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SIRACUSA – Due ore e quaranta il primo, due ore e mezza il secondo. Cinque ore in due giorni a sedere sulle pietre sacre. E se il teatro per alcuni è ancora considerato sofferenza (non lo dovrebbe essere mai), il dramma antico ha preso alla lettera tale regola e insegnamento. Si noleggiano i cuscini per stare minimamente più comodi sui sassi millenari. Certamente la durata e la magnificenza e la prosopopea e la grandeur e la maraviglia fanno parte del gioco che il pubblico si aspetta da Siracusa e che i registi chiamati in qualche modo sentono di dover rappresentare. Il gioco delle parti, certo. Il format e lo spazio dell'INDA si offre a grandi kolossal (oltre 5.000 i posti, portati a quasi 3.000 in questi tempi di distanziamento), anche oltre il Mito, un'arena da Colosseo che sfugge alla nuova fruibilità delle platee contemporanee. L'ars retorica la fa da padrona, la dilatazione delle scene è un sottofondo costante. Per togliere la polvere da questa storia maiuscola millenaria forse non bastano registi innovativi (spesso formalmente), i tempi sembrano essere maturi per una piccola rivoluzione che non sia soltanto tecnologica di fumi e raggi laser.coefore21_GLC8780.jpg

Due lavori, quelli proposti dal Dramma Antico diretto da Antonio Calbi (a proposito, è uscito il suo volume “Pietre d'Incanto” per VerbaVolant edizioni, assolutamente da leggere), “Coefore-Eumenidi” da Eschilo per la regia di Davide Livermore e “Baccanti” da Euripide a cura di Carlus Pedrissa fondatore de La Fura dels Baus, intimamente diversi tra loro per intenzione prima di tutto, per sfoggio in seconda battuta; se il primo è stato più ridondante nei suoi sottotesti e riferimenti, segni anche contrastanti, il secondo si prestava più facilmente a riempire di senso i movimenti, la corsa, lo slancio, la bagarre per un risultato più pieno e avvolgente quasi da concertone rock brutale e dirompente, d'intrattenimento puro. Livermore ha un'anima lirica mentre Pedrissa quella del punk catapultatore e distruttore di schemi preconfezionati. Nel confronto, che forse non ha senso fare ma l'alternanza delle due tragedie spinge anche in questa direzione, le “Baccanti” rianima, elettrizzano certe scene da grande Luna Park (gioioso e fanciullesco), ha un'ossatura circense che ci fa ten(d)ere il naso all'insù e goderci le gigantesche macchinerie tra Cirque du Soleil e Momix.

Per quanto riguarda “Coefore-Eumenidi” qualche dubbio è subito sorto dall'ambientazione anni '30-'40 con guardie “naziste” e un'auto che sembrava uscita da una pellicola gangster. La storia è nota: Oreste dopo dieci anni torna a casa e la madre Clitennestra (Laura Marinoni sempre una coefore21IMG_4690.jpgsicurezza; ci ha ricordato Pamela Villoresi), dopo aver ucciso il padre Agamennone, si è risposata con Egisto. Importante anche la figura di Elettra, sorella di Oreste, una Anna Della Rosa che sempre colora e dà vita a personaggi sussultanti. Praticamente un Amleto ante litteram con sprazzi di Ulisse. A caratterizzare in maniera imponente, quasi invadente e aggressiva per le retine, due forti elementi: una sorta di ponte distrutto sullo sfondo, nel quale molti hanno visto un riferimento al crollo del Ponte Morandi di Genova (Livermore dopotutto è direttore del Teatro Nazionale di Genova), e questa grande sfera, conturbante e accattivante ed eccentrica certo, che per tutta la durata ci inonda di immagini a 360 gradi, colori che accentrano la vista in quell'unico grande buco facendo passare in secondo piano la vicenda. Un occhio-bocca che sembra aprirsi su mondi alieni o è la Terra vista dallo spazio nella sua coefore21IMG_5063.jpgtriste misera piccolezza, una sfera (vero e proprio personaggio-protagonista) che sembra sentire il climax e cambiare tonalità, avvertire la scena e mutare, cangiare camaleonticamente come essenza respirante, come essere vivente. Palla caduta anche come metafora di meteora catastrofica scesa a spezzare le fondamenta della nostra civiltà, a spazzarci via. E' per questo che non troviamo parallelismi con il magma più profondo della recita: qui un Oreste cowboy (un Giuseppe Sartori sempre tonico e fiero, belva sensibile da palcoscenico) viene a portare giustizia attraverso la vendetta, a ripristinare l'ordine lordato col sangue con lo spargimento di altro sangue, mentre la sfera-boccia da pesci (suggestioni sospese tra “Ghostbusters” e “Stranger Things”) appare un agente alieno che arriva a distruggerci mostrandoci la nostra incapacità di autoregolarci. Questo globo appare come la Storia dell'Umanità contratta e riassunta, milioni di anni in immagini in time lapse, che continua e prosegue il proprio viaggio e la propria corsa infischiandosene dell'odio e della morte che l'uomo, questo suo piccolo abitante, immette senza sosta. E poi ecco le Erinni in stile Priscilla Regina del deserto o un Apollo-007, cori morriconiani, un Egisto moribondo che ricorda Gheddafi o Mussolini o ancora meglio Ceausescu dopo l'esecuzione, Atena alla balaustra che pare in Piazza Venezia. Sul finale abbiamo delle riserve perché baccanti21_GLC6375.jpgsulle note di “Heroes” di David Bowie (ci sta sempre bene ma ultimamente in teatro è un po' abusata) scorrono immagini “facili” dal G8 genovese alla Costa Concordia, da Capaci ad Ustica, dai campi di concentramento a Peppino Impastato e non riusciamo a capire se l'intento è spronarci ad essere Oreste (“we can be Heroes just for one day”) vendicando i mali del mondo con la stessa violenza. Drammi nazional-popolari miscelati ad hoc non possono che far scattare il brivido.

Certamente l'impianto monstre delle “Baccanti” non può non colpire, non lasciano indifferenti queste grandi macchinerie (cifra e marchio di fabbrica de La Fura catalana) posizionate nello spazio immenso e profondo dell'agorà recitativa siracusana: un grande uomo movimentato da una gru come un Pinocchio dal suo burattinaio, una testa gigantesca di gabbie, un demonio cornuto a grandezza siderale, il pavimento segnato dall'albero genealogico, da Zeus a Dioniso, come legenda per non confonderci durante la narrazione: utile e didascalico. baccanti21_GLC6512.jpgNon mancheranno le corse, le urla e i fumi come il dionisiaco panorama narrativo prevede in una dinamicità che sfrutta anche le gradinate e soprattutto le altezze con architetture di corpi trattenuti in aria, impalcature di braccia e gambe appese in acrobatiche posizioni. La struttura ci ha portato dentro atmosfere luciferine con i barili tambureggianti e guerreschi in stile Stomp. I costumi sono tra il futurista e “Primo Re” e Dioniso è una Lucia Lavia, qui giustamente posseduta e forsennata, nata per la scena e che si esalta in un ruolo congeniale dove può tirar fuori sia doti recitative che la consueta forza espressiva, il carisma da pasionaria che tiene e trattiene migliaia di persone avvinghiate e rapite. Parte “La stagione dell'amore” che innesca l'applauso-tributo a Franco Battiato, artista siciliano e globale al contempo. Si distinguono Antonello Fassari in Tiresia, attore di razza, Linda Gennari in Agave, sempre combattente e potente nelle sue performance, Stefano Santospago in Cadmo, voce profonda e presenza di peso. Ci sono anche inserti hip hop (Domenico Lamparelli sugli scudi) a svecchiare ulteriormente il formato classicheggiante. Qui lo scontro è tra Dionisa, che porta costumi libertini (e libera le donne dal giogo maschile emancipandole, attuale) e Penteo censore destrorso voyeur che vorrebbe vietare pubblicamente quello che desidererebbe fare di nascosto per una doppia morale ipocrita (il “si fa ma non si dice”). “Baccanti” risulta più fluido ed energico, complessivamente una festa pulsante.

