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FIRENZE – Facciamo un ripasso, un riepilogo. Che è sempre importante capire dove siamo per poi tracciare una linea sul futuro. Che cosa abbiamo visto, a teatro, in questo 2016 che va a concludersi che ci ha fatto sobbalzare dalla poltrona vellutata, che ci ha fatto rimanere incollati con gli occhi fissi sul palco, che ci ha fatto esclamare o respirare o applaudire come forsennati alla fine in un moto non di liberazione ma di gratitudine infinita per il tempo e l'arte che gli interpreti ci avevano regalato. L'elenco è, come deve essere, personale e parziale. Nessuna classifica. Questi sono i “miei” spettacoli di quest'anno che, al mondo del teatro, ha portato via principalmente Giorgio Albertazzi, Paolo Poli, Anna Marchesini e Dario Fo. Quelli in cui ho goduto e riso e mi sono commosso e ho detto alleluja.ChimentiCamera701
Cominciamo random, senza una scaletta cronologica. Accanto ad ogni spettacolo citato sarà presente il luogo, lo spazio, il teatro dove ho visto la piece. Li abbiamo visti in piccole rassegne o in giganteschi festival internazionali, la maggior parte in Italia, a Milano, Modena, Genova, Firenze, Messina, alcuni all'estero. Ecco la mia pattuglia, la mia ciurma, il mio esercito.

Non si può definire spettacolo muto “Murmel, murmel” (foto di copertina) dei tedeschi della Volksbuhne (Festival Gift, Tbilisi) perché dalle loro bocche esce ossessivamente un'unica parola, appunto quella che nel titolo appare due volte. Un grande incastro di paraventi, con precisione millimetrica, che scendono dall'alto o si chiudono dai lati, che danno l'effetto dello zoom di una macchina fotografica, portandoci, grazie ai costumi e alle musiche, nei favolosi anni '60 quando, per i protagonisti, oggi forse anziani, tutto era ancora possibile.
ChimentiGeppettoA che punto di svolta sia la drammaturgia dei Paesi dell'Est ce lo comunica, con piacere, “Camera 701” dell'autrice rumena Elise Wilk e visto per la regia di Ciro Masella (Intercity, Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino); il pubblico diventa voyeur spiando e sbirciando dentro questa room d'albergo dove si avvicendano persone, vite, futuri, perplessità, messe in gioco e in discussione. Come affrontare lo scottante tema dell'omogenitorialità che tanto recentemente ha fatto discutere ce lo spiega Tindaro Granata con il suo nuovo “Geppetto & Geppetto” (“Primavera dei Teatri”, Castrovillari), altra sua prova di maturità di scrittura, tutto giocato tra profondità di temi, senza dare niente per scontato né voler impartire nessuna verità o lezione, ma anche con ironia e leggerezza, che non guasta mai per far passare temi complessi.Chimentisanghenapule

Riuscire a trovare l'alternanza ideale e la sponda ad un campione della narrazione come Roberto Saviano non era facile ma in “Sanghenapule” (Piccolo Teatro, Milano) Mimmo Borrelli fa da contraltare perfetto con questa sua cifra classica che sempre si rinnova di sudore, corpo e parole che vengono da lontano, dal profondo, dal vulcano, dalle viscere per spiegare l'inspiegabilità di Napoli.
Da lontano arrivano anche le parole centenarie del “Minimacbeth” (Teatro di Buti, Pisa), la tragedia shakespeariana ma contratta, non accorciata né ridotta, ma ristretta come un caffè nerissimo e per questo ancora più potente. Marconcini e la ChimentiminimacbethDaddi, con la loro età, sulle spalle sono riusciti a dare ancora più umanità ai due regnanti usurpatori e più sostanza ai fantasmi che gli girano intorno.

C'è un qualcosa in più del teatrale, del metateatrale nel “Golem” (Teatro Vittorio Emanuele, Messina) della compagnia ingleseChimentiGolem 1927 dove convivono in un senso d'armonia, difficilmente trovata altrove, la musica dal vivo, le scene, i video, i filmati, come essere catapultati dentro un grande videogioco ed essere imbrigliati, come accade nella realtà con la grande illusione-paravento della libertà di scelta, nelle regole imposte da qualcun altro. Siamo noi i protagonisti passivi e rassegnati che si affidano al Golem per la risoluzione dei loro problemi, non capendo che delegare i propri diritti non ci rende più liberi ma più schiavi.
ChimentigiocatoriIn un interno napoletano, ma potremmo essere dovunque, quattro uomini (su tutti Enrico Ianniello e Tony Laudadio) attorno ad un tavolo, quattro “Giocatori” (Teatro Niccolini, Firenze) mettono sul piatto frustrazioni e fallimenti, scollamenti tra quello che avrebbero voluto essere e quello che sono diventati. Si sono giocati la vita e ora tentano l'ultimo colpo, gabbare la sorte, l'ultimo colpo di coda, meravigliosamente malinconico.ChimentiVania

Altra periferia, prima geografica e metropolitana poi dell'anima, per la trasposizione da Cechov all'hinterland milanese del “Vania” degli Oyes (Spazio Tertulliano, Milano) , una delle novità più illuminate dell'anno, un gruppo da tener d'occhio. Un impianto cupo, marginale dove l'insoddisfazione e la non realizzazione la fanno da padrona, con una cappa di melassa amara che tutto copre e avvolge, imprigionandoci.

