detto della batteria rossa e delle due sedie (non può non arrivare in superficie la recente polemica sui banchi monoposto con rotelle comprati dalla ditta Arcuri-Azzolina-Conte per 700 milioni di euro e inutilizzati), sul fondale campeggia il titolo dello spettacolo, “La nostra maestra è un troll”, segno che Mabellini aveva già utilizzato con il precedente “Trainspotting”. Il regista, appassionato di letteratura e drammaturgia d'Oltre Manica, ha preso il testo di Dennis Kelly, per intenderci l'autore delle serie tv “Utopia” e “The third day” e del musical “Matilda”, foriero di spunti e riflessioni sul potere, sulla ribellione, sulla nascita dei regimi, sul bullismo, e ne ha tratto una storia frontale piena di simbolismi, leggera per animi 2570_big_La nostra maestra è un troll 14.jpgcandidi fanciulleschi e, al contempo, scavando, instillatrice di interrogativi e aperture. Visto in presenza durante una diretta on line per le scuole al Cinema Teatro Nuovo a Pisa diretto da Carlo Scorrano, la favola noir splatter “La nostra maestra è un troll” (prod. Fontemaggiore Accademia Perduta/Romagna Teatri) vede la presenza di Edoardo Chiabolotti nella sua dolcezza e la svagatezza stralunata, tra Stanlio e Chaplin, di Liliana Benini (attrice anche per il Maestro Marthaler) nei ruoli dei due gemelli Teo e Alice. Ci piace pensare al fratello di Van Gogh e alla bambina nel Paese delle Meraviglie.

In questa scuola viene nominata una nuova professoressa-preside che è appunto un Troll, un mostro bavoso e squamoso che comincia a mangiare bambini staccando loro la testa e smangiucchiandoli amabilmente. Mentre il Troll elenca nella sua lingua norme assurde e infinite burocrazie a danni dei bambini, i professori lì dietro sogghignano e sghignazzano contenti che finalmente sia arrivato qualcuno a ristabilire l'ordine costituito, qualcuno dal pugno duro, l'Uomo forte buono per tutte le stagioni. Vengono instaurate nuove regole d'oppressione, giustificate con il fatto che i bambini sono discoli e monelli, viene regolato il lavoro minorile ed ogni protesta viene chiusa nel sangue e nel conseguente silenzio-assenso. I docenti (dai nomi ridicoli come a volte lo sono gli adulti: il Signor Piatti e Creduloni, Trabiccoli e Spunzoni fino a Banali) annuiscono grati e fieri e sadici fin quando le regole senza senso del Troll non colpiscono anche loro, ma a quel punto è impossibile ribellarsi. Le dittature nascono così, si insinuano piano piano, in molti casi supportate e spinte dalla cosiddetta “brava gente”, dalla borghesia che vuole tornare a leggi chiare e fermezza. Ricorda il crescendo del nazismo sostenuto dai benpensanti che si turavano occhi e naso.2571_big_La nostra maestra è un troll 15.jpg

Ma c'è, veemente, anche una forte critica sociale; i bambini che vessati si rivolgono alle autorità per vedere rispettati e garantiti i loro diritti chiedendo aiuto prima alla famiglia, che non crede a quello che sente, poi al dirigente scolastico, che minimizza, successivamente alla Polizia che ha di meglio da fare come organizzare il ballo annuale dell'Arma e che si nasconde dietro la frase “I troll non esistono” (sostituite troll con mafia), infine, come extrema ratio, arrivando pure al Presidente della Repubblica che li usa per le foto di rito e li liquida in politichese. Le istituzioni che non aiutano i cittadini né tanto meno le categorie più fragili. Non rimane che farsi giustizia da soli, scendere in piazza, protestare qui con grazia e delicatezza facendo comprendere al Troll le loro ragioni. Un mostro, e qui la piccola parentesi sul problema-fenomeno del bullismo a scuola, che si 2575_big_La nostra maestra è un troll51.jpgcomporta da brutto, sporco e cattivo proprio perché tutti lo vedono come tale non facendo altro che rispettare la profezia che si autoavvera. L'inclusione del diverso porta sempre benefici. Importante il tappeto sonoro e le scelte musicali, tra la risata di John Cage, il pezzo al pianoforte di Aphex Twin, l'elettronica dei Daft Punk, fino ad Avro Part e la chiusa con “Billie Jean” di Michael Jackson da battimano e battipiede, tasto che potrebbe essere più spinto se il Troll, qui immaginifico e suggestione creata dalle parole di Chabolotti-Benini, che si scambiano anche i ruoli, fosse proprio il batterista che potrebbe parlare a colpi di grancassa e rullante, che potrebbe rockeggiare duro sui piatti, che si potrebbe scatenare menando con le bacchette come John Bonham dei Led Zeppelin in un dialogo feroce tra la forza bruta prima della conversione e della comprensione.

Tommaso Chimenti 24/03/2021

SAN CASCIANO DEI BAGNI – Le avevamo lasciate immerse nei chiaroscuri e nelle ombre magiche e trasognanti che tratteggiavano tremolanti la figura di Azzurra di Montebello nel loro “Born ghost” che avevamo visto all'interno della rassegna “Forever Young” alla Corte Ospitale. Sta tutto dentro al loro nome, un nome fatto di nodi e snodi, di possibilità e deviazioni liturgiche e dialettiche: Coppelia Theatre, all'anagrafe la costruttrice di pupazzi, scenografa e visual designer Jlenia Biffi e l'attrice e autrice Mariasole Brusa. Coppelia rievocando il personaggio, inquietante e terribile, protagonista dell'“Uomo della sabbia” di E.T.A. Hoffmann dove il sogno, l'incubo e l'automa si fondono in una marmellata inscindibile di sensazioni, ritorni, ambientazioni dark e simboliste. Una compagnia 01crop-1536x864.jpgche ha una decina d'anni nata dopo che la Biffi aveva trascorso quattro mesi in Siberia, precisamente nella città di Tomsk, geograficamente sospesa tra Kazakistan e Mongolia, apprendendo le tecniche delle marionette da polso dal Maestro Vladimir Zakharov, burattinaio che ha miscelato ingegneria e teatro di figura, purtroppo deceduto tragicamente tentando di salvare i suoi burattini da un incendio che aveva colpito il suo teatro, il 2KY Theater, e laboratorio dove li forgiava e dove prendevano vita: un'esistenza epica, un finale drammaticamente teatrale.