Tommaso Chimenti 19/07/2021

CATANIA – Franco Scaldati è a tutt'oggi ancora un mistero. Un mistero umano, esistenziale, letterario, teatrale. Una grotta, una cava, una miniera, più si va in profondità e più si trova, si scava ed escono aspetti impensabili, documenti, testi, memorie. In quello che era il suo studio, praticamente uno sgabuzzino claustrofobico e minuto, alla sua morte, avvenuta a soli 70 anni, ormai otto anni fa, sono stati rinvenuti 63 testi. E dire che in vita, in scena, ne erano andati soltanto tredici. Quindi pagine e pagine, centinaia, alle quali dare un ordine, con correzioni e cancellature continue, una scrittura poetica anche graficamente con una cadenza tutta propria interna delle linee, delle sospensioni, della punteggiatura indecifrabile, i silenzi, le attese spasmodicheScaldati.jpg, infinite, gli a capo, i puntini. Una grande produzione sconosciuta che, grazie soprattutto alla visione e passione e dedizione di studiose come Valentina Valentini e Viviana Raciti che hanno messo ordine, è stata rinvenuta come pepite. La sua, raccontano, era una pratica di scrittura quotidiana, curvo sulla sua Olivetti, nel suo antro diviso con il nipote pittore. La sua è una scrittura definita “muscolare” ma anche evocativa, schietta, bruciante, una lingua poetica inventata che si rifaceva al dialetto del quartiere Alberghiera a Palermo. Adesso, fortunatamente, tutto questo materiale non è andato perduto ed è conservato negli Archivi della Fondazione Cini a Venezia in attesa di pubblicazione: saranno otto volumi maestosi e corposi che dovrebbero vedere la luce in tre anni con Marsilio.
“Scoperto” a livello nazionale da Franco Quadri che ne riconobbe prima di altri la grandezza, Scaldati (che era anche attore con la sua voce “sferragliante” e cavernosa) procede per frammenti, per flash, brandelli, schegge, francobolli, coriandoli, frammenti che indicano leggerezza e precisione in un concorso “antimaterialistico, alogico, anticonsolatorio” come afferma il professor Guido Valdini. Le sue drammaturgie procedono per fratture, segnate da rotture e ricomposizioni, raccontando una marginalità che non può essere armonica né armoniosa, sicuramente disarticolata. Si ha la netta sensazione che, riga dopo riga, siano pronti ad esplodere, queste perifrasi di carne, queste fabule dove spesso una storia lineare non esiste ma trapela una condizione, di violenza, dolorosa, truce, dura ma anche compassionevole dove spuntano apparizioni e deliri. Scaldati (autore autodidatta) è diventato un “classico” diviso tra l'abisso e il cielo, il cupo e il sensuale.
E “Plivia.jpginocchio” (messo in scena per la prima volta al Teatro Stabile di Catania, che lo ha prodotto, grazie alla lungimiranza dell'illuminata direttrice Laura Sicignano che ha scelto la regista Livia Gionfrida) è un unicum nella produzione scaldatiana perché, nella grande maggioranza dei casi, l'autore si concentrava su testi originali mentre qui ha “tradotto” il testo collodiano nel suo palermitano. L'importanza di questa messinscena è da una parte appunto la visione per la prima volta delle parole di Scaldati attorno e dentro le quali la giovane regista Livia Gionfrida (siracusana di nascita ma di stanza in Toscana da diversi anni, a capo del collettivo Teatro Metropopolare, Premio della Critica A.N.C.T. '18) ha unito, attaccato, inserito pezzi e sprazzi, collante su una sua personale interpretazione non soltanto delle opere ma anche della vita dell'autore di “Totò e Vicè”. Un doppio salto dunque, sanguigno, pieno, dove le parole esplodono. Ne esce fuori un lavoro per forza di cose non scaldatiano ma che parte da quelle origini, imbevuto da quelle atmosfere, realizzato, travisato, tradito (è il compito della regia) dallo sguardo della Gionfrida che ha colorato, espanso, esaltato in scene dirompenti, per movimenti e detonazione, deflagrazione sfaccettata.Foto-Barone-2-1024x683.jpg
Ci sono canti che sembrano ululati e le ambientazioni di Scaldati, periferiche e degradate. C'è anche il gioco del teatro ovvero la dissoluzione delle trappole e degli infingimenti teatrali qui svelati; non sono personaggi di una drammaturgia ad azionarsi ma attori che interpretano quelle stesse figure, un passo indietro, una scissione, un giusto sdoppiamento per rendere, ancora una volta in più, omaggio all'autore e alla sua complessità e alla sua assenza, fugando anche, per i puristi, la facile e scontata battuta “Scaldati non lo avrebbe messo in scena così”. Infatti, Scaldati, purtroppo, non ha avuto tempo e produzioni adeguate per portarlo sul palco, lo ha fatto questa regista coraggiosa che ci ha messo, doverosamente e con coerenza, del suo. Potrebbe essere un “Pinocchio alla prova”. Un Pinocchio-Candide, una fatina che parla in alto proprio con Franco, teatro nel teatro, quasi a chiedere una benedizione per quello che stanno facendo, per quello a cui stanno tentando di dare vita: “Questo non è tempo di poeti. Hai fatto bene ad andartene”. E aggiunge: “Questa sera è un cimitero di parole”, quantità industriale e odore inevitabilmente di morte, comunque il profumo dei sogni. I quadri sono delle apparizioni ben amalgamate, dai colori sparati che attirano e affascinano libertini e lascivi.
Mangiafoco Pinocchio2-bas-1024x683.jpgè in mutande con le scarpe alte con la zeppa, Geppetto, interpretato da un'attrice, è colpito e malmenato, vessato e bullizzato con ferocia inaudita in stile Arancia Meccanica. In alcune scene la frontalità degli attori (una gran bella compagnia scelta, tutti protagonisti, nessuno rimane negli occhi al pubblico più degli altri, non si sovrappongono né vogliono rubarsi la scena, paritari, democratici, qualitativamente alti) sembra omaggiare Emma Dante (molti degli attori provengono da sue produzioni), soprattutto il suo “Mplaermu”. I tratti di queste figure sono animaleschi mentre il nostro antieroe sembra arrivato, come Gesù, da un'altra dimensione, da un altro mondo a rivoluzionare lo status quo. La Sicilia, con il suo carico di sensualità ed erotismo, entra a pieni polmoni: ecco il carretto siciliano, come le “pane e panelle”. In questo Circo Pinocchio è punk e mistico insieme. Pinocchio1 bas.jpgQuando Mangiafoco strangola da dietro il nostro pezzo di legno sembra di avere davanti la scena dell'uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, soffocato e sciolto successivamente nell'acido, ricordo reso nelle dichiarazione del processo a suo carico dal boss Giovanni Brusca: e fa male. Molto. Su questa linea gli assassini non possono che essere mafiosi con tanto di coppola. Non ha una sua linearità, procede per strappi, a tentoni nel buio, illuminandolo, ogni quadro è una sorpresa che esce da una scatola di compleanno, in un'organicità eterogenea questi materiali prendono vita e si animano come personaggi che, dopo aver perso il loro autore prima di potersi esprimere, ne hanno trovato un altro per poter finalmente vivere. Giocano a calcio (dopotutto siamo in clima di Europei del pallone), Pinocchio-ciuchino balla la sua ultima danza sulle note del Lago dei cigni, fino alla sua non conversione in bambino: un lavoro intimo questo della Gionfrida che però non disdegna il pop. Un inciso sulla compagnia d'alto profilo, in stato di grazia e dall'eccellenza tangibile: la splendida Aurora Quattrocchi, la potente Alessandra Fazzino, la carismatica Manuela Ventura, Cosimo Coltraro il Mangiafoco impetuoso, l'esperta Serena Barone, il grintoso Domenico Ciaramitano il Pinocchio muscoloso e leggero, tutti in uguale misura, primi attori lucidi ed ottimi comprimari, protagonisti e spalle funzionali, un gruppo davvero coeso e agguerrito.

Un teatro di donne, quello catanese, passando dalla Sicignano alla Gionfrida fino alle sedici artiste che hanno preso parte al grande murales che fiammeggia sul Teatro Verga dal titolo “oMaggio” in ricordo dell'attrice Mariella Lo Giudice, scomparsa dieci anni fa. Sedici pittrici, le MaleTinte, coordinate da Lydia Giordano, la figlia di Mariella: Virginia Caldarella, Irene Catania, Valeria Cariglia SinMetro, Claudia Corona, AnnaChiara Di Pietro, Francesca Franco, la stessa Giordano, Martina Grasso, Iolanda Mariella, Ljubiza Mezzatesta, Roberta Normanno, Marinella Riccobene, Monica Saso, Uta Dag, Alice Valenti, Agata Vitale, che hanno intrecciato le loro arti e disegni, sogni e tratti, figure e visioni. Più che un lavoro d'ensemble, un lavoro insieme.

Tommaso Chimenti 18/07/2021

CAMPSIRAGO – “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” (San Bernardo di Chiaravalle).

Il bosco è il palcoscenico all'aperto di Campsirago, un nome che a cercarlo sulle cartine nessuno c'è. E' l'isola che non c'è, l'inizio dei sentieri per inerpicarsi e incunearsi su per la montagna lombarda torva a fradicia, un nome che rievoca passaggi di civiltà lontane e ancestrali che hanno segnato questi luoghi selvatici più che selvaggi. E c'è la sua bella differenza. Celti e longobardi hanno attraversato queste terre segnandole e i loro rimasugli sono rimasti nell'aria, sospesi in quest'atmosfera tra la magia, il mistero e l'imperscrutabile. A Campsirago abitano durante l'anno trentasei persone ma molte più anime vagano e aleggiano. Si sentono, si vedono, si percepiscono. Qui dagli inizi del Duemila è nato “Il Giardino delle Esperidi”, festival diretto da Michele Losi, manager culturale, visionario imprenditore di idee che non molla fin quando i desideri che anni prima venivano considerati impossibili e irrealizzabili, non si fanno di carne ed ossa. Così alla struttura in pietra dalle mura solide e alla foresteria si aggiungeranno, nei prossimi dieci anni, un teatro nel bosco in stile Mondaino, un teatro dentro una chiesa senza tetto come San Galgano, e verrà ristrutturata anche una grande dependance (grazie ai contributi di Fondazione Cariplo, del comune di Colle Brianza, 100.000, e del G.A.L. Gruppi Azione Locale che hanno accesso a fondi europei 250.000 euro) di circa DSC_7932_WEB.jpg400 metri quadri che conterrà una sala prove, una sala teatrale da una sessantina di posti per creare una stagione vera e propria che si articolerà con repliche tra produzioni e ospitalità nel fine settimana, una falegnameria, una cucina professionale e una sala dove poter pranzare per quaranta persone in stile Corte Ospitale. Ma cosa più suggestiva sarà la creazione di una sauna (Michele Losi spesso in questi anni ha realizzato produzioni nei paesi scandinavi) per rilassarsi ma anche per fare riunioni e anche per proporre spettacoli all'interno della vasca: originale e unica, bagnati e nudi attori e pubblico insieme nello stesso brodo primordiale. Le compagnie residenti passeranno dalle tre attuali, Le Scarlattine, Riserva Canini, le Pleiadi, alle quali si aggiungerà il manovratore di puppet cileno David Zuazola. Insomma il futuro sta a queste latitudini, i sogni qui, con il lavoro e la caparbietà, diventano possibili. Si sente il magma che produce, si muove, si sente il rumore del domani che ha voglia e desiderio di nascere, che spinge, che non sta più nella pelle.

Due le pièce nel bosco, interattive, mai statiche, da pubblico attivo, partecipe (dopotutto questa è una comunità), scarpe da ginnastica, piedi buoni, tanta curiosità e polpacci a scarpinare, la possibilità del sudore che amplifica la piccola fatica, che rende il tempo della piece esperienza da portarsi a casa, da far decantare, cementificare dentro ognuno di noi imprimendola in profondità. Spettacoli come tatuaggi che ti entrano sottopelle e non se ne vanno più. Continuano ad accompagnarti negli anni. E il bosco è il panorama e il fondale perfetto, lo scenario e il set ideale per l'attraversamento, base di queste avventure. L'andare fuori di noi che, parallelamente, sposta piccole cose, riequilibrandole, dentro di noi in un continuo gioco di specchi, di rimandi, di rimbalzi. Camminare, vedere, scorgere, scoprire pezzi del mondo, scovare parti intime di noi immerse in quei luoghi, ora lampanti e palesi. Un respiro profondo ad aprire sterno e polmoni, reali e metaforici. Il bosco fa paura perché è un buco nero e potrai scoprire cosa c'è dall'altra parte soltanto se ti lascerai trascinare, se quella paura non ti bloccherà ma diverrà trampolino per saltare, andare a tastare, a constatare. Ecco, in quest'ottica, “Amleto, una questione personale”, che dopo una prima parte frontale sul palco (che guarda la vallata e Milano che da qui è quieta e silenziosa) si divide in tre sezioni con tre percorsi dissimili che ogni tanto si tangono nelle radure: i “verdi” gli innocenti, i “rossi” i ricchi e potenti, gli “azzurri” i depressi. Silenzio, fila indiana, cuffie: siamo in un rito.