ChimentiSantaEstasiIl progetto più complesso e articolato dell'anno è stato certamente “Santa Estasi” (Teatro delle Passioni, Modena) coordinato da Antonio Latella fresco neo direttore della Biennale Teatro di Venezia. Otto spettacoli (da vedere assolutamente in lunghissima maratona consecutivamente) di otto giovani drammaturghi, una ventina di attori under 30, alcuni veramente straordinari, per un impianto contemporaneo dal sapore antico, una grande maestria registica applicata al mestiere dell'attore in un connubio, in una miscela, in un tutto, finalmente, compiuto, essenziale, necessario.ChimentiOrfeo
Altro grande e impegnativo progetto è stato l'“Orfeo Rave” (Fiera, Genova) del Teatro della Tosse, che ha rappresentato una sorta di sollevazione e orgoglio genovese. Dieci repliche per cinquecento persone a sera, in uno spettacolo itinerante con oltre dieci location e spazi utilizzati all'interno dell'allora appena chiusa Fiera del Mare. Un viaggio tra i budelli della città, del Mito, di noi stessi, e una voce meravigliosa, quella di Michela Lucenti, da sentire, risentire e sentire ancora.

ChimentiScuolaNon può mancare uno spettacolo corale, e che, a prima vista, poteva sembrare sorpassato dagli eventi, triturato dall'acqua passata sotto i ponti in questi venti anni dalla sua prima uscita. E invece regge, e ancora molto bene, “La scuola” (Teatro Era, Pontedera), Silvio Orlando su tutti ma non solo, dove l'equilibrio tra un'ironia spassosa, e a volte irrefrenabile, e sentimenti e profondità e lezioni di cultura civile, è il nodo sottile che lega ogni scena in una calda atmosfera di vicinanza e umanità, di scontri e passioni, come sono quelle di vivere, di insegnare e di confrontarsi.ChimentiStraniero
Utile come non mai oggi rileggersi Camus, passando per i Cure. Ecco “Lo straniero” (Teatro Niccolini, Firenze) in forma di monologo con un gigantesco e strepitoso Fabrizio Gifuni che dà voce e corpo, fermo, impassibile, senza emozioni né reazioni al “nostro” antieroe con un'empatia, una sostanza, un'elettricità statica che tutto pervade e corrobora e frigge intorno.

ChimentiTennisUltime due segnalazioni per due piccoli, ma grandissimi, spettacoli: “Le regole del giuoco del tennis” (Teatro delle Spiagge, Firenze) nel quale Mario Gelardi del Teatro Sanità di Napoli ha saputo applicare allo sport, in questo caso a quello di racchette, palline e net, l'amicizia ma anche le convenzioni sociali legate sia alla sessualità che all'accettazione prima di sé e dopo da parte della società: messaggio semplice e potente.
Quante volte ci siamo ritrovati a pensare, la testa tra le mani oppure guardando un punto indefinito, lontano, nel nulla. Quante volte abbiamo letto Paperino che faceva ruminare i suoi pochi neuroni con il fumetto pannosoChimentiMumble sulla testa che diceva, silenziosamente, e mugugnava il suo “Mumble, mumble” (Teatro del Sale, Firenze). Le riflessioni di una vita, il mettersi a nudo e raccontarsi non è mai cosa da poco. Emanuele Salce si apre, con il suo fare sornione e sensibile, e ci porta dentro il suo rapporto con il padre naturale, il regista Luciano Salce, e il padre che lo aveva adottato, Vittorio Gassman. Nomi che mettono i brividi e che, in qualche modo, hanno “schiacciato” prima il bambino e poi il ragazzo divenuto attore per caso ma non per sbaglio. Perché dal palco alla platea riesce a far passare, con leggerezza e sobrietà e autoironia, tristezza e nostalgia, distacco e disincanto, ma anche bisogno d'affetto infinito. Mumble è più pensiero che ripensamento, è un momento necessario per andare avanti e voltare pagina, per vedere chiaramente il passato e potersi, liberandosi, immaginare il futuro. Come solo il teatro sa e può fare.