La tecnica delle marionette da polso è complessa e affascinante perché riesce a coniugare l'ingegneria robotica alla scena, la biomeccanica all'umanità, la scienza al tatto, la macchina ai sentimenti umani: delle protesi al polso raccoglie i movimenti del manovratore che ha impegnate, con meccanismi-alta-definizione-1024x1024.jpggrande sforzo e concentrazione, tutti i muscoli, tutte le dita delle mani. Zero elettronica ma soltanto piccoli impercettibili e lievi tocchi, soffi con i polpastrelli che muovono otto binari di fili, che riportano al personaggio, alla marionetta, tutta la sensibilità dell'attore: il mignolo movimenta gli occhi, l'anulare l'apertura della bocca, l'indice e il medio le gambe, il pollice la chiusura delle palpebre e il movimento laterale della testa. I gesti così diventano fluidi, non scattosi né meccanici, realistici, vivi “perché raccolgono la “sporcizia” del manipolatore” donando quella patina di imperfezione che rende l'uomo così dissimile dal robot. Due gli elementi centrali: la sensazione di vita e quella del peso, della gravità, che riescono ad unire e fondere la poesia con la tecnologia, rendendo la seconda più terrena e soffice e restituendo al pubblico un burattino non stereotipato. Il risultato è la fiducia che l'impatto con queste piccole macchine con il cuore riesce a far sbocciare negli spettatori di ogni età. Per questo il lavoro attoriale, fatto di complessità tecnica ma anche di versatilità scenica, è di fondamentale importanza. Coppelia si può tradurre nel motto della compagnia: Arte e Tecnologia.

In questi anni Coppelia Theatre è stata ospite in prestigiose rassegne internazionali come Avignone Off o il “Babkarka Bystrica” in Slovacchia, il “Festival Valise” a Lomza in Polonia, il “Bristol Festival of Puppetry” in Gran Bretagna, il “Festival Asile 404” a Basilea, il “Zone Puppet photoMauroSini-001-768x511.jpgTheatre Festival” proprio a Tomsk in Russia da dove tutto è partito, il “Festival der Gelegenheiten” a Berlino. Oltre che, tra i tanti italiani, citiamo “Mirabilia” o “Arrivano dal mare”, “VolterraTeatro”, “Mercantia” o “Kilowatt”. Ed anche i premi e i riconoscimenti sono arrivati copiosi, ottenuti con le loro produzioni, “Trucioli”, che ha raggiunto le 450 rappresentazioni e che abbiamo avuto modo di poter seguire all'interno del loro laboratorio in una replica speciale, “Star Hunter”, “Born Ghost”, che ha vinto il Bando ERT e finalista al “Forever Young”, “Chimera/Sirene” che avrà la voce di Michele Di Mauro che leggerà poesie di Dino Campana che ci condurrà dentro l'ontogenesi di una donna pesce dalla nascita fino alla sua morte, vincitore del bando internazionale “Giovani artisti per Dante” promosso da Ravenna Festival, “Witchy Things” sull'identità e gli stereotipi di genere, finalista Premio Scenario Infanzia '20 e vincitore del “Premio Internazionale Narrare la Parità”, o con “The Creature”.

L'artigianato e la creazione sta alla base di ogni loro progetto: meccanismi e ingranaggi, ali giganti o teste di mostri, trampoli o maschere in 3D, per SIT5_168-1536x1022.jpguna gestazione che nasce da un'intuizione passa alle mani per poi tradursi in oggetti che, toccandoli, si ha la netta sensazione che abbiano un'anima, un trasporto, un'alchimia profonda, pensata e solida. Dalla piece “Clockwork Metaphisic”, metafisica a orologeria, con l'attrice Ilaria Drago e la regia di Marta Cuscunà, basato sulla pittrice spagnola surrealista Remedios Varo, sono nate due “costole” per spazi non teatrali, piccoli cammeo: “Trucioli” e “La cacciatrice di astri” di dieci minuti l'uno. L'idea è quella del teatro da camera di Guido Ceronetti, per creare luoghi dell'anima, intimi, per poche persone vicine dentro allo stesso sogno colorato e fantastico nella sua accezione più alta. “Trucioli” è ispirato all'opera “La creazione degli uccelli”, quadro della metà degli anni '50 del secolo scorso della Varo che, non a caso, era figlia di un ingegnere idraulico, vissuta tra SIT5_271-Exp_media-1280x1920.jpgla Parigi di Breton, Barcellona e Città del Messico dove, era inevitabile e sarebbe stato impossibile il contrario, entrò in contatto con Frida Kahlo. Il quadro della pittrice spagnola, che si rifaceva a Bosch, vede una donna che macina stelle per imboccare e alimentare una Luna in gabbia condizione dell'autolimitazione della donna da una parte e dall'altra la donna di casa che ripete sempre gli stessi gesti.

Un teatro nel teatro perché il piccolo impianto nel quale si svolge la vicenda è un teatrino da wunderkammer, capolavoro metafisico e patafisico, un sipario a metà tra una bocca di squalo e una volta celeste stellata dove al suo interno, immersa da mini luci coperte da conchiglie, una creatura ancestrale ibrida tra donna e civetta si muove con disinvoltura dipingendo, creando e distruggendo la propria arte. Usa il pennello come se fosse un plettro e ha appeso al collo unSIT7_029-1536x1022.jpg violino e, disegnando, macera e macina miscelandoli, i colori ciano, magenta e giallo, per produrre la sua personale creazione del mondo. In miniatura è ricreato uno studio, un laboratorio fatto di tavoli ed inchiostro, di orologi e calamaio, di nuvole e occhi che si rincorrono, un opificio che tutto trasforma, tra fumi e fiamme in una magia senza età che colpisce e cattura la curiosità. I movimenti rapiscono e si perde il senso del tempo, ci si concentra su un particolare che un altro ci illumina e ci abbaglia, ci porta lontano nel tempo, quello interiore personale anagrafico, come quello dell'Uomo con la maiuscola che, tra questi piccoli grandi colpi di genio, ci fanno sciogliere e liquefare tornando all'essenza di ciò che eravamo, di quello che, sotto le sovrastrutture ancora siamo: corpi magnetici in grado di meravigliarci.