E' appunto, DSC_9845_WEB.jpgda titolo, una questione privata, un corpo a corpo personale del singolo spettatore con il testo, con le dinamiche ancestrali, con il luogo. Camminiamo e nelle orecchie arrivano frasi che nella loro semplicità scombussolano e rimescolano: “Chi sei quando nessuno ti guarda?”, “Di cosa dubiti?”, “Qual è la tua questione?”. Il bosco non risponderà per noi ma aiuta a fare silenzio attorno, a ripulire l'aria dal vuoto, dall'inutile, dal chiacchiericcio ingolfante. Il bosco è un tunnel verso la Madre Terra, è un essere vomitati tra le frasche, è un cercare la via d'uscita, è un tentativo di salvezza, è un tiro ai dadi scommettendo su se stessi. Sul cammino troviamo sparse giacche incastonate su rami come spaventapasseri. E li sentiamo vivi e attuali Ofelia e Amleto, Polonio o Claudio, vicini e comprensibili, giustificabili, terreni, umani, sbagliati, come noi. Nessun giudizio quando fai fatica. Passiamo staccionate che altro non sono che un esperimento di dare un ordine al selvaggio, e capanne (e ci sentiamo Hansel e Gretel) e rifugi e ovili e rovi. E acacie e ortica a pungere e attenzione ai rami se si guarda troppo la terra e attenti alle radici se si ha la testa tra le nuvole. E' muschio ed edera. Spettacoli che fanno crescere, che rimangono invischiati nei nostri capelli, appesi ai nostri sogni, nei nostri giorni.

Se “Amleto” è comunque una prova d'attore (Sebastiano Sicurezza su tutti, forza, istinto, talento, intuizione, intenzione), nella seconda piece “Vivarium” ci saranno i passi reali e le figure stilizzate virtuali a popolare i sentieri del bosco. Ci sarà un perché tutte le fiabe hanno luogo nei boschi. Seguiamo i percorsi del culto delle acque fino ad arrivare alla fonte miracolosa della Madonna del Sasso. Apparentemente sembra che la tecnologia sia agli antipodi della Natura. In “Vivarium” Losi e soci ci dimostrano che non è così, che forse con uno smartphone in mano si riesce meglio, combinando le due visioni, ad apprezzare l'intorno, a vedere tutto quel che si nasconde tra cielo e terra. Ed eccoci immersi nel “cercare la matematica della Natura” (Fibonacci) che in definitiva possiamo laicamente chiamare Dio. Il telefono diventa mappa interattiva, diventa bacchetta magica che trasforma il circostante. Infatti la realtà si mischia con il virtuale che ci fa DSC_6184_WEB.jpgapparire poiane ancestrali, salamandre della tradizione alchemica come scatole che fluttuano o ombrelli elicoidali che sembrano meduse e infine stormi di pesci volanti. Il vero si miscela con l'app per un mix che sposta i punti di riferimento, alimenta la fantasia, accresce l'immaginazione. Le epifanie si manifestano quando, come in una caccia al tesoro in questo trekking poetico-teatrale, in questo pellegrinaggio artistico, entriamo in contatto con dei nodi che abbracciano tronchi. Sono corde di riso giapponesi, le cosiddette shimenawa shintoiste (ad ottobre il direttore Losi andrà per un mese in un monastero nipponico) numi tutelari che ricordano le passate delle ragazze, candidi abbracci a tenere, a non far scappare né cadere. La via è contrassegnata da strisce color oro sui sassi (e non può non venire alla mente la tecnica del kintsugi, letteralmente “riparare con l'oro”, pratica che consiste nell'utilizzo dell'oro per il restauro di oggetti in ceramica). La nostra è una processione lenta, sacra e laica insieme. Andiamo alla ricerca del grande ippocastano, l'albero sacro. E andando alla ricerca di qualcosa fuori dai nostri corpi, troviamo pezzi di noi stessi che rimangono incantati verso la vallata di Renzo e Lucia, guardando l'Adda affiorare e il Resegone fare capolino. La ricerca non si esaurisce mai. “La preghiera è stare in silenzio in bosco”. (Mario Rigoni Stern)

Fuori dal bosco, in un contesto più classico di teatro frontale, ci hanno comunque colpito due proposte lontanissime l'una dall'altra seguendo quel filo sDSC_8976_WEB.jpgottile tra il divertimento leggero ma mai superficiale e l'impegno il tutto giocato su quell'equilibrio che rendono certe serate frizzanti e degne di essere vissute, tenute nella memoria, raccontate. E' così che abbiamo scoperto (i festival servono anche per portare all'attenzione compagnie o personaggi, è questa una delle funzioni dei direttori artistici, quelli coraggiosi, che non si fermano al già consolidato) la milanese Nina Madù, all'anagrafe Camilla Barbarito, con il suo gruppo “Le reliquie commestibili”. Il suo personaggio è una signora aristocratica, stilosa e rarefatta, elegantissima e snob che potremmo mettere nella stessa sezione di Drusilla Foer. E' altera, charmant, scandisce le parole nelle sue esternazioni lente, serafiche, cattivissime, taglienti, pungenti. Non ha peli sulla lingua. E' in sospensione nel suo rock demenziale a cavallo tra Alice ed Elio e le Storie Tese, tra Giuni Russo e gli Skiantos. E' indifferente ai destini del mondo. Parla più che cantare, un po' come il frontman degli Offlaga Disco Pax, ma quando apre l'ugola stempera la platea ricordandoci il grido di “The great gig in the sky” dei Pink Floyd. Pare mummificata ma quando parla tra una ballata caustica e l'altra è intelligente nella sua parodia di una madame enigmatica, saccente al punto giusto, supponentemente noir, zelante come Morticia Addams. Canta le sue hit: “Bitumificio” e “Uomo col riporto”, “Pediluvio” e “Chef crudista”, “Coppia etero” e ancora “Colluttazione con l'hostess” proprio quando gli animi si scaldano e alcuni anziani del borgo alzano la voce, tra minacce e bestemmie, perché non riescono a dormire. I suoi gesti sono controllati e misurati, da consumata star, imbalsamata come Lady Gaga, immersa in mosse da etoile classica. Lei è la Regina e noi siamo i suoi schiavi; salutandoci ci dice: “Buonanotte, Good night, Gute Nacht, Ammammete, Assorete”. Noi ridiamo, lei resta salda sul trono, dopotutto è l'Imperatrice.

Di tutt'altro tono (ma la complessità delle direzioni artistiche è proprio quella di spaziare tra i generi tenendo dritta la barra della qualità) èDSC_0022_WEB.jpg l'esperienza di David Zuazola con il suo “Robot” un impianto di macchinerie e meccaniche sferraglianti per una storia tenera e dura che ci racconta del nostro passato e come si possa ripresentare se non mettiamo in campo validi anticorpi. Una storia d'amore e differenza, un racconto di handicap e di solidarietà umana, di sentimenti che vanno oltre la superficie, che sanno guardare al di là della copertina. In un mondo prossimo al nostro una dittatura (sembra di stare dentro “Fahrenheit 451” o “1984”) cerca, scova e rinchiude in campi di concentramento, prima di farne rifiuti e spazzatura, i robot ritenendoli il male assoluto. Non passano dal camino ma diventano pezzi di ferraglia. I piccoli filo spinato davanti a noi danno un brivido, così come le sirene, gli allarmi, le luci della polizia, i droni a caccia, i soldati che marciano a passo d'oca. Zuazola (ci ha ricordato le piece di David Espinosa) sta tra due tavoli lunghi e manovra davanti e manipola e sposta, da dietro prende oggetti, incastra in un gioco DSC_0056_WEB.jpgtanto infantile quanto eterno. Il filo spinato elettrificato ci parla di morte e di un tempo non troppo lontano da quello attuale. La sua narrazione è un'armonia tra l'odio e la ferocia delle milizie verso le macchine mentre dall'altro lato del suo personale palco allungato, in questo presepe di figure alle quali lui presta il movimento con le sue mani, si apre una scena borghese di musica tranquilla, di casa e veranda, di fiori da annaffiare. La donna è in sedia a rotelle e un carillon di sottofondo ci racconta della sua solitudine malinconica ma in qualche modo, come i tedeschi con i nazisti, ci dice anche che (come ne “Il bambino dal pigiama a righe”) il popolo che vive accanto a certe brutture e storture non poteva non accorgersi di tali barbarie e quindi non può considerarsi innocente e con la coscienza pulita. E' l'incontro tra questi due esseri soli ed emarginati, ognuno nella propria diversità esposta, che fa nascere la voglia di parlarsi a gesti, di comunicare, di sfiorarsi. Sono entrambi prigionieri del proprio corpo, dal quale non possono scappare. Ma l'amore, si sa, è una farfalla che non vola nello stomaco come nei Baci Perugina ma riesce a passare steccati e barriere, sopravvivendo al male, al tempo: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”, pare perfetta per l'occasione la parabola di Wangari Maathai. Intanto il cielo è stellato sopra di noi. Non poteva che essere altrimenti.

“Niente è complicato se ci cammini dentro. Il bosco visto dall’alto è una macchia impenetrabile ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi ad ascoltarlo” (Stefano Benni).

Tommaso Chimenti 28/06/2021

Foto: Alvise Crovato

MILANO – La gestazione è stata lunga, più volte cominciate le prove, poi interrotte, nuovamente sul palco ed ancora stoppate. Infine, dopo due anni, la scena, l'agognato debutto. Era il 2019 quando venivano gettate le basi per questo “Decameron, una storia vera” dell'accoppiata solida Filippo Renda, drammaturgia, e Stefano Cordella, regia, supportati dalla produzione dell'MTM e TrentoSpettacoli. Partendo dall'idea boccaccesca, dieci giovani che per rifuggire la peste, scappano in un luogo isolato e iniziano a raccontarsi novelle, i nostri sei sul palco attuale (nella finzione teatrale) si recludono per fuggire alla pandemia, ognuno portando le proprie storie (le suggestioni arrivano direttamente dalle loro autobiografie) sul piatto, connesse a paure, ansie, traumi. Renda è oniricoDecameron_1_foto Alessandro Saletta.jpg e visionario, ha una forte carica e ascendente e, anche quando è sulla scena in veste di attore, ha il polso della situazione per dirigere, spostare, divenendo punto di riferimento carismatico, ago della bilancia, fulcro.

Una drammaturgia stratificata a quadri, dieci, ognuno segnalato ed evidenziato con dei colori, dai più acidi ai più tenui, un timer a scorrimento veloce per indicare il tempo che sta finendo, per una escalation molto cerebrale che quasi sfocia nel criptico con molti segni e innumerevoli riferimenti che è complicato cogliere nella loro totalità. Quasi una caccia al tesoro che, se fosse stata più chiara, avrebbe reso più fluida e fruibile la comprensione armonica, il senso compiuto generale. Perché questi quadri sono sì espressioni singole ed individuali ma, viste in un'ottica di corpo complessivo, hanno molto da dire se prese nel loro insieme acquistando respiro ed ampliando la riflessione. Troppe stesure del testo, rimaneggiato più volte causa stop and go continui, hanno creato sovrapposizioni come una sorta di scorza indurita dove l'autore (e gli autori-attori e le loro improvvisazioni sul tema) ha dato molte informazioni per scontato creando quel mistero (giusto, l'arte non deve essere tutta lampante) che a volte (alcuni quadri sono venuti meglio di altri) è scivolato nel nebuloso. Ci sono tantissime sfumature che si perdono, infiniti particolari che vengono miscelati (ed è un peccato), dettagli dissipati o soltanto non valorizzati come avrebbero potuto.