Tommaso Chimenti 23/12/2016

Nelle foto gli spettacoli nell'ordine in cui sono stati menzionati

FIRENZE – Marco Paolini costruisce le sue storie su una base documentaristica. Se vogliamo possiamo dire che, come in ogni inchiesta, prima deve necessariamente avvenire il fatto e in seconda battuta deve esserci qualcuno che la passa, che la comunica, che la amplifica. In qualche modo, prendiamo Ustica o il Vajont ad esempio, Marco Paolini è stato il grande architetto, su una base storica e certificata, di un immenso romanzo popolare che ha delineato la coscienza civile e morale del Paese su quegli argomenti. Più dei giornali, più dei filmati, più delle pellicole, l'immaginario condiviso nazionale è stato geometricamente curato dalle parole cadenzate, ironiche e tragiche (e l'ironia è fondamentale nell'incedere narrativo di Paolini per far risaltare palese il ridicolo, il viscido, lo squallore dell'uomo, del potere, della politica), di questo cantore moderno che non usa altro che il suo stare su un palcoscenico, il suo dare forma alle immagini attraverso le sue parole, semplici, chiare, nette, il suo portarti, il percorso che inscena e dipinge strada facendo.2paolinijpg
Stavolta il registro cambia linea; non più Paolini (che in questi giorni ha in uscita un film nel quale è protagonista “La pelle dell'orso” dove ci porta in un altro rapporto padre-figlio) si basa su un passato certo e reale, da spiegare e divulgare cercando di tirare le fila di un ragionamento (politico, nella sua accezione più alta) ma si spinge a schiudere il prossimo futuro, con fantasia e pessimismo, con fantascienza e lungimiranza. Che un buon narratore annusa, sente, conosce, maneggia talmente bene il presente (a volte lo plasma pure) da capire i binari del domani. Gli intellettuali servono a questo dopotutto, a cogliere i segni e i segnali del quotidiano per tracciare delle bisettrici per meglio comprendere domani.
In un futuro non troppo lontano, riecheggia leggero Asimov, un uomo si è innamorato non di una donna ma della sua voce (ecco Siri, la guida di alcuni smartphone o ancora possiamo arrivare alla pellicola “Her” di Spike Jonke). La donna gravemente malata gli lascia, alla sua morte, il figlio di cinque anni da accudire. Il bambino, in un mix di prodigio e genio ma anche ingenuo e infantile, si fa chiamare “Numero Primo” (e qui fa capolino “Uno sceriffo Extraterrestre” con Bud Spencer e Terence Hill o “I figli degli uomini” con Clive Owen). Ed ecco le due corsie paoliniane (che qui per certi versi sembra guardare alla visionarietà e al surrealismo di Celestini) quella sulla paternità e quella scientifica. Le due scie si mischiano e si aggrovigliano come la spirale del dna. Proprio di genoma, di intervento umano, di sperimentazione sugli embrioni si tratta. E la fiaba di questo incontro, tra un bambino orfano e un padre che non si aspettava più tanta gioia dalla vita (il figlio è un “debrutalizzatore” della realtà), vira sul noir, sul giallo con fughe, inseguimenti, con uomini che cercano di prendere, rapire il piccolo perché custode di una sapienza, di un nuovo modo di poter nascere, di una nuova maniera e frontiera di fare, creare in laboratorio uomini geneticamente modificati. Il punto di rottura è stato superato, il punto di non ritorno varcato.
3paoliniUn mondo, un'Italia del domani per niente rassicurante con le scogliere di Venezia, l'invasione di pidocchi e topi, le scuole prima intitolate a Giosuè Carducci e adesso a Steve Jobs, con la domotica che sta prendendo il sopravvento sugli umani non più aiutandoli ma spingendoli a nuovi comportamenti, le fabbriche della neve in città al posto delle industrie, accozzaglie di etnie avvelenate e inacidite in casbah sovraffollate.
Da una parte la tecnologia che non lavora per il bene dell'umanità ma la inaridisce, dall'altra questo splendido rapporto di solitudine e famiglia, di isolamento e vicinanza tra un padre e un bambino, un rapporto maturo che migliora l'idea di mondo dell'adulto, che adesso ha trovato un vero senso all'esistenza. Una fiaba nera, e neanche a lieto fine, dove le persone, gli uomini tornano ad essere quello che sono: mani, occhi, bocche, abbracci, carne, sangue, sentimenti, stomaco e pancia, togliendosi di dosso tutte le sovrastrutture nelle quali abbiamo creduto, sulle quali ci siamo adagiati pensando che ci migliorassero e ci facessero diventare la vita più comoda. La vita non è comoda e se lo diventa ci impoveriamo, se non pensiamo, se non lavoriamo, se non fatichiamo, ci impigriamo, diventiamo cose, oggetti, soprammobili con un telecomando in mano, consumatori e non cittadini, se non lottiamo, se non combattiamo perdiamo il senso ultimo del respirare senza essere più individui pensanti. Se gli adulti sono ormai corrotti, sporcati, sciupati, spezzati, solo i bambini possono riportarci un passo indietro e raccontarci quello che abbiamo dimenticato, quello che eravamo quando vedevamo il mondo dal basso della loro altezza. Il cinismo logora chi ce l'ha.

Tommaso Chimenti 12/12/2016

FIRENZE – “Le donne sono fatte per essere amate, non per essere comprese” (Oscar Wilde).