Tommaso Chimenti 12/03/2021

SESTO FIORENTINO – L'ultima volta che lo abbiamo visto sul piccolo schermo interpretava l'oste Oliviero nella serie tv Rai “Pezzi unici”, girata a Firenze al fianco di Sergio Castellitto, Giorgio Panariello, Marco Cocci, Katia Beni, per la regia di Cinzia TH Torrini. Una fiction che ha dato grande impulso e slancio ad Andrea Bruni, comico, autore, drammaturgo toscano con una carriera più che ventennale alle spalle. Una carriera variegata che lo ha portato ad indossare i panni del frontman in “Tintoria” oppure a “Bulldozer” in Rai come ospite di “Quelli che il calcio”, passando per il programma “Stiamo tutti bene”. Ma il rapporto con il teatro non si è mai interrotto, anzi, all'interno dello Scantinato, il teatro a San Domenico a Fiesole, aveva trovato la sua fucina, il suo laboratorio di sperimentazioni di linguaggi, di scrittura e attoriale. Anche due importanti premi toscani in bacheca: il “Premio Montagnani” e il “Premio Calindri”, due personaggi-faro per gli attori brillanti di qualsiasi generazione. Quindi da una parte la televisione dall'altra il teatro, prima in scena poi, nel tempo, sempre più dietro le quinte, alla stesura dei testi che, pur partendo da un'anima leggera e spensierata, nascondono sempre più il suo lato surreale, onirico, trasognante, magico, grottesco, riflessivo. A cinquant'anni è un artista a tutto tondo che dopo l'esperienza di oltre vent'anni con la compagnia Down Theatre ha deciso di confluire nell'associazione Zera, fondata con Alessia De Rosa, suo nuovo spazio d'ideazione scenica. Bruni adesso ha voglia di misurarsi con qualcosa che alzi l'asticella.andrea-1.jpg

A Sesto Fiorentino, dove vive e dove i suoi genitori avevano un forno iconico che ha sfamato intere generazioni di ragazzi, il teatro non è soltanto il Teatro della Limonaia. Da anni sono nate e stanno crescendo molte realtà parallele perché la voglia di fare e vedere teatro non si può ridurre ad una sala da 99 posti. C'è il teatro parrocchiale “San Martino”, c'è la compagnia Atto Due, esiste da almeno un decennio il progetto per la costruzione di un teatro nell'ex area Ginori. Ma esistono altri spazi che potrebbero essere usati allo scopo come, ad esempio, il Centro Espositivo Antonio Berti che, tra una mostra e l'altra, potrebbe essere utilizzato per sala prove o messinscene. Proprio qui, in questi giorni, Bruni e De Rosa si stanno confrontando con un nuovo testo con l'attore Ciro Masella.

Mi volevo lasciare alle spalle l'etichetta di “comico toscano” - ci racconta nella sua barba bianca Andrea – adesso cerco qualcosa in più rispetto ad una comicità vuota, che non lascia niente se non il rumore di una risata che come inizia finisce. Sono mosso dalla curiosità e rifuggo le etichette”. In questi anni il suo percorso di scrittura parla chiaro: dai monologhi commoventi al femminile “In assenza” passando per il gothic “Desmond”, continuando con l'introspettivo “L'uomo che piantava gli alberi”, proseguendo con “Deriva” sul tema migranti, arrivando ad “Antefatti” una sorta di “Rumori fuori scena”, fino ad “Oblò”, la crescita è stata continua, senza rinnegare il passato ma cercando nuove sfide, nuovi step che lo hanno portato al concepimento di due piece importanti, corpose.

Prima “Commedia Magenta” testo politico orwelliano ambientato in un mondo distopico con dieci personaggi. Successivamente con la stesura de “Il Paese che salvò il mondo” testo che indaga il rapporto tra il popolo e il potere in un domani prossimo che vede le sue speranze affievolirsi, speranze ambientaliste, ecologiste, di crescita consapevole, di politiche eque. Un giallo-thriller, una sorta di “La parola ai giurati” con un processo di fondo che vede schierarsi dialetticamente la coscienza e un Dittatore. Tredici in personaggi in azione ai quali presterà corpo e voce proprio Ciro Masella in un impianto che ricorda Alessandro Benvenuti in “Benvenuti in casa Gori” cambiando un colore, un dettaglio, un'intonazione, una luce, un dialetto, un grande impegno anche per l'attore che in questi anni ha recitato per Castri come per Ronconi, per Massini o Tiezzi, per quelli dell'Elfo milanese o per Savelli a Rifredi.

Lae262b4d4c6900bbb1817b885cccba73e_XL.jpg domanda che mi sono fatto – continua Bruni – è che cosa accade prima che tutto accada”. Sembra cervellotico ma sta tutto qui in un limbo che potrebbe essere la fine del mondo, una catastrofe apocalittica beckettiana come un brodo ancestrale generatore della Pangea come del Big Bang che ciclicamente si rincorrono. Un Io narrante che passa la parola, in questa storia misteriosa, alla dozzina di figure che si alternano e si cambiano il testimone lasciando sul campo domande e riflessioni in un testo che interroga la scienza come i grandi valori dell'esistenza oscillando dalla rabbia all'accoglienza, dal fatalismo al ragionamento, dal pensiero alla violenza. In questo paese, chiamato esemplarmente Buoncammino (definito poeticamente “un vestito fuori misura”), si deve prendere una decisione fondamentale; c'è un processo in atto dal quale scaturiranno conseguenze, dopo il quale niente sarà più come prima e non si potrà più tornare indietro. unnamed.jpgLasciarsi andare all'isteria del momento, allo sconforto del qui ed ora, alla tragedia del tempo o cercare mediazioni e spiegazioni, aprire tavoli e dibattiti, creare alleanze e relazioni? E' una favola per adulti, una parabola ricca di insegnamenti, che ci riporta al processo contro Ceausescu come a quello di Gheddafi o che può avere attinenze e verosimiglianze con Trump. La grande domanda di fondo è se la democrazia ha fallito la sua missione e se ha creato un'umanità senza speranza: “Il tribunale non è un tipo di teatro?” si chiedono. I personaggi poco alla volta spariscono dall'agorà lasciando al duello finale tutto il suo carico evocativo tra Asimov e Fahrenheit 451, oscillando tra gli spari e la melodia di una musica, lo spavento e la bellezza, la voglia di Comunità e il desiderio di Vendetta. Non resta che riaprire i teatri, non resta che dare nuovi spazi alle compagnie sestesi, non resta che vedere in scena le parole di Bruni attraverso la bocca di Masella. Manca poco e manca tanto insieme.

Tommaso Chimenti 05/03/2021

GENOVA – “Sguardo basso, cerchi il motivo per un altro passo, Ma dietro c'è l'uncino e davanti lo squalo bianco, E ti fai solitario quando tutti fanno branco, Ti senti libero ma intanto ti stai ancorando” (“Una chiave”, Caparezza).