Ma Decameron_2_foto Alessandro Saletta.jpgandiamo per ordine: lo spettacolo inizia con alcune scritte che appaiono sul fondale; qui si racconta (vicenda vera) che a New York è stato posizionato, il 19 settembre 2020, un orologio con un conto alla rovescia che, secondo svariati calcoli di scienziati ambientalisti, terminerà tra 7 anni, ovvero il momento del disastro ambientale, il punto di non ritorno, la catastrofe. Un'informazione fuorviante che ci porta dentro l'ecologismo e la fine del mondo, dentro le dinamiche e le meccaniche che l'uomo ha perpetrato ai danni della Natura e quindi di se stesso. Poi arrivano le dieci scene (e non sette come gli anni dal 2020 al tracollo) del Decameron contemporaneo che invece ci portano dentro la pandemia e dentro la ricerca della salvezza (nel 1300 era dalla peste, oggi dal Covid) che l'Uomo ha messo in atto per difendersi dal virus. Quindi se da una parte parliamo di un processo ormai inevitabile che ci condurrà alla morte e all'estinzione, dall'altra, in maniera diametralmente opposta, si racconta dell'uomo che sta facendo di tutto, mettendo in campo anche l'autoisolamento, per salvarsi. Delle due l'una: o ci concentriamo sulla distruzione in atto (stiamo andando su un treno impazzito a velocità folle e senza guidatore) oppure sulla possibilità di frenare, fermarci, ripensare al mondo, al nostro stile di vita. A meno che non si colleghi il virus alla deforestazione, alla cementificazione e all'innalzamento della temperatura globale, ma qui si entra in un altro terreno ancora molto complesso. Il pubblico è giusto che “lavori”, che non stia in poltrona aspettando l'imbeccata didascalica ma in questo modo, ripeto molto concettuale (la pasta c'è) spesso il ragionamento diventa macchinoso e faticoso. L'orologio iniziale poi non verrà più nominato e allora ci siamo chiesti perché tirarlo in ballo.

I personaggi hanno i nomi di battesimo degli attori stessi, come a sottolineare una veridicità e un parallelismo con la realtà. Ogni quadro in fase di produzione è stata una scelta personale di Decameron_3_foto Alessandro Saletta.jpgogni singolo attore che ha trattato e declinato la materia, portando sue suggestioni e idee al pensiero. Ne esce un affresco frammentario, a sprazzi e flash, con alcuni momenti più toccanti o godibili da portarsi a casa o tenere in memoria.  I titoli dei vari capitoli avrebbero dovuto essere più espliciti: di solito un titolo spiega qual è l'argomento che la narrazione, sviluppandosi, tratterà. Qui invece siamo di fronte a continui spostamenti di senso e slittamenti semantici. La regia di Cordella (periodo fitto di impegni questo per lui con il debutto tra pochi giorni di “Oblomov” al festival “Inequilibrio” a Castiglioncello con gli Oyes e “La rivolta dei brutti” il 22 luglio sempre al Litta) gioca sui cambi di luce, su questo andamento armonico cercando di far passare l'idea di un progressivo allontanamento delle proprie quattro mura da parte dell'uomo, idea interessantissima che però non si riesce a cogliere fino in fondo.

Si Decameron_foto Alessandro Saletta.jpgparte dai “Dati”, che è l'inserto numero uno, l'orologio fuorviante, e una festa dove non c'è niente da festeggiare, proseguendo con “Intrattenimento”, un conduttore aggressivo di un talk show surreale, arriva “Contatto” dialogo dadaista tra una ragazza e un rider, appunto senza alcun contatto, ormai impauriti dall'altro, il quarto è “Rivoluzione”, un uomo in cerca di spiegazioni e soluzioni e un cartomante, “Controllo” (uno dei più riusciti) dialogo tra un'intelligenza artificiale che governa un bagno pubblico e una ragazza (Silvia Valsesia convincente) che era chiusa lì dentro in cerca di un po' di sollievo e pace, “Confini” (altro quadro up) che è un pezzo ritmato (il sound design è di Gianluca Agostini) che pare un hip hop potente che ci porta nelle periferie (Daniele Turconi in grande forma e sugli scudi), il settimo “Estinzione” con una coppia ingaggiata da un regista invadente per mettere in piedi un film hard-core per far eccitare e conseguentemente riprodurre i panda (divertente, con Woody Neri e Silvia Valsesia di fronte a Nicolò Valandro e Alice Redini, tutti in palla e ben affiatati). Se all'inizio veniva fornita l'indicazione dei sette anni da qui all'estinzione e chiamandosi proprio così il settimo capitolo pensavamo che la piece volgesse al termine, arrivando appunto alla sua naturale conclusione. Invece si susseguono altre tre sezioni: “Preghiera”, “Domani” e “Nostalgia”, ma dopo l'estinzione chi è che pregherà, aspetterà il domani e ne avrà nostalgia?

Le luci catartiche (di Fulvio Melli) svolgono un'importante funzione in un crescendo psichedelico, passando dal viola all'arancione, dal grigio al rosso acceso, dal verde al rosa tenue fino a sciogliersi in un bianco pallido. La sensazione è quella di un'Ultima Cena mixata con Lost, una reclusione volontaria che, dopo dieci giorni di segregazione, non ci ha resi migliori in un cortocircuito in loop gattopardesco. “Andrà tutto bene” era soltanto uno slogan da balcone. Sulle terrazze è meglio metterci i gerani.

Tommaso Chimenti 24/06/2021

Foto: Alessandro Saletta

MILANO – “Riferiscono le cronache che quando è giunta in tribunale la notizia dell'assassinio di Walter Tobagi, il brigatista Corrado Alunni l'ha accolta con una sghignazzata di tripudio. Abbiamo sempre combattuto la pena di morte sul presupposto che l'uomo non ha il diritto di uccidere l'uomo. Il presupposto lo confermiamo. Ciò di cui cominciamo a dubitare è che gli Alunni e quelli come lui siano uomini. Sui cadaveri sghignazzano le iene” (Indro Montanelli).LIFE 17.jpg

Sono passati cinquant'anni dai cosiddetti “anni di piombo”, dalle stagioni del terrorismo che hanno infangato e impaurito l'Italia, ma è ancora difficile parlarne, complicato non giudicare, non schierarsi, impossibile rimanere, per chi li ha vissuti, impassibile e neutrale. Li abbiamo voluti rimuovere con l'euforia degli anni '80, la musica dance, gli elettrodomestici presi a rate del boom economico, i Campionati del Mondo di Pertini. Non ci siamo riusciti. I '70 stanno ancora lì imperterriti, impettiti, ognuno con le sue ragioni mentre il mondo intorno è cambiato, rivoltato, mutato, sventrato e quelle teorie e dogmi ci sembrano oggi così assurdi, così lontani, così distanti da poter essere capiti fino in fondo. Che cosa spingeva un giovane universitario a seguire l'influsso dei Cattivi Maestri, cosa portava un operaio ad abbracciare la lotta armata? Prendere una pistola e fare occhio per occhio, dente per dente?

E' per questo che l'operazione di Emiliano Brioschi (suoi testo e regia) risulta complessa e sfaccettata, dinamica e senza soluzioni: “Life”, un titolo di speranza, positivo, vita, una parola che sembra rifulgere, splendere, un termine che si getta a capofitto nel futuro. Invece, simbolicamente e ossimoricamente e paradossalmente, la sua scrittura parla costantemente di morte mettendo di fronte (anzi di lato senza mai guardarsi o sfiorarsi né toccarsi, storie parallele che non si incontreranno nemmeno all'infinito), a confronto il carcere di Ulrike Meinhof (interpretata da Cinzia Spanò, sempre dentro le parole), terrorista tedesca, con la prigionia di Roberto Peci, giustiziato dalle Brigate Rosse dopo 54 giorni (come Aldo Moro, raLIFE 2.jpgccontato così bene da Daniele Timpano in “Aldo Morto”) di processo proletario illegittimo. Il campo è e resta scivoloso.

Un lavoro raffinato e diretto, schietto, che non cade mai nel banale, che non cede al sentimentalismo, duro in molti passaggi, violento, essenziale. Un lavoro nato dentro i giorni del lockdown: è proprio questo il tema che fa da sfondo a quegli anni, a quelle tensioni. La segregazione, la costrizione fisica, la prima (morta suicida nel '79) per mano dello Stato tedesco dopo aver perpetrato omicidi e altri reati gravi, il secondo, innocente, ucciso (nell'81 dalle BR) solo perché fratello del brigatista pentito Patrizio. Già nel mettere in parallelo queste due storie Brioschi ha dimostrato coraggio artistico, riabilitando la figura di Peci che per molti decenni è stato considerato un terrorista senza avere invece alcuna colpa, e dall'altro umanizzando (troppo) la figura della Meinhof che tribunali e leggi tedesche stavano facendo marcire in galera. Ecco è in questa parte, la più corposa mentre Peci-Brioschi rimane incappucciato e silente (parla per lui un video rimontato uguale alle riprese che le BR effettuarono processandolo), che abbiamo sentito uno stridore quasi di apologia non tanto delle gesta criminose quanto degli ideali professati e una critica forte, decisa, netta, energica allo Stato “fascista” che chiude, segrega, umilia, schiavizza, priva i cittadini anche se colpevoli. “Il riciclaggio presuppone che il danaro provenga dal delitto. E' sporco per la sua provenienza. Nel terrorismo è sporco per la sua finalità” (Pierluigi Vigna, magistrato).

Frasi come “Il suicido è l'ultimo atto di ribellione”, “Appropriatevi di ciò che vi è negato”, “Bisogna incendiare tutto”, “Intaccare la società dei consumi, distruggere i centri commerciali” non creano nessuna empatia per il personaggio e certamente non ce l'ha umanizzata. “Poliziotti e agenti in divisa sono bestie” e ancora “Il male è il prezzo della libertà” fanno sobbalzare sulla poltroncina dell'Elfo milanese, fanno alzare le difese, fanno sobbollire di rabbia. Questi invasati e fanatici, questi folli razionali, deviati, imbevuti e radicalizzati hanno sparso odio e morte e se decidi coscientemente e consapevolmente di fare del male lo Stato, ovvero le regole condivise di un popolo e di una Nazione, ha il potere di toglierti i diritti personali. Se Peci è tratteggiato come un innocente schiacciato negli ingranaggi di un gioco molto più grande del singolo, per quanto riguarda la Meinhof si sente un minimo, non di giustificazione, ma almeno di comprensione, di vicinanza se non di ammirazione per la fierezza e la forza, l'abnegazione e la barra sempre dritta senza piegarsi, senza pentirsi. Sono l'uno la faccia doppia di quegli anni quando qualcuno si arrogava il diritto di essere giudice super partes o di perseguire la violenza sociale e la guerriglia civile per il bene del Popolo senza che quest'ultimo fosse stato messo al corrente, senza che avesse avuto modo di esprimere le proprie idee, personaggi che si erano autoproclamati, autoesaltati, autoinneggiati.LIFE 18.jpgIl terrorismo prosperò grazie a chi diceva: compagni che sbagliano” (Gianni Oliva, storico).