Il bagno è il luogo principe delle confessioni, c'è lo scrosciare familiare dell'acqua, c'è il frizzante delle bollicine della vasca, c'è il soffice del cotone, c'è il calore del phon, c'è la morbidezza della spugna, c'è l'intimità del nudo. E ci siamo noi, svestiti, spogliati da ogni armatura, da ogni ruolo, struccati, finalmente veri, noi, i nostri pensieri e un momento per prenderci cura di noi stessi, della nostra pelle carezzandola, lisciandola, amandoci un po'.
Il bagno è grotta, il bagno è antro della sibilla, il bagno è porto sicuro, il bagno è mamma che ci asciuga da piccoli, il bagno è una parentesi di tempo privato sottratto alla nostra versione pubblica, il bagno è la sfera personale dove non esiste 002bagnopudore, dove possiamo tirare fuori il nostro vero io, quello che non ha timore dei propri difetti o inestetismi. In bagno non ci sono occhi indiscreti, in bagno nessuno ci giudica, il bagno è la stanza più piccola della casa ma la più affollata, desiderata, ricercata. Il bagno è quel claustrofobico che ci scalda, è soddisfazione dei bisogni primari, il bagno è pulizia e rituale, è l'anticamera dove ci prepariamo ogni mattina prima di affrontare il mondo-giungla, è la chiusura a cerniera ogni sera salutando un altro giorno vissuto o solamente andato e ormai trascorso. Il bagno (ottima l'idea di aprire con “Creep” dei Radiohead, anche se con una versione melensa e mielosa che ha privato dell'anima la canzone di Thom Yorke, la cui traduzione è “sgradevole”) ci vede per quello che siamo e ci accetta e ci rispetta.
Se “Il Bagno” (scritto dall'attrice francese Astrid Veillon e passato prima per l'adattamento spagnolo e infine arrivato alle nostre latitudini) solitamente è sinonimo di solitudine e di momenti d'intimità, in questo particolare messo in scena, bianco candido e immacolato, c'è un via vai continuo come in una plaza de toros, la porta si apre come in un saloon, in un andirivieni da mal di testa. Tutto si svolge qua dentro, mentre fuori infuria una festa a sorpresa, preambolo, escamotage, preludio, premessa che sembra non interessare a nessuna delle cinque chiuse nei loro conciliaboli, battibecchi, scontri dialettici e strette tra bidet e lavandino, tra vasca e water.
Cinque donne diversissime ma ugualmente deluse e sconfitte, ognuna con le proprie insoddisfazioni, aspettative scadute e amori andati a male. Tre amiche più una madre e una figlia e tutto il ventaglio dei cliché femminili: c'è la vamp fatalona, che infatti è in pelle e latex attillato, c'è la santa che si innamora del marito dell'amica ma non consuma il suo desiderio, e infatti è in rosa candido, c'è quella sopra le righe un po' avvinazzata e di mezza età (Amanda Sandrelli, la migliore in scena, il suo personaggio regge in piedi da sola tutta la fragile 004bagnocostruzione), e giustamente è vestita a fiori, c'è una madre egoista, adesso anziana (Stefania Sandrelli, il pubblico la ama) che ha preferito vivere la sua vita da donna single, capelli e scialle rosso fuoco, invece che invecchiare appresso alla figlia che compie quarant'anni, difatti luttuosa vestita in nero, che sta con un uomo ma è rimasta incinta di un ventenne danese.
Insomma ne esce fuori un ritratto composito delle donne di oggi per niente incoraggiante e rassicurante anzi banalizzante: isteriche, urlanti, problematiche, arpie, pettegole, acide, sole, lamentose, troppo legate agli umori degli uomini, nervose, bugiarde, inadeguate, volubili, conflittuali, ma soprattutto insicure. Molto unghie affilate e poco smalto lucido. Per dare un po' di brio poi ci sono state aggiunte e spruzzate da sit com che hanno, se possibile come se non bastasse, contribuito ad aumentare il caos in questo bagno: cocaina, un ministro (per giunta mafioso e siciliano, stereotipo all'ennesima potenza), la corruzione (questi tre parametri insieme ci fanno venire in mente “Jhonny Stecchino”), polizia, paparazzi, furti. Tanti scricchiolii, vuoti, pause.
Se l'intento era una costruzione alla Cristina Comencini, il testo manca di umanità e troppo si lascia facilmente andare alla risata scadente di pancia, se era quello di creare un'impalcatura alla Yasmina Reza la drammaturgia ha un deficit di profondità, di spessore sociale, di solidità.

“Il mondo sarebbe sarebbe un posto di merda senza le donne. La donna è poesia. La donna è amore. La donna è vita. Ringraziale, coglione!” (Charles Bukowski).