Come un ballerino che fluttua dolce sulle nuvole questo “Giusto” (tra gli sbagliati) ci colpisce come uno dei migliori antieroi per eccellenza; spaventato, impaurito, timido come lo siamo stati tutti una o mille volte durante la nostra esistenza. Quella che si crea tra platea e palco non è soltanto empatia ma una sorte di sotterranea elettricità che ci accomuna in questo viaggio delicato e tenero che Rosario Lisma fa fare al suo pubblico, prendendoci per mano senza dominare, accompagnandoci passo dopo passo, mai davanti sempre a fianco, complici senza ruffianerie. “Giusto” (prod. Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, scritto e diretto dall'attore siciliano da anni di stanza a Milano) ha molto del corpo che lo abita, come Lisma è pacato, gentile, saggio, ti fidi, gli apri volentieri il cuore. Si genera subito un legame forte, di solidarietà che mai sfocia nel patetismo, di vicinanza senza travalicare nel vittimismo, noi siamo Giusto e Giusto è in noi, ci riconosciamo, è per questo che lo amiamo fin dall'inizio, fin dalle prime battute.Giusto-ph-Marco-Ragaini.jpg

E guai a chiamarlo sfigato o sfortunato o addirittura Fantozzi, con il quale certamente ha diversi tratti in comune: per il nostro sguardo il suo personaggio pennellato e pastellato, tratteggiato, soffice e tenue ci ha ricordato una miscela che lo lega a Paperino e Clark Kent, ha qualcosa del pacioso Homer Simpson impastato con il “Preferirei di no” di Bartleby, anch'egli scrivano-impiegato, qualche tratto di Meursault de “Lo Straniero” nell'accezione del non saper prendere una direzione, lo sconfitto Ettore e la gentilezza di Tintin, l'emarginazione di Holden Caulfield e l'isolamento di Gregor Samsa, l'inadeguatezza di Arturo Bandini di John Fante, l'ingenuità di Candide di Voltaire e le sventure di Marcovaldo o le depressioni di Pierrot, le avversità di Zeno dell'omonima coscienza ma soprattutto ci è sembrato di scorgere la morbidezza affettuosa di Charlie Brown. Insomma nei Ricchi e Poveri sarebbe stato quello con i baffi, degli 883 il biondo. La sua disponibilità e premura nel farsi accettare gli altri la scambiano per mollezza e debolezza e di questo se ne approfittano. Giusto si sottrae all'arena, fugge alla pugna, rifiuta la competizione, scansa l'agorà, non impugna le armi. E' uno da decibel bassi, che non vuole litigare, che non si mette in mostra e in un mondo tutto basato e incentrato sull'aspetto, sul fisico, sulla forma, sulla presa di posizione forte la sua non-scelta volontaria è un collasso, un suicidio, un azzeramento.

Dietro Lisma (sul grande schermo lo abbiamo visto in “Smetto quando voglio”, sul piccolo in “1994” dove interpretava il leghista Roberto Maroni 206-copia.jpge nel “Commissario Montalbano”), che sul palco ha postura e sicurezza che ci hanno ricordato Pierfrancesco Favino, si muovono i disegni di Gregorio Giannotta (l'artista che ha adornato l'interno della sala Dino Campana della Tosse rendendola unica), illustrazioni leggere, bozzetti infantili, schizzi commoventi e luminosi, caldi come un abbraccio materno. Alimentano la forza delle parole esili e lievi che escono dal racconto di una vita, la famiglia, il lavoro, gli affetti in sordina, in deficit e in rimessa, un doppio binario che concede e scalda, un rapporto generoso che colora questo viaggio in bianco e nero del nostro Giusto che è ancora avvolto nel bozzolo, che teme nel dispiegare le ali, a farsi farfalla per coloro che potranno apprezzarne il volo.

Giusto viene giudicato perché non è come gli altri bambini prima, come gli altri adolescenti dopo, come gli altri uomini, come gli altri impiegati; e non si fa neanche omologare, preferisce la sua ombra, la non partecipazione, il non uscire allo scoperto perché è preoccupato, fino all'immobilismo, che mostri come il Disagio o la Vergogna lo prostrino, lo annientino, lo affliggano. Si ride, si ride amaro, si ride di noi, di come siamo stati, di come saremo in altre mille circostanze. Di come spesso siamo inflessibili soprattutto con noi stessi: Giusto ci dice, perché è ancora necessario 001-copia.jpgdirselo e ricordarselo, che non dobbiamo giudicare e che ogni volta che lo hanno fatto nei nostri confronti abbiamo sentito una lama conficcarsi alla bocca dello stomaco. Si sente insignificante e inconcludente perché è il giudizio sociale che lo fa sentire tale, che lo relega nell'angolo, che, non comprendendolo, preferisce schiacciarlo, derubricandolo a “strano”, etichettarlo tra le stramberie, in quell'ordinario incolore che non vale neanche la pena di menzionare. In un mondo dove tutti sembrano superman, o almeno lo vogliono con forza comunicare all'esterno, dove tutti hanno un'opinione su tutto, il suo essere indeciso, incerto, titubante, fallace, silente, uno che ancora addirittura arrossisce, viene discriminato e ghettizzato perché è il germe del diverso che può far saltare il banco, che può far pensare e riflettere ognuno sulla propria esistenza.

Un testo, a tratti surreale altre volte grottesco, che è una favola moderna, una parabola che parla di speranza quando la speranza credevamo fosse morta, ci dice che il cinismo è la tomba della comprensione dell'altro e l'anticamera del menefreghismo che ci condanna e ingabbia, che ci racconta di rinascita, di accettazione, di coraggio nell'essere se stessi e che “nessuno si salva da solo”. Lisma ha carisma, i suoi personaggi sono un prisma, la sua carica è un sisma, ha l'impatto di un cataclisma, di emozioni una risma, ha la forza di un aneurisma, è maturo come un aforisma.

“Meglio depressi che stronzi del tipo "me ne fotto". Perché non dicono "io mi interesso"?” (Caparezza, “La mia parte intollerante”).

Tommaso Chimenti 27/02/2021

 

RAVENNA – Tutto nasce dalla Famiglia, diventa, si sfa, si sbriciola, si ricompone, si organizza, si dipana, si scioglie, si argomenta, si secca. La Famiglia come fusto d'albero, i figli come foglie che splendono al sole o marciscono come frutti infetti non troppo lontano dalle radici avariate e corrotte. La famiglia è sempre un cortocircuito con il quale dover sempre fare i conti. E' all'interno di questa analisi, frutto di esigenze autobiografiche e sentimenti alla ricerca di spiegazioni che diano una linearità al passato, che sboccia questo “Adam Mazur e le intolleranze sentimentali” a cura del neonato Collettivo LaCorsa, scritto tutto attaccato come se avesse avuto talmente tanta fretta, appunto correndo e sprintando e sudando, da dimenticarsi di staccare articolo e sostantivo. Lacorsa perché costola di Punta Corsara, la compagnia di Scampia che così bene ha fatto in questi ultimi dieci anni. Di questa nuova formazione fanno parte Gianni Vastarella, qui autore e regista, Giusy Cervizzi, Valeria Pollice, tutti ex corsari, ai quali si sono aggiunti Pasquale Palma, volto noto della trasmissione “Made in Sud”, Vincenzo Salzano e Gabriele Guerra.Adam Mazur 3.jpeg Il secondo dei tre step in programma, dopo la menzione all'ultimo Premio Dante Cappelletti, nella fucina del Teatro Vulkano (dove abbiamo potuto assistere alle prove) è nato grazie alla collaborazione con il Teatro delle Albe, legame forgiato una quindicina d'anni fa con l'esperienza di Marco Martinelli e dei suoi tre “Arrevuoto”.