Un testo (e una tesi di fondo) e una messinscena dolorosi e rigorosi quelli di Brioschi, intellettuale prestato al teatro, che crea discussione e divisioni, che fa nascere il dibattito, che ci riporta dentro quei fatti sui quali abbiamo operato rimozioni psicologiche salvifiche. Soffriamo, anche fisicamente, per il cappuccio nero asfissiante, e respiriamo a fatica con lui sperando nel perdono che sappiamo con certezza che non arriverà. Spanò e Brioschi sono credibili e le storie che riportano in superficie sono importanti da strappare all'oblio. Il terrorismo è stata una pagina fosca e buia di persone che giocavano a fare la guerra sulle spalle delle vite della gente comune, perpetrando una lotta destinata inevitabilmente alla sconfitta. Forse LIFE 25.jpgerano soltanto ambiziosi di potere, riempiendosi la bocca di slogan come “Potere al popolo” quando del popolo non avevano una grande opinione (patriarcalmente lo volevano istruire e instradare), volevano soltanto arbitrariamente, e non come avviene in un processo democratico, sostituirsi al potere costituito: “Volevamo che il popolo ci seguisse, poi ci siamo voltati e non c'era nessuno dietro di noi”. “Uccisi perché? Per il sogno di un gruppo di esaltati che giocavano a fare la rivoluzione, si illudevano d'essere spiriti eletti, anime belle votate a una nobile utopia senza rendersi conto che i veri “figli del popolo”, come li chiamava Pasolini, stavano dall'altra parte, erano i bersagli della loro stupida follia” (Mario Calabresi).

Se parliamo dell'estrema sinistra, sui 4.000 inquisiti (1.300 solo nelle BR) per reati collegati a gruppi terroristi italiani, sono in carcere soltanto ventuno reduci degli anni di piombo, undici irriducibili con l'ergastolo ma che non hanno mai chiesto la possibilità d'uscire, che dopo ventisei anni consecutivi di detenzione sarebbe stata concessa. La maggior parte è stata scarcerata e adesso sono liberi, molti sono diventati scrittori o opinionisti politici chiamati da giornali o tv compiacenti. Ma davvero ne valeva la pena? Da far vedere agli studenti delle scuole. “Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo” (Fernando Aramburu, scrittore basco).

Tommaso Chimenti  22/06/2021

CAGLIARI – Ci sono muri che raccontano a distanza di anni, pareti che a sfiorarle, polpastrelli a raschiare l'intonaco narrano di voci, di volti, di sguardi, di corpi persi nel tempo, di rughe e fatica, di mani e sudore. “Se queste mura potessero parlare” non è soltanto un modo di dire, una frase fatta che qui acquista verità. Se gli oggetti, le cose le trattiamo come qualcosa di inanimato sono e resteranno materia senz'anima, bidimensionali, se invece ci mettiamo in ascolto, petto e testa aperti, allora li sentiremo sussurrare, li sentiremo respirare, prenderanno forma e vita, avranno la terza dimensione, la profondità, avranno carattere e forza, restituiranno tutto quello che hanno contenuto, l'atmosfera, la luce, anche il dolore.Adriana Monteverde, intrepreta la sigaraia.jpeg

E' una grande operazione culturale quella messa in piedi dal regista Karim Galici e dalla sua compagnia Impatto Teatro con questo “Cosa rimane?”, mossa di restituzione di un luogo chiuso e vietato per troppo tempo alla cittadinanza e che adesso torna ad essere aperto, per conoscere la storia di questa città nella città. “Sa Manifattura”, la manifattura tabacchi del Monopolio di Stato, era una delle ventuno sparse in Italia dove si producevano sigarette e sigari di ogni tipo. Adesso ne rimangono attive soltanto tre e in mano a privati (Chiaravalle, Lucca, Cava dei Tirreni) ma il mercato si è spostato e il Monopolio importa i tabacchi dall'estero.

Le manifatture in Italia davano lavoro complessivamente a 4.000 dipendenti, ed erano a Lucca, Firenze, Rovereto, Bologna, Modena, Milano, Torino, Verona, Lecce, Bari, Catania, Cagliari, Chiaravalle, Venezia, Roma, Santa Maria Capua Vetere, Palermo, Napoli, Cava de' Tirreni, Scafati, Città Sant'Angelo, Perugia, Casalina di Deruta, Sestri Ponente. Quella di Cagliari era una fabbrica, con 300 tra operai e impiegati, aperta agli inizi del Novecento e chiusa definitivamente nel 2001. Un'azienda che ha dentro di sé, come una matrioska, una metafora, tante storie, più o meno piccole, sociologiche, storiche, antropologiche, lavorative, sindacali, esistenziali. Dove ti volti li senti quei volti antichi in bianco e nero che si accalcano per guardarti, per descriverti, per riuscire a passarti un po' di quel refolo di fiato che è stato, di quell'ansimo, di quel (g)orgoglio che qui si è alimentato, è cresciuto, è vissuto.

E adesso Cosa Rimane.jpg“Cosa rimane?” (prod. Impatto Teatro con Sardegna Ricerche e contributo di Fondazione di Sardegna) si è chiesto Galici che ha fondato tutta la sua carriera sulla scelta poetica e politica di creare teatro in spazi non convenzionali (dai centri storici agli orti botanici, castelli o villaggi nuragici) ma non soltanto per rifuggire al “teatro” e alle sue regole ma proprio per costruire una narrazione territoriale che prendesse spunto dal contesto e su quello fondasse la sua drammaturgia. Per Galici il testo è, deve essere, assolutamente interconnesso al luogo, che non è solo fondale ma che anzi è un vero e proprio corpo e personaggio, ruolo centrale e fondamentale. La dicitura site specific non è soltanto proporre teatro in un luogo ma le parole devono necessariamente essere intrecciate a quel particolare spazio fisico. E' per questo che i suoi spettacoli (chiamarle esperienze è meglio) non sono per così dire trasportabili né in altri luoghi né limitabili ad un palcoscenico. L'essere itinerante, come un viaggio dentro gli argomenti e i temi per meglio comprenderli (interattivamente, didatticamente attraverso la parola raccolta, le interviste, l'accumulo di materiali, le ricerche negli archivi), il pubblico numericamente limitato per ogni replica, il camminare tentando così un avvicinamento alla verità fanno del teatro di Impatto (formazione fondata agli inizi del 2000 a Roma e poi trasferitasi a Cagliari) una scoperta continua, un'epifania, scavando in un passato recente dal quale, fisicamente, si è voluta lasciare la città e i suoi abitanti ignari. Ben vengano queste prese di posizione artistiche che aprono i cancelli, che forzano i lucchetti, che spalancano le porte, che la memoria deve circolare, che i racconti devono fluire, per non perdere nell'oblio del tempo, che tutto appiccica come marmellata e schiaccia come pressa, questi nomi antichi, queste vite, questi soffi di esistenze comuni, che non hanno fatto la Storia (intesa come eventi eccezionali) ma hanno dentro infinite storie di lavoro, di sfruttamento, di diritti tutti da conquistare, di rispetto, di cambiamenti Le sigaraie.jpegepocali, di lotta, di rivolte, di emancipazione femminile.

Due anni il tempo per mettere insieme tutto il materiale occorso per questa full immersion dentro le stanze della Manifattura che diventano set e quadri e dove gli attori sono mischiati con i non-attori, o meglio i veri protagonisti delle vicende narrate, ex lavoratori che hanno toccato con le loro mani, che hanno visto con i loro occhi. Altro aspetto essenziale e primario delle ispirazioni di Galici è senz'altro anche il teatro sensoriale che lo avvicina a gruppi come il Teatro de los sentidos di Enrique Vargas: l'odore del tabacco come quello del caffè, o il bendare i partecipanti esaltano, amplificano, rendono lo spettatore attivo e in prima linea, creano un filo trasognante che sottolinea e scorre sotto pelle, che si tatua nella mente degli intervenuti. Si crea alchimia ed empatia. Accompagnati dal nostro Caronte-Virgilio (Adriana Monteverde “la Sigaraia”, chi faceva i sigari erano soltanto le donne per via della delicatezza delle mani: “Questa è e resta casa mia!”) entriamo in punta di piedi in questo mondo sconosciuto, dentro la pancia di questo mostro gigantesco, una vera cittadella che nei secoli era stata convento francescano e fortezza. Il buio, rischiarato da fiaccole a terra, gioca un ruolo fondamentale di ombre che ingigantiscono aumentando attesa e suspense. Come carbonari avanziamo e in ogni cortile o stanzone ci accoglie un pezzo vivente, un performer che rievoca, ci riporta in quegli anni, spiriti riesumati, anime che traboccano di voglia di comunicare cos'era quel luogo, chi lo abitava e viveva e come si svolgeva l'attività, i rapporti di lavoro e di forza, le regole fasciste, le relazioni, le malattie per il continuo respirare la polvere e il truciolato, gli infortuni sul lavoro, l'asilo dei neonati, il lavoro a cottimo e le balie-nutrici.

Passiamo Monica Zuncheddu nei panni di Cuccu la sindacalista.jpegdalla “Sindacalista” (Monica Zuncheddu, grande forza: “La manifattura è nostra”) dove tutti insieme brindiamo, dopo la sua arringa incendiata, con un vino corposo prodotto dallo stesso regista, un nettare liquoroso che scalda. Ma ci sono anche inserti non attoriali, persone che hanno lavorato realmente all'interno della manifattura e che hanno deciso di raccontarla direttamente con le loro parole, mettendoci la faccia; come Giuseppe Martini, “l'infermiere” che ha perso la vista (e che bendandoci tutti ci ha permesso di sentire quello che sentito lui lì dentro orientandosi soltanto con i rumori delle varie stanze per capire che percorso fare all'interno della fabbrica) o Emidio Porru “l'operaio”. Onirico invece l'intervento di Andres Gutierrez che, spuntato da sotto un cumulo di foglie, ha impersonato lo spirito guida del tabacco tra candele e riti che diventa pifferaio magico. Le loro memorie sono toccanti e ci parlano di soprusi, di mancanza di equità, di battagliare. Non solo narrazione però, perché ci sono coreografie e balli e canti ma anche proiezioni che ci riportano alla vita all'interno della fabbrica che diveniva totalizzante: qui c'era la chiesa e le feste, qui c'era il cinema-teatro, la socialità, qui ci si sposava e si trovava marito o moglie: si entrava giovani e se ne usciva vecchi. La fabbrica non era soltanto un lavoro: “Non siamo bulloni come vogliono farci credere”.