Tommaso Chimenti 31/10/2016

FIRENZE – Le case dei villaggi dei film sul Far West sembrano solide. Da lontano, in campo largo, appaiono stabili, di legno massello, con salde fondamenta massicce nella sabbia. Ma è tutta apparenza, esiste soltanto la facciata, tenuta su, dietro, da assi in diagonale per sorreggere la messinscena. La parvenza non ha il suo corrispettivo con la profondità. Entrando in quei saloon c'era solo terra riarsa. Tentando di cercare un minimo di profondità nella nuova opera del Cirque du Soleil si finisce a terra nella sterpaglia, si rotola al tappeto, si inciampa sui nostri stessi passi. Da molti anni il Cirque cambia il titolo alle proprie produzioni ma la salsa è sempre la stessa, pur nell'altissima qualità degli ingredienti: tecnica, interpreti e strumentazione. Un gran fiorire di costumi, un impasto tra musical e circo, atletismi d'ogni sorta e coreografie da etoile che creano immagini impeccabili e splendide suggestioni. Il Teatro latita, rimane la maraviglia, le botole che si aprono e si chiudono, che ingoiano o che lanciano fuori, le altezze e le costruzioni aeree, le funi e le altalene, i geyser che sputano fumo zolfino dal basso, le verticalità e le trazioni, i corpi scolpiti.Varekai2
Di fondo un grande perché che lascia insoddisfatto il palato, un vuoto che sentiamo concreto e tangibile sotto la spessa scorza di colori e girotondi, giravolte e piroette. Sembra che tutto l'armamentario di risorse messe in campo per "Varekai" (quaranta eccezionali professionisti sul palcoscenico del Mandela Forum; dieci repliche soltanto a Firenze) serva per distrarre e non per concentrare, serva per perdere contatto e controllo invece che fare adesione e abrasione. Una volontà di non far pensare a nient'altro che alla superficie della visione, usare gli occhi e le retine e non le sinapsi del cervello, fermarsi e fissarsi al bidimensionale imbrattando e infarcendo il tutto di decibel da stadio e cromature psichedeliche frastornanti.
In questa sorta di mondo alternativo e trasognante, molto ripreso da “Avatar”, tra grugniti e ruggiti e un vento ancestrale, si muovono questi esseri umanoidi primordiali e immaginifici misti ad animali preistorici, epici o mitologici che in alcune loro parti ci ricordano i caproni o il Dio Pan, i pesci degli abissi o anfibi pericolosi e serpenti biblici, altri sono fiammelle-anime da Divina Commedia, fino ad arrivare a spiriti veri e propri, diavoli per ogni gusto, giullari di corte, creature vitruviane, contornati da regine e folletti, elfi, stelle di mare e demoni, entità metà Varekai4Diogene e metà Zio Fester, centauri e tartarughe ninja, iguane e troll, dinosauri di squame e code e pinne, teschi e galli cedroni. C'è tutto il ventaglio e il panorama per Halloween e dintorni, cosparso di riti aztechi e sfide a colpi di spade che scintillano come in “Star Wars”. Un'immensa precisione, cura dei dettagli, forza e pulizia tecnica sono messe al servizio di una storia che sempre estratta da “Le mille e una notte” dove l'amore vincerà sull'odio e sulle diversità.
Tra gioco e inquietudine, cadute negli Inferi e riscosse, apparizioni e sparizioni, questo mondo sottosopra offre il suo lato più umano e accoglie l'angelo caduto dal cielo (potrebbe essere Lucifero), appunto scivolato dal blu dipinto di blu e dalle nuvole placide e pannose e ritrovatosi inerme, stavolta strisciante, in territorio sconosciuto e nemico. Ribelle tra i ribelli. Ha perduto le ali, non può rialzarsi ma viene comunque aiutato a rimettersi in piedi e infine, come qualsiasi favola infantile che si rispetti, trova pure il tempo di sposarsi. E vissero tutti felici e circensi.
Qui molta bellezza e perfezione nel gesto paradossalmente ammantano e guastano, occludono e anneriscono, consapevolmente, un risvolto debole che si sfalda con un grissino, un vuoto che fa eco. Rimane un grande cartoon d'animazione in carne ed ossa per famiglie. Abbiamo ancora bisogno di virtuosismi, orpelli e svolazzi, di merletti e origami scenici? Forse la risposta è Sì, e non è un gran sollievo. Esci fuori e hai una gran voglia di un panino alla porchetta per ritrovare poesia e mistero.