E' cupo questo “Adam Mazur” a tinte fosche, tra cadute e slanci, fallimenti e scoperte, sempre in bilico tra il grottesco colorato e un interiore dramma tutto da derubricare, sezionare e digerire. Uno strano albergo come fondale di una tragedia in un interno, abitabile e dell'anima, un hotel che ci ha ricordato l'Overlook di “Shining” come il “Million Dollar Hotel” di Wim Wenders, con quel quid che potrebbe essere uscito dal “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson. Dalla pece, delle stanze e interiore, spunta e sbuca, come fiore psichedelico, raggiante e raggelante, un rosso rosaceo sparato erotico pruriginoso in quel vedo e non-vedo che lascia spazio, che socchiude come occhiolino, che cela e tracima.

Uno scrittore torna a casa spinto a ricostruire i passi della sua autobiografia ma, attratto come mosca dagli escrementi, si imbatte in questa strana casa abitata- boudoir voluttuoso e carnale quanto miserevole da un manipolo variegato che sembra uscito dalla “Famiglia Addams” come dal “Rocky Horror Picture Show” dove il desiderio si mescola al senso di colpa, la lussuria al macerato sfilacciato, il godimento al trasandato impiastricciato, impuro e immondo. Come un elastico che attrae e allontana, avvicina e separa inesorabilmente nella continua frattura tra ciò che si è per dna e imprinting, che non ci toglieremo mai da sotto la scorza, e quello che, faticosamente, siamo voluti diventare. Adam Mazur 2.jpegLe atmosfere, che oscillano tra Lynch e Cronenberg, accolgono zuccherine e melliflue così come sono urticanti come un massaggio che friziona togliendo le impurità con unguenti putridi. Sembra di percepire la decadenza, il disfacimento, la caduta, la disfatta. Sono proprio le sabbie mobili del passato che, appena ha rimesso piede sul suolo dell'infanzia, lo riavvolgono e lo tirano verso lo sfacelo, verso il fondo. Quel posto chiamato “casa” lo affossa e fa emergere in lui gli istinti più biechi azzerando tutto il buono, l'arte, che aveva costruito in questi anni lontano da quel vortice di delirio e perdizione. A volte bisogna ricordarsi da dove si viene per non tornarci più.

Tutto è giocato sul filo del rasoio del vero e del fake, del plausibile e dell'impossibile: lo scrittore destabilizzato (Roberto Magnani), piagato dagli eventi, che sferraglia sulla sua macchina da scrivere (pare Snoopy piegato sulla cuccia) sembra creare il mondo che lo circonda di ruffiani smancerosi (Pasquale Palma) e peripatetiche consunte, lise e laide che appaiono materializzandosi con il suo premere sui tasti metallici, tutti gli avventori della casa chiusa si fanno chiamare con il nome del celebre romanziere (chi sarà quello vero), la sgualdrina anziana (Valeria Pollice “giapponese”) si rivelerà essere tutt'altro così come l'impellicciata (Gabriele Guerra en travestì) svelerà la sua natura scioccante e sconvolgente. In questo continuo gioco di specchi e di rimandi, dove niente è ciò che sembra e tutto pare prendere tangenti e sfumature, sfaccettature da Tunnel degli Orrori distorto di una realtà frastornata e frantumata, trasmigrata e traslucida, Adam Mazur 4.jpeglo scrittore, arrivato per trovarsi, per ricomporre i pezzi del suo puzzle esistenziale, si perde definitivamente, sciogliendosi a poco a poco dentro le dinamiche e i meccanismi illogici del postribolo. Odore di morte e voglia di cambiamento.

Ma questo sembra un buco dove tutto viene decongestionato e digerito, frullato e sfibrato fino a perderne i contorni originali. Sembra l'anticamera dell'Inferno dove personaggi smodati, sguaiati, deformi e squallidi, quasi animaleschi (gorgogliano come scimmie, belano come ovini) trascinano nell'incubo l'autore omonimo del titolo che si ritrova rapito da risate isteriche inquietanti all'interno di una patina sdolcinata e melensa. Così come il sonoro scelto per i vari quadri che, in maniera ossimorica, ad una melodia scanzonata e dolce abbina scene tremende e devastanti creando quel mash-up che fa tentennare, quello squilibrio che sposta. La scrittura di Vastarella, che si rifà ai “Fantasmi” di Eduardo come a quelli ibseniani, punge e scalfisce ma deve controllare e bilanciare lo stravagante, lo strambo e il ridicolo sul piatto Adam Mazur 5.jpegdella bilancia con la riflessione più intimista, non cedere e non concedere al riso, tentare, senza forzature, di non cadere nel facile mantenendo la crudezza come parametro, trasformando ogni possibile abbraccio in una stilettata, i baci in schiaffi, i perdoni in derisione insistendo maggiormente sulla parte acida e ustionante. Meno Fratelli Coen e spingere più su Bergman, scandagliare più il fango di Jon Fosse e meno le assurdità di “Fargo”. L'oggetto iconico è senz'altro il paravento fatto di ombre, che nasconde e abbellisce nelle sue forme nere anche i corpi meno apprezzabili. Come asprezza ricorda quel meraviglioso “Sterminio” delle Albe da Werner Schwab con queste terrificanti e spaventose figure che popolano questo sottobosco fatto di aghi, spigoli, punture e bruciature. Se Edipo ed Elettra dormono nello stesso letto il trauma (e non traum che in tedesco significa sogno) è la logica conseguenza.

