MILANO – Sarebbe bello (utile e funzionale) se ogni regione o macroregione (inteso come accorpamento) potesse offrire ognuna ad inizio della stagione la sua “Next”, ovvero la vetrina dei migliori progetti di quello che vedremo, delle produzioni che verranno. Certo alle spalle ci vorrebbe una banca come Cariplo che finanzi l'operazione. Sta di fatto che da anni Next per tre giorni è il centro nevralgico del teatro italiano; lì si fanno incontri tra operatori, si scorgono nuove compagnie, c'è un fermento e una vivacità concentrata tra le sale e i foyer difficilmente rintracciabile in altre simili occasioni. Anche quest'anno una gioiosa maratona ci ha portato a vivisezionare i ventidue progetti (tutti vincitori, una commissione ad hoc stabiliva la reale entità del premio di produzione o, se il lavoro ha già debuttato, di sostegno alla distribuzione) da venti minuti l'uno, una full immersion con varie sorprese, come sempre, e tante conferme. Due giorni per scegliersi, e segnalare sul taccuino del critico, quali produzioni seguire nella stagione appena iniziata, le opere che ci hanno incuriosito, quelle imperfette ma che presentavano un germe, uno snodo, uno spiraglio tutto da evolversi. Next è elettrico, è sprint, è glamour, è fresco. Anche quest'anno tra Elfo Puccini e Franco Parenti. Faremo dei piccoli spot rispetto a quelle piece che, in qualche modo, ci abbiamo stuzzicato, toccato, smosso, scosso, spostato. Cominciamo con due lavori che hanno debuttato proprio in questi giorni: “Tradimenti”, produzione Elsinor, e “Gioventù senza”, a cura dei Filodrammatici.
Per quanto riguarda il regista pugliese Michele Sinisi, che da qualche anno fa coppia fissa con il Sala Fontana, stavolta, per quello che abbiamo potuto vedere in questo gustoso assaggio pinteriano, non ha fatto sfoggio, il testo non lo permetteva, di colori, azioni debordanti, fantasia proiettata, invenzioni sceniche, suo marchio di fabbrica stimolante. Ma, al di là dell'incrocio-scontro dei tre personaggi in scena che si tradiscono credendo che gli altri non sappiano quando tutto il gioco è palese, svelato e fintamente celato e nascosto coperto da tabù e vergogna, dal ludibrio del proibito, è questo grande pannello, come il cruciverbone di “Non è la Rai” di Enrica Bonaccorti (ricordate “Eternit”?), con le parole e le frasi che si illuminano, strumento efficace per delineare l'azione, il luogo e il tempo, semplice meccanismo (ci ha ricordato le opere luminescenti di Mario Merz) che diventa esplosivo, chiaro, lampante, metafisico e concreto. Alla fine dei 20 minuti se ne esce con la voglia di vederlo tutto perché, come sempre, Sinisi ha una marcia in più nelle vene, ha quell'acceleratore che tocca la pancia come la testa, scardina al tempo stesso budella e cervello. La gioia e il piacere dello stare a teatro. E non è da tutti.
Stavolta Bruno Fornasari firma soltanto la drammaturgia di questo nuovo testo, “Gioventù senza” (regia di Emiliano Bronzino) tratto dall'omonimo di Odon von Horvath. Fornasari e i Filodrammatici sono sempre sul pezzo dell'attualità con un respiro ampio e profondo sul contemporaneo, pori, occhi, orecchie, cuore aperti a cogliere le sfumature del tempo, le pieghe, i movimenti ed a metterli su carta e in scena. Hitler è padrone della Germania e le sue idee hanno pervaso la società e soprattutto le scuole, le nuove generazioni: un professore (Tommaso Amadio sempre autorevole sul palcoscenico) tenta di perseguire il dubbio, la ragione, il punto interrogativo ma sarà messo alla berlina e disarcionato dalla classe: la dittatura della maggioranza, il silenzio-assenso della massa di pavidi. Con dieci (bravi) attori provenienti dalla loro scuola-fucina.
“Lo Straniero” del Teatro I ci ha colpito per la messinscena di pochi elementi scenici ma catalizzanti. La drammaturgia (di Francesca Garolla) parte, ovviamente, da Camus ma se ne discosta, anzi potrebbe essere un sequel, un post che riassume le vicende e crea un ponte verso il non detto. Se Woody Neri è convincente e spiazzante tra follia e lucidità, è la gru (manovrata con abilità e quasi carezzata con dolcezza dal regista Renzo Martinelli) con un faro sopra che, cinematograficamente, illumina e segue, quasi fosse un drone agganciato al suo bersaglio mobile, l'imputato protagonista. Una “giraffa”, quasi canna da pesca per andare a stanarlo, che diventa violino da grattugiare e arpa da solcare e pizzicare. Se le luci intorno fossero state spente, l'effetto sarebbe stato ancor più catartico e se, attaccato alla luce che colava dall'alto, vi fosse stata anche una telecamera che riprendeva e proiettava un'altra visione della scena, l'impianto sarebbe stato ancora più invasivo e straniante.