Tommaso Chimenti 30/10/2016

Domenica, 16 Ottobre 2016 11:36

Essere padre non è biologia, è chimica

FIRENZE – C'è un rapporto di sincerità e amicizia, di stesso comune denominatore e fiducia che in questi anni si è consolidato tra il Teatro di Rifredi e Eric Emmanuel Schmitt, lo scrittore franco-belga da molti indicato per il Nobel per la Letteratura nei prossimi anni. Nelle ultime stagioni a Firenze abbiamo prima visto “Il visitatore”, portato in scena da Alessio Boni e Alessandro Haber, per poi passare ai “Piccoli crimini coniugali”, seguiti dalle “Variazioni enigmatiche”, con Saverio Marconi nella splendida sala della musica del Relais Santa Croce, fino a “L'intrusa” con Lucia Poli, sempre nello stesso scenario di poltrone in pelle e tappeti, con Schmitt presente che uscì dalla hall gioioso, soddisfatto ed emozionato. Un'abbuffata, felice, di EES. Stavolta ha scelto di passare il guado e da autore si è fatto anche attore per il suo “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” che nel 2003 vide tra i suoi interpreti al cinema Omar Sharif e Isabelle Adjani.
Una bella intuizione quella del Teatro di Rifredi (le uniche date italiane sono qui a Firenze nello spazio gestito da Angelo Savelli e Giancarlo Mordini che hanno conosciuto Schmitt al Festival di Avignone) quella di posizionare i sovratitoli in alto Schmitt2agli angoli del palco, proprio dove le mura fanno una curva a rientrare proprio verso il boccascena. In quest'onda si trova il francese suadente, in questa curvatura si sente l'arabo a scorrere, che fluisce come una danza, parole che scivolano dalla bocca ai ricordi, si perdono nei suoni, rimangono a far musica, leggere ballerine sul pentagramma della vita.
“Monsieur Ibrahim” è una grande lezione, anzi più d'una: è uno schiaffo al razzismo strisciante e all'ignoranza, intesa come la non conoscenza dell'altro e quindi la nascita del pregiudizio, è un inno alle carezze contro la durezza dell'indifferenza, è una critica sottile alla troppa importanza che diamo e concediamo alle religioni. Questi tre filoni si mischiano, si rincorrono, si intrecciano per tutto l'andamento che Schmitt, con grande presenza e padronanza scenica, conduce lasciando ogni tanto le briglie all'ironia, altre volte alla commozione. Chi di noi non è stato incompreso? Chi non è stato mai abbandonato? Un ragazzino che cerca di capire il mondo e un anziano proprietario di un emporio. Niente di più distante. L'adolescente è figlio di un avvocato ed è ebreo, il vecchio è un arabo, almeno così dice la gente; lui si definisce “musulmano sufi”. Cominciano a girarsi attorno, ad annusarsi, a sentirsi, e a divenire, poco a poco, per uno il vero padre che non ha mai avuto, per l'altro il figlio che non ha mai potuto abbracciare.
È tutto un incastro tra caldo e freddo, tra amore e odio, tra vicinanza e repulsione. Si conoscono poco alla volta e si danno una possibilità di crescita insieme, verso quella mancanza che si chiama amore. Sono entrambi pozzi senza fine di desiderio di avere un amico, un confidente, un legame più stretto. Il giovane rimasto solo con il padre, buio e cupo, che non lo degna di uno sguardo, che lo tratta come un servo, vessandolo con il ricordo di un fratello perfetto che non è mai esistito, abbandonato anche dalla madre. L'anziano (gli insegna la Schmitt3potente arma del sorriso), nella sua immensa saggezza e pacatezza e calma e lentezza, non indica la giusta rotta né la retta via ma, con il dialogo fa nascere nuove domande e quesiti dentro questo corpo giovane che si deve fare, dentro questa mente che si sta costruendo. Nessuna imposizione soltanto confronti e gentilezza, il parlarsi, cosa che il padre non aveva mai fatto con lui, la possibilità di appoggiarsi a qualcuno, il guardarsi negli occhi senza essere giudicati, il non sentirsi sbagliati o perennemente imperfetti.
Quello che entrambi fanno, grazie alla presenza dell'altro, è un viaggio alle origini, è un passaggio di consegne, è un cercare il profondo, l'atomo iniziale che tutto ha dato origine, è uno scandagliare l'immenso, tornare al prima, riconoscere l'Amore che è fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di aprirsi per sentire gli altri, il mondo, le cose, gli animali, gli alberi, le stelle.
Ed anche, sul versante religioso, la trasformazione da Mosè, il vero nome del ragazzo, a Momò, diminutivo di Mohammed, ha in sé quel libero arbitrio che deve governare gli uomini, la possibilità di scegliere il luogo dove abitare, chi poter sposare, cosa mangiare, in che cosa credere. Senza odio, “esistono modi di pensare che sono come malattie”, senza contrapposizioni, senza barriere. Al contrario, in maniera propositiva, non in antitesi, perché il fine ultimo è la felicità e ognuno ha il suo percorso tortuoso e le sue strade da battere per raggiungere quell'oasi. Perché si può sempre scegliere di essere altro, di cambiare direzione, che non esiste giudizio: “La bellezza è dappertutto. E ti appartiene”. Una grande lezione. Con il sorriso, senza bacchetta in mano. In punta di penna.

Visto al Teatro di Rifredi, Firenze, il 16 ottobre 2016

Tommaso Chimenti 16/10/2016

A volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto”. (Stanislaw Jerzy Lec)

Chimenti interpella Rizza. Ogni città, ogni mestiere, ogni professione ha il suo decano. Per anagrafe, per continuità, esperienza. Una figura che c'era, una memoria storica, una figura che c'è, alla quale puoi chiedere consiglio e illuminazione, una figura che ci sarà, salda nel suo scrigno, certezza dei foyer. Gabriele Rizza ha un passato da performer, da chansonnier (cantante è riduttivo), da direttore artistico (nel 2010 curò la programmazione del festival di Radicondoli traghettandolo dopo la scomparsa di Nico Garrone), un presente dove si destreggia tra teatro, cinema e Berlino.
Se lo guardi di profilo è l'iconografia perfetta della celebre illustrazione freudiana (“What's on a man mind”) con una donna nuda distesa con la schiena all'indietro sciolta nella stempiatura. Di teatro ne ha visto, ne ha masticato, morso, addentato, Rizza2mangiato, vergato in fiumi di parole. Rizza è il decano per autorevolezza imprescindibile della Firenze votata alla cultura, le conferenze stampa non hanno senso senza il suo approdo. Anche a lui le nostre tre domande-riflessioni dalle cui risposte poter capire meglio le strade, i percorsi, gli aneddoti di un mestiere bellissimo quanto vilipeso, maltrattato e, spesso, tradito. E siccome Rizza è e resta un artista anarchico ha accorpato i tre punti interrogativi in un bel fluire, tutto da leggere e godersi, immaginandosi le scene, le parole, quell'archeologia teatrale dalla quale non possiamo prescindere.
Cominciamo proprio da Gabriele Rizza, per anzianità, nel sottoporgli le nostre tre brevi, e aperte, domande (le stesse sono state fatte ad altri critici teatrali), più che altro un modo per conoscere e scoprire (non marzullianamente) il passato e il presente delle penne che, ancora curiose nonostante tanti anni e infinite ore scomodi con il culo sulle poltrone in platea, occhiaie e appunti carpiti nel buio assoluto, rendono, comunicano il teatro nostrano, senza spiegarlo ma cercando di illuminare i chiaroscuri, di far luce tra le pieghe dei discorsi che stanno alla base del teatro, dentro le sue viscere, distillando la polvere di stelle, la fatica del palco, smembrando parole, cercando rimandi e fili conduttori. Certamente, non un lavoro semplice.
Ecco i nostri quesiti dialettici: I tuoi cinque spettacoli del cuore. I tre personaggi teatrali (registi, attori, operatori) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro. I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.