Tommaso Chimenti 18/02/2021

BOLOGNA – Arrivi alle Ariette, a Monteveglio in questo spicchio tra Bologna e Modena, passeggi nel bosco, scruti le nuvole, tocchi l'erba e ti sembra impossibile associare la quarantena ad un tale stato di grazia, ad una tale apertura e respiro. Qui dove tutto è ampio, lontano a perdita d'occhio e non riesci a contenere tutto il panorama con lo sguardo. Nessun senso di chiusura, costrizione, clausura o recinto. La quarantena in Valsamoggia è una condizione normale, consueta per il contadino che si sveglia all'alba e va a letto al tramonto, ed è consueta per l'attore che prova e scrive e annota pensieri e parole che diventeranno il prossimo spettacolo. Appunto, attori e contadini, le due anime paritetiche identitarie delle Ariette, gruppo che prende il nome dall'appezzamento di terra sulla quale poggiano le mura del deposito degli attrezzi trasformato in teatro e i loro animali, la parte più vera, incapaci di fare il male per il male, puri e ingenui, gli animali che sono i grandi protagonisti di questa inquieta fiaba noir, il testo-riflessione “E riapparvero gli animali”.download.jpg
Prima che si accendano le lucine da sagra di paese a rischiarare la notte e il racconto, si cammina per i campi, per queste colline, alla scoperta della fatica del coltivare, dell'impegno e dell'amore che ci vuole, quotidianamente e costantemente, senza pause, curare e prendersi cura e finalmente essere ricompensati con la fioritura, la germinazione, i frutti. E' tutto un gioco di tensione tra il lavoro dell'uomo e la forza della natura, le intemperie e tutto quello che l'uomo non può controllare. Tutto diventa concreto, tattile e allo stesso tempo poetico e sognante. C'è la fatica ma anche la soddisfazione, c'è la gioia ma anche la durezza del lavoro manuale. Ci narrano di cinghiali e ghiri, istrici e caprioli che popolano i campi e invadono le coltivazioni in un continuo equilibrio, sempre da rimodellare, tra l'uomo e la natura che non E riapparvero gli animali.jpgè sempre bucolica da cartolina ma a tratti è selvaggia e ruvida. Attorniati da un tramonto arcaico di nuvole rosa, l'odore forte d'erba medica quasi stordisce.
La riflessione, in scena Paola Berselli, è tosta: in un futuro prossimo distopico, altre infezioni e virus hanno attaccato l'uomo e da allora gli animali sono considerati contagiosi, da denunciarne la presenza, fino all'eliminazione. In una sorta di Chernobyl, prima si è distrutta quasi completamente la fauna per poi riorganizzarla con le regole asettiche dell'uomo che eliminando gli animali ha perso la sua componente vitale. Gli animali concepiti solo come carne da macello. Le persone hanno abbandonato le città e vivono lontane le une dalle altre in campagna. I randagi sterminati. Non si possono prendere aerei, né passare da una regione all'altra, né abbracciarsi, bisogna sempre essere rintracciabili. Questa pulizia radicale (ricorda la “soluzione finale” nazista) fa sì che la vita diventi sinonimo di paura, nell'abbattimento di qualsiasi forma vivente per timore che possa infettarci.
Quindi da una parte la quarantena, simbolo dei nostri giorni, dall'altra si apre invece il dibattito sulla presa di coscienza personale, al di là di quella civile e collettiva, su che cosa come individuo sia giusto fare, se rispettare alla lettera qualsiasi regola impostaci dall'alto oppure se pensare con la propria testa. La protagonista rimane nella massa silente, accetta senza prendere parte, senza protestare o alzare la voce, cittadina non attiva che si nasconde dietro le regole. E qui viene in mente la poesia di Brecht “Prima vennero a prendere gli zingari”. Ma l'odio produce sempre frutti avvelenati. Un regime totalitario che vuole vietare, come pretesto la salute pubblica, assemblee, convegni, manifestazioni. Una favola metaforica che ci mette con le spalle al muro chiedendoci: “Tu da che parte stai?” e “Cosa faresti per affermare la tua idea?” Un finale terribile e ancora più nero (da Fratelli Grimm) nel quale si evince che gli animali non sono fuori di noi ma sono una componente essenziale della Terra, insieme al mondo vegetale, e che gli uomini sono solo una parte del tutto e nemmeno la più importante.unnamed.jpg
Quell'uomo che si prende la briga di decidere (crede di essere Dio), regolamentare le altre forme viventi a proprio uso e consumo. Gli animali sono la nostra parte più irrazionale, quella fanciullesca, della bellezza del gioco, della vita per la vita. “E riapparvero gli animali” apre la discussione sul nostro futuro, sulla paura che ci divide, sugli animali che sono la gioia vitale senza le sovrastrutture che ci affaticano quotidianamente. L'animale vive sentendo dentro di sé ogni attimo che gli scorre sotto pelle, non dando per scontata la vita perché sa che è breve e feroce. E' per questo che per loro ogni secondo è pieno e non annacquato. Se, e quando, l'uomo si autodistruggerà, gli animali certamente torneranno, e faranno tranquillamente a meno di noi.

Tommaso Chimenti

10/08/2020

VENEZIA – Non è morte a Venezia ma aleggia un odore di morte in laguna che fa spavento, terrore, paura. Mancano i giapponesi che scattano compulsivi fotografie, sono rimasti soltanto i piccioni imperterriti senza più briciole da beccare. Non c'è più neanche l'acqua alta atterrata dal Mose che anche senza l'accento finale fa aprire le onde spugnose e marroni. Lugubre il profumo rancido che sale, ti guardi intorno e sei solo. Finalmente e purtroppo. Manca la vita, rimangono le case, spesso disabitate che aspettano nuovi turisti, i mattoni colano pioggia che pare che piangano, le piazze deserte, panchine vuote senza anziani, la malinconia, la disperazione di avere a disposizione un orizzonte visivo libero e non saper che farci. Ti senti sperduto e solo, i vicoletti angusti, bui, le ombre che si ingigantiscono al passaggio, un senso di sconfitta che striscia e serpeggia infido s'intrufola tra i pensieri e fa sbagliar rotta. Tutte le calli diventano simili senza il vociare stupito, senza il codazzo da marcia che ti indica i punti cardinali da raggiungere o superare, Piazza Roma, San Marco, Rialto. Tutto azzerato, appiattito, azzoppato. Gondole a riposo, barchette coperte, tutto è fermo, statico. Sembra di muoversi all'interno di un quadro dove tutto sta ordinato in un proprio caos del quale non capisci il disegno, la fine ultima, il destino. Se ti fermi a pensare sei risucchiato e tutto sembra scartavetrato, esposto, scrostato. Senza pelle, gli organi al vento.BackstageIgemelliVeneziani20112020-2813.jpg

E' la stessa sensazione che ti lascia, acre e pungente, la visione de “I due gemelli veneziani” (produzione Teatro Stabile del Veneto, TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato) passati sotto il torchio e la pialla di Valter Malosti (al suo primo avvicinamento goldoniano) che, con la sua cifra chiara e riconoscibile, ha smontato e rimesso in piedi una macchineria spesso mostrata soltanto nella sua accezione brillante e comica e che qui, invece, fortunatamente sorprende con un noir-thriller, spingendo sui chiaroscuri, forzando sulla pece interiore, giocando macabro, forgiando il testo e piegando i personaggi verso un intenso e cupo scandaglio dell'anima. Adattato insieme ad Angela Demattè, il plot, fatto di misunderstanding e scambi di persona colorati dalla Commedia dell'Arte, prende corpo e si trasforma in dramma, nella tragedia della vita che trasfigura se stessa, trancia, taglia, spezza, toglie gli orpelli agli uomini lasciandoli nudi davanti alle proprie manchevolezze, scelleratezze, ineffabili debolezze sordide.