Coloratissimo il testo (anche la regia) di Filippo Timi, “Cabaret delle piccole cose”, targato Franco Parenti, debordante di lazzi, frizzi e paillette. Dieci personaggi, tutti con il naso di Pinocchio (Collodi tira sempre più) che impersonano altrettanti oggetti minimi delle nostre case, i rifiuti messi nei cassetti, gli scarti, le cose non più nuove o sorpassate o obsolete. Il gusto di Timi è visibile nei costumi eccentrici come nelle sonorità come nell'uso del linguaggio, nella scelta delle musiche come nel gancio sensibile e accorato: c'è il dialetto napoletano, il siciliano (la più brava) con eco emmadantesco durante un funerale frizzante, il rubinetto romano che “piange”, il toscano rustico della candelina, l'abatjour mal funzionante, lo specchio ed altre suppellettili casalinghe. La sensazione che rimane però è quella del “numero”, della gag sospesa tra lacrima cercata, risata inseguita con colpo ad effetto sulla coda.
Minimalista e giocato sulle pause e sui silenzi che tutto avvolgono è “Come Out! Stonewall Revolution” (prod. Triennale Milano Teatro), toccante affresco della lotta per i diritti Lgbt nella New York del '69. Se dietro sul fondale passano immagini in bianco e nero dell'epoca, su una poltrona il protagonista racconta i due piani della vicenda, vicino e lontano, la storia piccola, la sua, e quella con la esse maiuscola, i cambiamenti personali e quelli epocali. Un monologo intimo, misurato, quasi sussurrato (il giovane attore è incisivo e soffice, caparbio e dolce), abile a districarsi nel non-detto, nelle sospensioni, in equilibrio in un tempo che sosta tra l'attesa e la sorpresa. Lui, che avrebbe voluto essere lì in mezzo alla guerriglia, ai cortei per rivendicare i propri diritti, che invece è tornato a casa, in una casa che non lo ha mai capito né accettato in quanto omosessuale, perché sua nonna, l'unica che lo ha supportato, sta morendo. E rimane lì impotente tra la voglia di ribellarsi e la realtà che lo zittisce, tra il desiderio di tornare nella Grande Mela e quella piccola provincia bigotta che lo trattiene come colla a sé.
Doppio filone anche per “Il rumore del silenzio” (prod. Teatro della Cooperativa) con due mostri sacri viventi del teatro di narrazione: Laura Curino e Renato Sarti. Se la prima ci racconta di Piazza Fontana e dell'anarchico Giuseppe Pinelli, dall'altra parte Sarti ci porta nella sua Milano, nei suoi ricordi, nella sua memoria, in quegli stessi luoghi, visti con i suoi occhi più giovani di cinquant'anni, scenario della bomba alla Banca dell'Agricoltura. Ma non solo: da una parte c'è la morte, il passato (nei fumetti solidi) dall'altra la vita, la gioventù, le case di ringhiera, la bicicletta, gli amori, tutta la vita davanti. In questa frizione tra il bianco e nero della Storia e i colori del presente ci sentiamo fortunati a poter sentire ancora Sarti farci vivere attraverso le sue parole quegli anni. Uno spettacolo che vale decine di volumi sugli anni '70.
La compagnia Eco di Fondo continua a stupirci per la sua sensibilità, per la ricerca di temi etici, per quella pulizia di pensiero che sta alla base del loro lavoro. Se con “Sirenetta” si affrontava l'argomento dell'estetica collegata alle giovani generazioni e al bullismo, stavolta con quest'“Antigone” moderna ci immergiamo nel caso Cucchi (Giulia Viana sempre tosta), ma potrebbe essere anche Regeni o Aldrovandi o Uva o ancora forzando un po' la mano Khashoggi, perdite inspiegabili. Un cerchio di terra al centro (elementi e luci molto efficaci) e la storia che si sposta su più piani, il prima, il dopo la tragedia, il dialogo tra questa sorella e un fratello ormai soltanto spirito, l'autopsia disarmante che atterrisce, i flashback e quel muro di gomma dove rimbalzi senza trovare giustizia né pace.
Lo spettacolo più divertente e scanzonato è stato sicuramente la scrittura collettiva “M8 Prossima Fermata Milano” (prod. Animanera; testo composito di Davide Carnevali, Magdalena Barile, Carlo Guasconi, Pablo Solari, Camilla Mattiuzzo) con l'esplosivo e scintillante one man show (in questi 20 minuti, nel proseguo della piece interverranno altri personaggi) Fabrizio Lombardo nella sua stand up comedy irriverente, urticante, debordante, varietà per presentare vari progetti visionari per le Olimpiadi 2026 tra Milano e Cortina. E' anche un'analisi sulla Milano di oggi, sui suoi meandri, al sua collettività in perenne movimento e cambiamento: ne esce un affresco pittorico idealista impossibile e fanciullesco come chiudere tutta Milano al traffico e riaprire tutti i corsi d'acqua e renderli navigabili, le chiatte trainate da ippopotami, al reintroduzione della nebbia, la grande caccia al tesoro per ritrovare le zampe dei piccioni monchi e zoppi. Finisce e ne vorremmo sapere ancora, come andrà a finire, dove andrà a finire Milano, la vera capitale d'Italia.
Tommaso Chimenti 19/11/2019