Quella di Karim Galici non è un'operazione nostalgia ma è un restituire uno spaccato che altrimenti (questo è il potere dell'arte e del teatro) si sarebbe perduto con la morte anagrafica dei suoi protagonisti. Sarebbero importanti altre esperienze del genere perché, frase abusata ma vera, senza passato non può esserci futuro, per una comunità, per una nazione, per un Paese. Per questo, oltre allo spettacolo teatrale, sarà realizzato un film documentario per poter raggiungere tutte quelle persone che non hanno potuto, soprattutto le scuole, seguire il progetto in presenza (tutte le repliche sono andate sold out, tanta era l'attesa in città). “Cosa rimane?” Adesso potremo rispondere che resterà questa esperienza-spettacolo per contrastare il silenzio, la dimenticanza, l'omertà, la trascuratezza, la negligenza. La Manifattura adesso è di tutta Cagliari.

Tommaso Chimenti 21/06/2021

BOLOGNA – Sembra uno spettacolo progettato ad hoc per il post pandemia questo nuovo “Il Labirinto” a cura del Teatro dell'Argine. Il distanziamento è assoluto e radicale, siamo soli in una grande stanza, anzi un'aula di una scuola bolognese (Istituto Aldini Valeriani; in un'altra ala si stanno svolgendo gli esami di maturità), la visione è singolare, autonoma e solitaria. Invece questa discesa agli Inferi (potremmo trovare anche un parallelismo con quest'annata dedicata a Dante, scendendo tra i gironi dell'Umanità) era stata concepita nel 2019 e poi saltata e rimandata causa Covid. g0azBd8A.jpegE' un reale viaggio dentro una vera e propria Via Crucis con le sue quattordici stazioni, quattordici come i giovani, sette ragazze e sette ragazzi, che venivano annualmente dati in pasto al Minotauro, lo stesso numero di storie, reali, estrapolate da interviste per portare a galla situazioni di penombra, degrado, margine, discrimine, disagio, violenza, periferia, miseria, abbandono. Un viaggio (trip in inglese rende meglio l'idea con la sua accezione psichedelica) dentro antri e budelli, angoli nascosti e curve cieche dell'anima, buchi neri, anfratti maleodoranti.

Con i visori sugli occhi ci si manifesta un mondo altro fatto di corridoi e cunicoli, di mattoni rossi e cancelli e storie tutte da seguire con il fiato sospeso, il groppo in gola, l'ansia crescente per un'ora di pura concentrazione, ai dettagli, alle parole, alle storie drammatiche e pesanti che non possono lasciare indifferenti. Un viaggio che dà anche la nausea, il mal di mare, la labirintite appunto perché sposta l'asse di riferimento, fa barcollare il baricentro, scuote i sensi. Camminiamo dentro questi gangli cercando la via d'uscita come la salvezza ma non arriverà né la prima né tanto meno la seconda. Saremo sconfitti e senza armi, senza possibilità di riscatto e impotenti davanti a queste storie di ordinaria follia perpetrata dagli adulti ai danni dei più piccoli indifesi, dalla società verso le nuove generazioni, narrazioni di sfruttamento, di vessazione, di accanimento, di frustrazione. E noi, con i nostri occhialoni, vaghiamo da una stanza virtuale all'altra, con un peso sempre maggiore da portarci dentro e addosso, una soma, un carico difficile da digerire e gestire. Perché l'impianto è da videogioco ma le tematiche fanno rabbrividire. Storie vere (scritte da Giacomo Armaroli, Nicola Bonazzi, Mattia De Luca, Giulia Franzaresi, Silvia Lamboglia) e dirette sapientemente da Andrea Paolucci che ha composto un lungometraggio dentro il quale siamo pedine naufraghe dentro gli incubi di ragazzi che hanno perso forzatamente l'innocenza, senza più sogni, che sono diventati cinici, che si sono creati per difesa una scorza per proteggersi dalle intemperie dell'esistenza.

Il 202436422_10215347171950920_3127507690544113872_n.jpgMinotauro, che esso siano gli adulti o la società del consumo, ha sempre bisogno di infornate di carne fresca, e perdersi è facilissimo tra mondi paralleli e realtà offuscate, il dio denaro e questa voglia di crescere che tira da una parte e dall'altra la paura e il terrore del diventare grandi. Appena entriamo ci appare, tra stupore meraviglia e ansia, una bambina in una visione che ci porta dritti a “Shining”; la seguiamo, ci scorta, ci conduce, ci fa strada dietro angoli, ci fa salire in questa ascensore per l'Inferno (“Angel Heart” di Alan Parker) dove, sempre virtualmente, veniamo molestati da un altro ospite, grande e grosso. E' il benvenuto, il welcome per farci capire dove siamo finiti e quale sarà il climax. L'agitazione sale. Ci muoviamo in questa aula (reale stavolta) seguiti e aiutati da una “maschera” ma per un'ora il nostro intorno è soltanto questo dedalo (per tornare al Mito di Creta) di viuzze e stradine tortuose che ci aprono epifanie che non vorremmo vedere né sentire. Questi ragazzi che appaiono ci fanno entrare nella loro quotidianità fatta di prostituzione minorile, di hikikomori che si chiudono nella propria stanza senza uscirne più, di autolesionismo, di baby gang che commettono reati che riusciranno a comprendere dopo molti anni, di madri che “vendono” le figlie, di bullismo prima subito e poi rimesso in atto in un cortocircuito che non ammette stop, di bambini migranti non accompagnati che si perdono tra burocrazie e numeri fino a scomparire dai radar, di serate alcoliche solo per sentirsi grandi o per annullarsi o soltanto per postare queste bravate sui social, di storie di depressione.

e3L'Argine dimostra ancora una volta la sua vocazione per il teatro civile e impegnato da una parte e dall'altra di grande apertura e DZdkFRA.jpegvicinanza verso le nuove generazioni non tanto, come dice qualcuno, perché saranno il prossimo pubblico teatrale ma perché saranno i cittadini di domani, anche se non andranno mai all'ITC di San Lazzaro a sedersi in platea. Un'ora di immersione non in un mondo così lontano e distante, non negli Inferi, non in una realtà sotterranea; e in questo la scena finale è emblematica, palese e crudele, lampante e brutale: spesso siamo ciechi e sordi, indifferenti che guardano ma non vedono, per mancanza di empatia o proprio per difesa del nostro piccolo orto, davanti al disagio che ci circonda e facciamo finta di niente, e tiriamo avanti. Se consideriamo gli altri come numero o come folla indistinta non aspettiamoci amore, solidarietà, aiuto: siamo anche noi, ai loro occhi, una moltitudine indefinita che cammina, ci occlude la vista e che come arriva se ne andrà, senza lasciare traccia, senza nome, corpi da attraversare. Il Labirinto è dentro di noi e in esso ci perdiamo ogni volta che non tendiamo una mano a quel bambino che potevamo essere noi.

MFfCtEHA.jpegUna vera e propria esperienza invasiva che ci tocca (anche se non possiamo toccare niente essendo tutti gli oggetti che incontriamo fittizi e irreali), che ci tange dentro, ci scardina, ci sposta, che non ci fa stare né tranquilli né nella nostra comfort zone al riparo dal brutto, dal tragico, dal marcio. Qui ti devi mettere in gioco anche se è un gioco al massacro, un gioco dark, un gioco noir dove non riusciremo a “riveder le stelle” se questi ragazzi (come tanti altri là fuori) in loop continueranno ad essere usati e abusati, violentati e derisi, certamente tarpati, annullati, cancellati. Il Minotauro siamo noi, ognuno di noi che permette e avalla questi comportamenti e atteggiamenti, che si gira dall'altra parte, immersi nel menefreghismo, nel pressappochismo, nel mors tua vita mea. Al massimo ci scandalizziamo o ci possiamo indignare. Tutt'al più possiamo mettere un like, un pollice su o un cuore sotto ad un post che racconta barbarie e malvagità. E' il massimo che il Minotauro, per non farsi scoprire (nemmeno a se stesso) può fare. Intanto il gioco delle vergini deve andare avanti: ci vuole sempre nuovo carbone per pompare e alimentare la fornace del consumismo.

Tommaso Chimenti 18/06/2021

PERUGIA – “Per me recitare è la via più logica per far sì che le persone manifestino le proprie nevrosi, e in questo bisogno tutti noi esprimiamo noi stessi” (James Dean).

Se da una parte è sempre complicato trasporre un'opera filmica sulle tavole del palcoscenico, dall'altra è ancora più arduo attuare questo slittamento se il regista cinematografico corrisponde al nome di Ingmar Bergman. Tante le componenti psicologiche, i sottotesti, i non detti, gli sguardi, i chiaroscuri, i silenzi per poter ricreare una fedele trasposizione. E, dopotutto, non hanno mai molto senso le pellicole che vengono ricreate, per il gusto di un pubblico feticista e conservatore e consuetudinario e per i desideri di registi pigri, su un palco, passaggi identici dalla celluloide a fondali e Biselli.jpgboccascena per ritrovare in maniera consolatoria il già visto, il già esperito. Affrontare e tratteggiare Bergman, con i suoi cumuli stratificati di macerie e analisi interiore e chili di inchiostro versati per sviscerarli e sezionare scene e inquadrature, potrebbe sembrare pericoloso, presuntuoso, sicuramente scivoloso, indubbiamente coraggioso. L'ultimo aggettivo è quello che più si avvicina alla natura del regista, e attore, Roberto Biselli che dal '95, con il suo Teatro di Sacco, gestisce lo spazio Sala Cutu (una sessantina di posti a sedere, una chicca) accanto alla chiesa di San Domenico e al chiostro del Museo Archeologico. Dopo essere entrati all'interno del grande cancello un giardino-isola ci accoglie, siamo protetti dentro questo piccolo borgo, queste mura antiche che ci ovattano dal caldo, dai rumori della città, un rione di pace. Siamo dentro una parentesi verde.

E Biselli, grazie anche all'apporto delle due attrici, Giulia Trippetta e Diletta Masetti (entrambe under 35 e umbre), ha operato scelte nette nell'affrontare “Persona”, film del '66, trasformandolo in “Persona_21”, non tanto rendendolo contemporaneo (quel 21 ce lo fa sentire vicino temporalmente) ma miscelando la pellicola in bianco e nero con inserti autobiografici provenienti dalla messa in gioco delle due professioniste in scena. 200293870_10226086435853248_8806356727677607675_n.jpgAl posto dell'infermiera Alma e dell'attrice Elisabeth, qui abbiamo Diletta Masetti che impersona un'attrice (che incidentalmente si chiama anch'essa Diletta) che dopo una recita dell'“Elettra” si è chiusa nel mutismo, e Giulia Trippetta l'infermiera (che si chiama Giulia) che le sta accanto in questi mesi di silenzio volontario. La griglia e lo scheletro e il telaio sono assolutamente quelli di “Persona” ma l'intento e l'intenzione è stato quello di creare uno scarto ulteriore, uno step successivo andando appunto all'interno del film (a 55 anni dalla sua uscita) e cercare legami, appartenenze, vicinanze, consonanze, parallelismi con l'oggi. Ripetiamo lavoro difficile e scelta coraggiosa.