Malosti 31F3cv0w.jpegha il pregio, tra i tanti, sempre di costruire un cast ottimamente equilibrato come potenzialità ed espressività (anche nei ruoli comprimari, tutti estremamente validi i vari Alessandro Bressanello, il piglio di Anna Gamba, Andrea Bellacicco, il furore drammatico di Irene Petris, Vittorio Camarota, Valerio Mazzucato, l'energia di Camilla Nigro), non trascurando dettagli, anzi esaltando la cornice che puntella e fa scintillare nuovamente azioni e protagonisti. Un pool d'attori che alimentano l'un l'altro la scena illuminando il cono di buio caravaggesco dentro questo percorso esistenziale fatto di consapevolezze ritrovate e perdita d'innocenza. Alla squadra amalgamata e affiatata sul palco si aggiunge un altro personaggio dall'eguale virtù, dignità e rispetto, il suono (a cura di G.U.P. Alcaro) che con il regista torinese non si può mai definire semplicemente “tappeto sonoro” né basicamente accompagnamento musicale né tanto meno rumori di fondo. La musica qui preme, s'agita, cresce, pulsa, dà vita, risuona, aumenta, scivola ma non è mai secondaria, mai cedevole, mai in secondo piano. E' proprio la sonorità inquietante, che non abbandona mai l'azione, assieme alle luci (di Nicola Bovey), o al suo misurato uso centellinato, a creare un'armonia frastagliata di sentimenti sensoriali come nave che ondeggia in attesa della secca che spezzi le vele. Perché nell'aria si annusa l'imminente calamità, la catastrofe che sta per travolgere ogni pagliuzza, il disastro che strapazza sogni e aspettative, la disgrazia che ammanta i gesti impulsivi di uomini piccoli, la sciagura che si respira solida, la rovina che potresti delinearne i confini, che puoi vederla lontano avvicinarsi come un transatlantico traboccante di oblò che affiora in San Marco.

“I due gemelli veneziani” sarebbe dovuto andare in scena proprio in questi giorni di dicembre 2020 e solo la lungimiranza, e apertura e respiro, del Teatro Stabile del Veneto ha fvKAvINQ.jpegpermesso e concesso di assistere alle prove, una boccata d'ossigeno, un importante segnale fresco portatore di futuro. Si comincia con la fine, mettendo in chiaro le cose, urlando sommessamente che non sarà una passeggiata tra lazzi, frizzi e risate, che qui andremo a cercare quel punto profondo dentro, quell'idea che per trovarla devi forzatamente e necessariamente aprirti, sventrarti, prosciugarti, squartare il petto e frugarci ansioso e impaurito con le mani sporche. E' un viaggio cupo e avvelenato e rancido, tra Hitchcock, Kubrick e Lynch, e senza salvezza quello nel quale ci guida, con aria affabile e fintamente leggera, l'intuizione dell'inserto di un Pulcinella (esplosivo, flessuoso e seducente Marco Manchisi) conducente delle anime in un Purgatorio rassegnato che non punisce né lenisce, che non perdona né salva, ma, freddamente, fotografa l'assenza di valori, le mancanze degli uomini, la terrenità spicciola e scivolosa dove tutti alla fine cadiamo senza possibilità di risalita. Pulcinella, nel suo napoletano dolce nenia che coccola e tramortisce, che culla e verga, è un Caronte accompagnatore, demone che suggella le fragilità dei terrestri mettendoli di fronte, ma senza cercare vendetta o confessione, ai loro stessi inevitabili difetti e delitti, peccati e zoppie. Possiamo dire che questo “I due gemelli” sia un lungo epitaffio, una strada tortuosa che ci spinge sempre più in profondità, in quel buco dalle pareti lisce che è lo scorrere del Tempo e la fine delle speranze e delle congetture da stratega.

Tocchi da vjaC_TeA.jpegricordare e sottolineare: lo schiaffo al rallenti è una pausa ristoratrice nel traffico, il napoletano Arlecchino che tenta di conversare in veneto, il monologo toccante di Padre Pancrazio sulla carnalità e sul maceramento interiore tra sesso e spirito, il saluto finale di Zanetto tra ammissioni e incomprensioni. Rosaura che vuole intraprendere un matrimonio vantaggioso con lo stolto Zanetto, uno dei due gemelli, la serva Colombina che aspetta Arlecchino per condurlo all'altare, Tonino, l'altro fratello del titolo, che vuole accompagnarsi a Beatrice, il tutto contornato da padri e amanti in una giostra dolente, nel gioco lacrimevole e sciagurato di mosse da scacchi per stanare l'altro, una guerriglia che di spassoso ha soltanto la patina. Qui si scava a mani nude, con le unghie spezzate, in questo mondo feroce dove non basta la lampada di Diogene. Zanetto e Tonino, facce della stessa medaglia, vengono interpretati pirandellianamente Z5o4P3Hw.jpege bipolarmente da un Marco Foschi maturo e profondo, ha corpo, voce e forza interpretativa debordante, una continua percussione precisa nel rilanciare adesso il primo istupidito e sottomesso, ora il secondo sbrigativo, rude e conscio dei propri mezzi. Ha carattere il Padre Pancrazio di Danilo Nigrelli, sottile tramestatore di ingarbugliati traffici, alla fine sconfitto e annullato nella sua stessa macchinosa voglia di rivoluzione personale.

Ma è tutto “I due gemelli”, di rubensiane atmosfere fosche, che lotta e play nel doppio ora affiorante adesso che affonda come sabbie mobili, un doppio che si cela dentro i personaggi e proprio per questo inestirpabile, introvabile, inespugnabile. Come un tumore il doppio cresce e si sviluppa, si aggancia e s'attacca alla carne, il doppio sta lì a ricordarti la parte oscura, le crepe, gli spigoli, il doppio punge e ferisce, il doppio non ha anima né senso di colpa come lo è il riflesso in uno specchio opacizzato dal tempo che lo fa sembrare incerto e imbrattato, tremolante e titubante come l'acqua increspata della laguna. Odore di morte a Venezia.

Tommaso Chimenti 07/12/2020

TORINO – La formula della serialità a teatro non è cosa nuova ma rinverdisce il format dello sceneggiato in bianco e nero prima che fosse sorpassato dalle soap opera, poi dalle fiction e, in tempi recenti, dalla serie tv. Proprio per il suo incedere progressivo, con ogni spettacolo a sé stante e indipendente ma anche globale se visto nell'ottica più ampia delle puntate precedenti e di quelle successive, una serie teatrale incuriosisce da una parte, soprattutto i giovani così tanto abituati a Netflix e Sky e Amazon Prime, e dall'altra fidelizza il pubblico attorno ad una storia, ad un cast, ad un progetto. L'ultima volta che avevamo assistito ad un'operazione simile, riguardo alla serialità, era stato sempre a Torino con “I tre moschettieri” al Teatro Astra, grande produzione del Tpe dell'allora direttore Beppe Navello con ogni piece affidata ad un regista differente. Poche stagioni prima c'era stato a Roma anche l'esperimento “Bizzarra” di Manuela Cherubini da Spregelburd e, ancora Torino protagonista, con “6Bianca” per la regia di Serena Sinigaglia a cura della Scuola Holden. Una serie a teatro affascina, attira, crea una comunità di spettatori attorno ad un'idea, attorno ad un'attesa.104A5359 copia.jpg

Ultima in ordine di tempo, ma siamo sicuri che la tendenza riprenderà con forza, è questo “Radio International” che ha inaugurato, per tutto il mese di ottobre, tre repliche a puntata, la stagione “Re-play” di Fertili Terreni Teatro, nel magico spazio di San Pietro in Vincoli, gestita da ACTI Teatri Indipendenti, CUBO Teatro, Tedacà e Il Mulino di Amleto. Cinque le puntate (ma aspettiamo tutti gli episodi in un'unica giornata) che hanno immerso il pubblico nel mondo della radio, del giornalismo d'inchiesta, nell'informazione senza padroni né padrini, nelle fake news che sempre più popolano i nostri schermi, in un futuro distopico dove la democrazia è messa in forte discussione e dove le poche fonti di notizie indipendenti dai poteri forti rischiano di essere silenziate, svendute, azzittite, comprate. On Air: sei in onda.

Il progetto di Beppe Rosso (sua anche la regia) e Hamid Ziarati ci conduce tra microfoni e ovatta rossa alle pareti per attutire e attenuare voci e musica, cabine di registrazione in plexiglas e mixer, fonici e una redazione battagliera che vuole contrastare i mali del mondo contemporaneo come veri Robin Hood, che si spende in prima persona, sempre dalla parte degli ultimi. Recentemente la radio è tornata ad essere un elemento che ha fatto da sfondo ad alcune delle serie tv più seguite: parliamo dell'argentina “Felice o quasi” su Netflix e l'italiana “Passeggeri notturni” su Raiplay. Ci sono venuti in mente anche gli intramontabili “Good morning, Vietnam” o “I Guerrieri della Notte” con la bocca rossa che sembra mangiarsi il microfono nel raccontare le imprese notturne dei nostri Warriors. Per non parlare di “Radio Freccia” di Ligabue o di Radio Aut di Peppino Impastato. Sarà che in tempi di lockdown c'è stata una riscoperta della radio intesa come quella ritualità Radio International_ph E. Basile_104A5347.jpgdi voce lontana e soffice che sembra parlarci all'orecchio, soffusa e vicina, amica da confessione, a toccarci intimamente pensieri e incubi, sogni e speranze: la radio lascia spazio all'immaginazione molto più di tv e cinema.

In questa redazione radiofonica dove si fa controinformazione nelle puntate precedenti è successo di tutto: hanno seguito il caso di una bambina siriana che voleva passare la frontiera tra Italia e Francia, un ragazzo mediorientale ha impugnato una pistola minacciandoli, adesso il futuro è incerto per tutti, nubi nere all'orizzonte, scenari pessimistici. La leggerezza, affidata principalmente al personaggio di Luca - Francesco Gargiulo, smemorato e svampito che deve assumere medicine altrimenti ha enormi vuoti mnemonici (quasi come Dory di “Nemo”), si mischia al dramma nel cercare fonti attendibili sul campo e informatori che possano dare ragguagli sulle condizioni della bambina che porta con sé documenti segreti. Sono tutti molto pasionari: Lorenzo Bartoli è Roberto un po' il Jack Folla di turno che inneggia e colpisce, che accusa e sottolinea, cerca mobilitazioni e protesta contro il Governo, mentre Grazia – Barbara Mazzi è guerrigliera e arcigna, sempre pronta alla pugna e alla lotta contro le ingiustizie. L'Italia ha chiuso le frontiere in entrata e in uscita e indirà un referendum popolare per chiedere ai propri cittadini se restare o uscire dall'Unione Europea, in una mossa simil Brexit. Dalla regia si susseguono “Because the night” di Patti Smith come i Police o gli Spandau Ballet, mix che dà energia e scalda, fomenta e spinge.Radio International_ph E.Basile_104A5345.jpg

La drammaturgia semplifica e comprime, nell'impasto e nell'andamento tra il serio e il faceto, concetti pesanti triturando complottismi vari e la deriva dei social network in una sorta di riassunto compattato e facile, così come il ruolo dell'Europa che “deve fermare le guerre” per poi, dall'altro lato, essere sgridata, ancora una volta di colonialismo, e tacciata di voler esportare la democrazia. Come nel paragonare gli italiani che andavano a lavorare in Francia o negli Stati Uniti a chi prende una barca, pagando uno scafista illegalmente, viene soccorso da ONG straniereRadio International_ph. E.Basile_104A5349.jpg battenti bandiere di chissà dove e scaricati sulle coste italiane ai quali dobbiamo dare prima assistenza, poi casa, istruzione, sanità, un lavoro e pagare cooperative che se ne curino: le due situazioni non sono neanche minimamente paragonabili. L'Italia poi paragonata all'Ungheria sembra il peggior incubo noir, adesso che poi non c'è più il cattivo per eccellenza Salvini ma i buoni per antonomasia del Pd. Speriamo che i tristi presagi politici messi al centro del dibattito e nell'agorà del discorso teatrale si rivelino infondati. Comunque la soluzione proposta è soltanto una: l'Europa deve sentirsi in colpa su tutti i fronti e deve soltanto accogliere silente chiunque arrivi, con qualunque mezzo e senza i documenti in regola. Tesi esposte ed elargite leggermente naif. “Radio International” resta un altro modo di vedere e godere il teatro. Attendiamo la maratona delle cinque parti: ormai vogliamo vedere come va a finire.

Tommaso Chimenti 23/10/2020

Ph: Emanuele Basile

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