La situazione ricreata è naturalistica, di tavoli, sedie e letto ma il lavoro di cesello e pulitura e tagli che stanno dietro è imponente e importante. Se però cerchiamo e ci soffermiamo sulla tesi che sta alla base dell'opera cinematografica sulla disputa tra il vero e il falso perdiamo l'ottica del tutto, il respiro velato che staziona sopra e dentro questo “Persona”. Il tema centrale appare essere lo scontro concettuale tra il maschile e il femminile dove quest'ultimo carattere è rappresentato dal trittico attrice, il lato artistico, infermiera, l'ascolto, la psichiatra (sempre la Masetti, doppio ruolo per lei), la competenza scientifica, la razionalità, mentre gli unici due uomini che vengono evocati (nella pellicola appaiono, qui a teatro soltanto enunciati ed evocati) sono il figlio abbandonato dell'attrice e il marito (nell'opera teatrale addirittura sostituito dalla scena dell'abito “trafugato”) della stessa che, quando sul finale andrà a trovare la moglie, si sbaglierà e bacerà e abbraccerà l'infermiera tanto è stato forte il transfert psicologico (e psicosomatico) attuato tra le due donne tra confessioni e scambi emotivi se non addirittura saffici. Uomini deboli in mezzo ad un mondo popolato soltanto di donne che non hanno più bisogno del maschio.

All'interno della sceneggiatura del regista svedese molto ingombrante era, a nostro avviso, anche il sub-argomento della gravidanza, Diletta Masetti.jpga cascata all'interno del “femminile”: l'attrice ha avuto una gravidanza indesiderata portata a compimento, l'infermiera invece ha abortito dopo essere rimasta incinta durante un'orgia tradendo il partner sterile. In questo “Persona_21” Biselli decide di omettere o non sottolineare questi particolari centrali per la comprensione del dramma. Sta di fatto che una materia tanto rovente è stata declinata con impeto robusto e corazza dalle due attrici: la Masetti, dentro la sua comfort zone artistica impostata (attrice altera e psichiatra compunta), si incastra alla perfezione con la Trippetta (vista sempre in ruoli brillanti) che qui riesce a tirar fuori la sua vis, il suo slancio drammatico creando una bella amalgama, un connubio felice tra due ruoli e due modalità interpretative che diventano funzionali ma non asettiche, ingranaggi di una meccanica ben oliata dove i sentimenti scivolano, si ungono di sensi di colpa, segreti, misteri. Due facce della stessa medaglia in questo dialogo (a ben vedere monologo), in questa resa dei conti fatta di dipendenza e allontanamenti dal “piacere crudele”, dove è la retorica a farla da padrone. “Persona_21” è un notturno grave di Trippetta.jpgChopin, è il ticchettio dei tasti di Satie, è la lentezza evocativa di Keith Jarrett. E' anche un lavoro sul senso dell'attore, sull'essere attore, sul senso della finzione, della recitazione, del non essere mai pienamente se stessi in questa società che ci vuole sempre dentro schemi preordinati e statici. E' una riflessione sul doppio e sulle nostre (benedette) contraddizioni che nell'età adulta vengono tarpate: “Cosa succede a tutte le cose che una persona voleva fare?”.

Ci ha convinto, creando uno scarto personale rispetto al film, l'incipit al tavolino mentre le due attrici, interpretando se stesse (ma tutta la piece è come se fosse una sorta di prova aperta, di teatro nel teatro), parlando appunto della pellicola, mentre ci sembra che non aggiunga nessuna ulteriore visione né suggestione il finale, quando le due attrici lasciano il “corpo” delle figure rappresentate tornando ad essere se stesse e intavolando una discussione animata che non ha la forza per rendersi credibile in questa uscita dalla finzione del teatro. In definitiva però non dobbiamo cercare verosimiglianze tra la bobina e il palcoscenico (tecnica da voyeur artistico pignolo che poco apporta alla discussione e al dialogo) ma solamente coglierne e respirane l'essenza, l'attualità della riflessione che ancora oggi, va in profondità, mira agli abissi dell'animo umano, scardina, pesca nel sottobosco torbido di tutto ciò che nascondiamo sotto il tappeto, sotto la pelle, tra le intercapedini del lecito e dell'accettato socialmente mentre in realtà siamo sfaccettati e mai un solo coerente corpo.

“La recitazione non è poi così importante nell'ordine generale delle cose. L'idraulica invece lo è” (Spencer Tracy).

“Non mi sono ritirata, semplicemente non accetto più ruoli” (Jamie Lee Curtis).

Tommaso Chimenti 16/06/2021

MILANO – In teatro, di solito, ci trovi degli attori, a volte dei danzatori, altre dei performer. Insomma qualcuno di vivo (si chiama infatti “spettacolo dal vivo”) che si muove, si agita, sta perlomeno, a tratti parla. Ma come fa una cosa ad essere viva (cosa e viva nella stessa frase solitamente stonano, qui no) se non è agita da nessun essere umano? Se sul palco proprio, come un Aspettando Godot, aspettiamo che si palesi qualcuno ma alla fine senti che non è stato importante, che le emozioni sono passate anche attraverso un mezzo “freddo”, che la scossa è stata provocata senza alcuno sguardo, nessuna pausa teatrale, nessun nostro simile nel quale immedesimarsi. Come è possibile che uno schermo, che per sua stessa natura non può dire e quindi scrive, possa farci sentire piccoli e vicini, solidali e uniti, possa farci commuovere, a specchio, parlando alle nostre paure, raccontando la sospensione, nostra e sua dopo un anno e mezzo nel quale il teatro non è stato vissuto, non è stato usato, non è stato calpestato né respirato?foto (C) Laila Pozzo Bruno Fornasari-Tommaso Amadio.jpg

E' il teatro che ci parla, quello fisico, le mura, le poltrone, le americane, il palcoscenico, le funi, i microfoni, ma è anche il Teatro che ci parla, l'istituzione e la cultura, e tutto quello che qui dentro (e dentro tutti i luoghi dove si possa fare e vedere e ascoltare teatro; Peter Brook diceva che “metti un uomo al centro e altri intorno a guardarlo e quello è già teatro”) c'era e vuole tornare ad essere, si muoveva e che è rimasto incrostato per troppo tempo,Bruno Fornasari.jpg sospeso, impaurito, tentennante, come noi là fuori, anzi fuori dal teatro ma chiusi nei nostri loculi ad aspettare un'alba che veniva sempre rimandata. Si chiama “Nel frattempo” questa installazione particolare messa in piedi ed ideata da Tommaso Amadio e Bruno Fornasari che hanno architettato questa macchina che, in quarantacinque minuti, ci ha schiaffeggiato riportandoci alla mente quello che abbiamo passato, trascorso, (non) vissuto, eliminando la dinamica della rimozione dalle nostre memorie e scuotendoci ci ha detto: pensate, riflettete, non buttatevi alle spalle i traumi, soppesateli, teneteli, sciogliete i nodi.

Su quel palco vuoto non c'era nessuno e in definitiva c'eravamo tutti (ah, cosa importante: entrata gratuita, da sottolineare) con le nostre storie di sottrazione rispetto alle nostre vite precedenti. Chi eravamo? Chi siamo diventati? Dobbiamo farci i conti e non nascondere né la testa sotto la sabbia per non vedere né la polvere sotto il tappeto sperando così che tutto sia pulito e lindo.

E' il teatro che ci parla attraverso un deus ex machina, o la sua coscienza, che batte i tasti, è il teatro (in questo caso dei Filodrammatici milanese) che ci interroga cercando uno scambio, una interconnessione, un dialogo con gli umani a sedere sulle poltroncine rosse. E' il teatro che ripensa alla tv, che avrebbe voluto trasformarsi in pizzeria, oppure in night club, tutte scelte fallimentari proprio per la natura intrinseca e la volontà interiore di tutto questo pulviscolo che si sbatte e muove, questo insieme di battiti e di minuzie, questo agglomerato di cose impalpabili ed effimere come gli applausi o le lacrime, i brividi o i colpi al cuore, i pensieri o i sogni. Jouvet diceva: “Niente di più futile, di più falso, di più vano, niente di più necessario del teatro”.

Qui il teatro è uno di noi, è un organismo che ha sofferto, è un'anima che temeva di potersi perdere, il teatro è una forza consapevole e senziente che si apre a noi e si racconta nel suo momento più brutto, la chiusura, la clausura, l'abbandono, il deserto. I tasti battono su una tastiera immaginaria e si concretizzano e materializzano su questo schermo gigante che ci tiene incollati nel seguire i suoi meccanismi cerebrali, le sue intelligenti (a tratti ciniche) digressioni, le sue considerazioni mai banali di intelligenza artificiale con un cuore che pulsa anche senza sangue da pompare. Il teatro pompa emozioni da sempre. Sembra di avere davanti Kit, la macchina del telefilm adolescenziale Supercar, oppure il computer che decodificava il pensiero di Stephen Hawkings. Il teatro è una macchina che però ha pancia e testa, occhi e memoria, scheletro e tutti i sensi aperti per dare e ricevere in un continuo scambio osmotico che svuota e riempie come le onde della marea sulla battigia.NEL FRATTEMPO foto (C) Umberto Terruso.JPG

E' sarcastico quando questo Dio meccanico e terreno (ci conosce molto bene) ci dice che gli sono mancate anche le nostre piccole stoltezze e difetti e debolezze: le caramelle scartate, l'immancabile tosse o un cellulare che suona (e difatti, e non era una gag, dopo poco realmente ad uno spettatore è suonato il telefonino). Lui/Lei ci perdona, è come se ci desse un buffetto, ci spettinasse i capelli dall'alto come fa un padre, uno zio, un fratello maggiore salvandoci, comprendendoci indulgente, assolvendo le nostre piccolezze, stranezze, scempiaggini sceme. Siamo deboli e fragili e a volte anche stupidi ma il Teatro ci vuole bene lo stesso e non perché facciamo volume, non perché riempiamo il suo spazio ma perché sa chi siamo, sa che cosa nel (frat)tempo, in tutto il tempo di frequentazione assidua o scarsa che sia stata, ci siamo detti, ci siamo passati, contagiandoci a vicenda, contaminandoci con la malattia della curiosità, della cultura, del sapere, della conoscenza, del luccichio della volontà di spostare continuamente la nostra asticella personale. Il teatro, come noi, è stato solo, senza alcun contatto. Ci è mancato il teatro ma anche noi siamo mancati a Lui/Lei. Noi siamo indispensabili al teatro ma anche il teatro è indispensabile a noi, anche a quelli che non ci sono mai stati. Il teatro è un luogo di possibilità, di apertura, di dialogo, se rimane chiuso perdiamo tutti una grossa fetta di noi stessi, perdiamo il sogno, perdiamo il domani. Questo “Nel frattempo” è una dedica d'amore di Amadio/Fornasari al teatro, al futuro (forse anche al figlio di Bruno, Mattia nato da un mese), è una dedica agliunnamed (5).jpg spettatori, alle persone che hanno sofferto, è una dedica soffice che si è sciolta in un pianto collettivo e commosso alla fine perché su quel palco vuoto c'eravamo tutti. Forse i balconi erano i nostri personali teatri dove affacciarsi per sentire e prendere parole e visioni, erano la nostra finestra su un fuori immobile che ci stava tagliando le gambe e mangiando i nostri sonni.

La voce di Giuseppe Conte (sembrava una cosa lontanissima nel tempo e invece stiamo parlando soltanto di pochi mesi fa) è stata davvero un pugno allo stomaco, la sua voce e dietro l'imponente Piazza Duomo di Milano deserta, brulla, disabitata, spopolata, apocalittica, post atomica. In quel momento l'entità del Teatro che ci stava parlando/scrivendo ci ha detto non è stato un brutto sogno, ci ha preso per le spalle e ci ha abbracciato, ci ha detto piangi pure se vuoi, non cancellare questo tempo, non buttarlo alle spalle, non nasconderlo, altrimenti tornerà in maniera ancora più devastante, affronta il dolore senza negarlo, fatti attraversare dalle ferite che si rimargineranno più velocemente se le accoglierai come parte di te. Il teatro raccoglie storie e le mette in condivisione con un'autenticità che la vita di noi esseri umani spesso non ha. Senza teatro siamo tutti più poveri. Bentornato teatro, che le tue porte non si chiudano più.

“Il mondo è già abbastanza pieno di brutte frasi.
È pieno di frasi scritte da gente pigra per essere lette da gente che va di corsa.
Io non corro, sono qui e vi aspetto”.

Tommaso Chimenti 11/06/2021

Foto: Laila Pozzo, Umberto Terruso

MONTEVEGLIO – “La casa è il vostro corpo più grande. Vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni”. (Khalil Gibran)

Venire una volta l'anno su queste colline, tra queste pendici è un balsamo, un ricostituente, un correttivo alle nostre velocità, alle nostre piccole meschine competizioni, è unCasa Teatro delle Ariette.jpg toccasana che riequilibra cuore e testa, è un respiro profondo dopo tanta apnea. Qui i corpi non sono soltanto volumi da spostare per riempire i vuoti, ma sono occhi e mani e bocche, per ridere e parlarsi, qui non siamo numeri, non facciamo ingorghi o code. Le Ariette, inteso sia come il podere e che la compagnia (sono fuse in un unico concetto inscindibile), sono la magia delle piccole cose, il segreto filosofico è la semplicità, l'apertura al nuovo, il saper sempre sorprendersi, il sapersi dare sempre nuove possibilità, non chiudersi sul poco conosciuto ma spalancare le braccia oltre i “Muri” che ci chiudono, delimitano, sezionano, dividono, muri fuori e dentro di noi, fisici e materiali come metaforici e concettuali. Ci vuole tanta fatica per essere semplici, per ripulirsi del tanto, troppo, che questo mondo ci vuole appiccicare addosso: etichette, categorie, fazioni. In cinque alla volta davanti a Paola Berselli sentiamo ancora più il rito laico, la liturgia pagana, il ritrovarsi carbonari in mezzo al verde, nel centro del tramonto a scioglierci, nel divenire un tutt'uno con questi boschi mistici, su questo cucuzzolo che abbiamo, anche noi cittadini di asfalto, cemento e smog, in questi anni imparato a conoscere, apprezzare, amare. Bisogna venire minimo una volta l'anno alle Ariette altrimenti si va in crisi d'astinenza, il fiato si fa corto, la memoria della felicità perde colpi.

MURI 2 ph. S.Pasquini.jpg“La felicità non è un posto in cui arrivare ma una casa in cui tornare” (Proverbio arabo).

Sembra teatro d'appartamento ma, come vedremo, ne ha soltanto la parvenza. Qui tutto, da sempre, è teatrale e vero, romanzato ma con i piedi ben piantati nel tempo, nelle loro storie personali, nella loro autobiografia, reale, tangibile. C'è una verità che sprizza dalle parola concatenate e dette e scritte, si percepisce un legame indissolubile tra la voglia di raccontarsi e di aprirsi ad estranei che sono lì, con il cuore aperto, per cogliere, prendere e restituire in un continuo gioco di scambio emotivo di sguardi, osmosi di sentimenti. E' un riconoscersi nelle parole di Paola, un ritrovarsi in quelle stesse dinamiche di crescita, di desiderio, di avventura, di cambiamento. In cinque ospiti nei meandri della loro casa, la casa del Teatro delle Ariette MURI 5 ph. S.Pasquini.jpgabitata da due umani, una quindicina di gatti, due cani e galline e cavallini e oche. Fuori una pergola fresca e questo muro rosso che ricorda Cnosso. Paola è il nostro Cicerone, ci conduce nelle stanze, ci racconta. Ma ogni vano non è soltanto quelle quattro mura lì ma gli incontri che ci sono stati, i pensieri pensati e i sogni sognati, le persone che sono passate o anche quelle immaginate; non soltanto, ogni stanza diventa simbolo e passaggio, raccordo e ponte verso altre stanze simili vissute e calpestate negli anni. “Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino”, sosteneva Victor Hugo: la casa come la chiocciola della lumaca che dentro cresce, aumenta fino a lasciarla per trovarne un'altra. In questo percorso immaginifico vediamo Paola in tutte le sue età, nei vari spostamenti di casa in casa che corrispondono a periodi diversi della sua vita.

“La casa è un luogo che quando cresci vuoi lasciare, e quando invecchi ci vuoi tornare” (John Ed Pearce). Come sempre è uno squarciarsi con il sorriso, è un andare a fondo, anche nel fango e nel torbido perché il racconto ha necessariamente bisogno di tutte le sfaccettature, di tutti i cromatismi anche dei più bui e nascosti. Non c'è censura, non c'è ripulitura dei ricordi. Il tono è candido, noi cinque saliamo nelle varie stanze in punta di piedi. Siamo invitati ad entrare nel loro intimo, ci aprono le porte, le braccia, i ricordi. E' una responsabilità l'ascolto delle biografie altrui, ci vuole silenzio e rispetto. E la casa, dove abitano MURI_immagine.jpgdall'89 che hanno rimesso a posto e dove hanno fatto prima un agriturismo e poi un ristorante e adesso la base organizzativa della compagnia teatrale, è un pretesto per entrare nella memoria e nelle viscere delle loro famiglie, ascoltando un altro pezzo, sempre più profondo, delle loro esistenze, per aggiungere al puzzle che ci hanno donato in questi anni attraverso il loro teatro, altre tessere mancanti.

“La luce è ciò che vi guida a casa, il calore è quello che vi tiene lì” (Ellie Rodriguez).

E il pubblico delle Ariette (si trasformano sempre in amici) non è né curioso né morboso. L'ascoltarli fa risuonare dentro ognuno di noi piccoli campanelli che fanno eco nelle nostre esistenze, ci imbattiamo negli stessi momenti, catartici o drammatici, sentiamo all'unisono, ci riconosciamo, sentiamo di non essere soli, ci rivediamo in quelle situazioni. Noi siamo Paola, Paola è noi. La sua crescita è la nostra, è quella di una bambina che diventa ragazza che diventa donna che vuole sperimentare, vedere, andare, piena di voglia di scoprire e vivere. Ogni oggetto che tocca ha una storia, apre delle finestre, ci fa immergere in mondi lontani. Una casa quasi museo in un percorso che in ogni stanza ci fa sentire sempre più collante, gruppo unito fortunato nel poter abbeverarci e respirare storie millenarie e nuove, vite secolari, semplici e lucenti, piccole e meravigliose. Come se gli spettatori fossero Dante e Paola fosse Virgilio e le varie stanze della casa i diversi Gironi per arrivare alla purificazione salvifica. Questi “Muri” non chiudono, ma uniscono. Lo stretto rapporto d'amore con la madre, quello più burrascoso e silenzioso con il padre, il Partito e la politica, il bisogno d'affetto: “Mi sembra di aver vissuto tante vite. Mi sembra di avere dei buchi neri”. Un grande lavoro su se stessi è stato quello di mettere su carta i momenti, gli attimi, gli anni, i passaggi; ci vuole coraggio nel guardarsi dentro e metterlo nero su bianco, esorcizzarlo attraverso la scrittura, ferirsi per far uscire il veleno, la rabbia rappresa. La casa è come la mamma, che è la nostra prima abitazione.MURI_ph. S.Pasquini.jpg

“La casa è l’epidermide del corpo umano” (Frederick Kiesler). Adesso lei è a sedere sul letto, sul loro letto, e noi cinque siamo lì seduti ai piedi del materasso: c'è un'aria da focolare, una vicinanza umana che va oltre lo spettacolo, oltre il motivo per il quale siamo lì in quel preciso momento. Si sente altro e quest'altro non è altro che il teatro, il teatro che tocca corde che altrimenti sarebbero sempre tenute in disparte, sotto cumuli di macerie quotidiane. Adesso siamo un tutt'uno e camminiamo alla scoperta di altre stanze metaforiche che ci riportano indietro nel tempo di Paola ma anche nel nostro, a ritroso nella sua famiglia d'origine, nella nostra famiglia, nella nostra storia personale. Perché i topos sono gli archetipi ai quali ognuno sostituisce i propri volti familiari alle facce universali del racconto, è per quello che il percorso esistenziale di Paola (che la avvicina agli ultimi spettacoli di Roberta dei Cuocolo/Bosetti) diventa anche il nostro, ed è facile riconoscersi nelle sconfitte, nelle scelte, nelle debolezze, nelle paure, nell'entusiasmo, nel cambiamento, nelle consapevolezze raggiunte con fatica. L'empatia è difficile da far sbocciare (con le Ariette accade sempre) e quando scatta cementifica le persone che in quel momento storico della loro vita abitano lo stesso spazio nel medesimo tempo. Spettacoli che diventano esperienze che rimangono ancorate nella memoria intima di ognuno dei partecipanti. Immancabili, dopo un'ora di comunione, le tagliatelle di Stefano, stavolta condite con limone e salvia: “La cucina è come il teatro: tutto si fa perché tutto si distrugga”. Come la vita. “Lontano da casa un uomo è stimato per come appare, in casa è stimato per ciò che è” (Proverbio cinese).

Tommaso Chimenti 07/06/2021

Foto: Stefano Pasquini

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