“Per chi ha la mia età, come dire, per quel poco che vale, per chi ha fatto il '68 (l’anagrafe però non mente: gli anni erano allora 20, tondi tondi) un palinsesto teatrale che ne giustifichi la formazione “critica” e la spinta “professionale”, gode di precise coordinate spazio temporali. L’architrave, o se volete la curva di riferimento, prende forma e contenuti a metà dei ’70. Si fortifica e ramifica negli anni a venire (irrobustiti, personalmente, da copiose frequentazioni transalpine), scollina e declina, nella sua esplosiva, farneticante elaborazione, sulla metà degli ’80. Si arena? Si sfalda? Si esaurisce? Si sgretola? No di certo. Ma inesorabilmente (inevitabilmente) chi ebbe la ventura di attraversarlo, e di assistervi, da quel decennio ricavò “impressioni” che si sarebbero rivelate in qualche modo uniche e irripetibili. Diciamo incomparabili epperò continuamente raffrontabili. Insomma, su quello che poi avremmo visto da “critici”, pesava un originario vizio di forma, un peccatuccio originale che, la verginità perduta, avrebbe fatto da paraocchi, generando una presunzione appunto da “critico” navigato. Non scevra di ombre e ingiustificati pregiudizi.
rizza3Ora, non per sfilarsi, ma scindere, isolare in/da questo mosaico alcune tessere, singoli episodi, nomi, titoli esemplari e protagonisti capitali, è davvero impossibile. Che la memoria si affastella mentre improvvisi flash si affacciano in proscenio: Leo e Perla che fanno Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (e giù a trincare), Carmelo che recita Dante affacciato alla Torre degli Asinelli di Bologna, Tino Carraro che veste Lear, il Puntila di Tino Buazzelli, il Malato immaginario di Romolo Valli, la Winnie di Gabriella Bartolomei. Più che singoli spettacoli allora, ma la memoria al volo ne aggancia di classici (l’Amleto di Bergman e l’Amleto di Ljubimov, il Principe di Homburg di Peter Stein, i Personaggi di Vasiliev) e d’avanguardia, soprattutto d’oltreoceano (Living, Squat, Mabou Mines, Richard Foreman, La Mama) valgono alcuni autori, del cui viaggio, dato l’abbrivio in quegli anni di festa, abbiamo avuto la fortuna di essere in parte testimoni. In casa Giorgio Strehler (L’opera da tre soldi, La tempesta), Luca Ronconi (in principio fu Utopia più di Orlando, poi il Laboratorio pratese e sublime l’arrivo in via Merulana), Massimo Castri dai tempi di Ibsen (Rosmersholm), Carlo Cecchi dai tempi di Pinter (Il compleanno), Romeo Castellucci alias Raffaello Sanzio dai tempi di Santa Sofia.
In trasferta Peter Brook alle Bouffes du Nord (La tempesta in primis), Ariane Mnouchkine alla Cartoucherie (Tartufo su tutti), Pina Bausch in giro per l’Europa, Bob Wilson “incontrato” alla Biennale ’77 (Einstein on the Beach), Tadeusz Kantor “scoperto” sui banchi della Classe morta, Bartabas rivelatosi a cavallo sotto lo chapiteau del suo Zingaro. Infine, se ci è consentita una digressione coreografica, non possiamo dimenticare la favolosa, impareggiabile fluidità compositiva di Juri Kylian”.

Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, non dovrebbe andare a teatro; dovrebbe andare in bagno”. (Bertolt Brecht)

Tommaso Chimenti 04/10/2016

Nelle due foto (partendo dall'alto): Gabriele Rizza con Federico Tiezzi e Francesco Colella; Gabriele Rizza con la sua band Per certi versi

FIRENZE – I sogni, l'infantile gioco continuo del teatro declinato in versione circense. Che cos'è in definitiva il circo? E' l'impossibile rattoppato, è il vintage dai colori sbiaditi e sgualciti ma che contiene in sé luce e bellezza senza eguali, è contorsionismi e camminare sulle mani ovvero un mondo ribaltato dove tutto è possibile, un universo capovolto dove i bambini comandano e gli adulti stanno a guardare, un paradiso dove ci sono figure incredibili e donne alte tre metri. E così con “Extravagante” i MagdaClan hanno cucito le maschere fatte di pezza appena uscite dalla mente creativa e fervida della sarta, vera deus ex machina degli spettacoli di strada: ago e filo idea e produce anime che produrranno emozioni e meraviglia. Che il circo è anche riciclo, ridonare vita a quello che, nel mondo capitalista e consumistico, è stato messo da parte, allontanato, emarginato. Qui, in questa bolla di sapone atemporale, i freaks, qualsiasi essere, ha una sua valenza e importanza, una sua dignità di esistere.Magda2
Sotto questo tendone colorato, come le tende berbere o mongole o indiane, si raccontano storie millenarie spruzzate di fantasia. Perché, a volte, è bello credere all'impossibile e così facendo renderlo plausibile. Con la sua Singer che pedala e sferruzza e sferraglia, al sapore di “Fantasia”, compone un ventaglio di personaggi-alieni tanto inquietanti quanto teneri: esseri allungati, spilungoni come giocatori di basket e allampanati con al posto della testa (viene alla mente “L'uomo senza volto” con Mel Gibson) chi un lampadario, chi una abatjour, chi un megafono (sembrano la lampadina della sigla iniziale della Pixar).
Attorno a loro, ossimoro e matrioska, una sorta di cane da guardia piccolo circo in miniatura (li vendono all'Ikea; ogni bambino dovrebbe averne uno in camera, per nascondersi, crea mondi paralleli personali), prima tremante e tremolante, un tendoncino nano, timido e impaurito e poi morsicante come pitbull o rottweiler sbavante, alligatore o squalo bianco assassino, o addirittura troll fagocitante e cannibale come pianta carnivora famelica o piranha satanico. Ma è tutto un susseguirsi di figure e apparizioni, epifanie sul filo eterno del gioco, della parodia, mischiata con sottile e leggera arte alla poesia, frullata con la malinconia dei Noir Desire, velata di nostalgia, profumata di magia. Ne viene fuori un impasto gustoso, fragile e croccante dove trova spazio anche il critico che cerca parole altisonanti e paragoni eclatanti per spiegare l'inspiegabile, per cercare di razionalizzare ciò che non può essere tangibile, concreto, del nostro mondo terreno.
Magda1La danza incantata con un foglio bianco (le lettere mai spedite, le parole mai dette, le scuse mai pronunciate), che pare la piuma di Forrest Gump, che vola, rimbalza, senza mai toccare terra e sembra telecomandata o legata ad un filo, incollata alle mani e ai piedi del performer che lo accarezza delicatissimo come aquilone piegando le forze di gravità al suo volere, quasi domatore o incantatore di serpenti melliflui. E la donna che si rimpicciolisce in un sarcofago e lo scala come King Kong sull'Empire State Building, e l'uomo che gioca con le scale, da sempre simbolo di caduta ma anche di approdo alle nuvole, a Dio come Torre di Babele o novello Icaro, la scala che è fuga e libertà. Ma i trucchi sono belli proprio perché sono finti ma mai falsi, sono appunto deviazioni dalla realtà ma mai illusioni per frodare. Il velo cade e questo mondo stralunato e strampalato, vive e convive dietro le quinte pronto ad entrare in scena, a mostrare il proprio numero provato infinite volte e imparato a memoria, tutti dietro il paravento della felicità, aspettando il proprio turno, scalpitanti e frementi se ne stanno a rimettere a posto, rammendare, perfezionare il passo, la mossa, l'abito di scena. Un'iniezione di polvere di stelle: la stardust di Ziggy, dritta, sparata nelle vene.

Tommaso Chimenti 23/09/2016

FIRENZE - “Nel quartiere borghese c'è la pace di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe piena ogni sera l'esistenza” (P.P.Pasolini)

In punta di piedi, come a socchiudere un'anta, da piccoli, durante il nascondino, vedere e non essere visti, scrutare luoghi familiari, sempre uguali e sempre diversi, farsi presenza, aleggiare per prendere e respirare quell'imprendibile e intangibile essenza che vola e veleggia per le strade conosciute, per le vie consolidate di ricordi e quotidianità. Maria Cassi si affaccia nel proprio quartiere e a “Schegge” ci porta dentro un piccolo mondo fatto di personaggi e storie circoscritte quanto universali, temi e topos che raccontano molto più di un angolo di cemento e intonato, molto più a fondo di marciapiedi e scritte sui muri. Scende giù in strada in una notte insonne, “buia e tempestosa” per dirla con la dolcezza dello Snoopy scrittore sul tetto della propria cuccia, e incontra le figure care, sembrano pascoliane o leopardiane, che gli gravitano attorno, uno sciame di umanità gonfia e divertente nelle consuete manie, negli stessi stilemi che creano quell'amalgama, Cassiquel denso e vischioso composto che forma l'anima (che non si può raccontare ma solo vivere e stratificare giorno su giorno) di ogni quartiere.
E compaiono il suo gatto che imperturbabile le fa le fusa come colbacco a coprirle le orecchie, la Cupola di Firenze grassa e bellissima a proteggere, lo sbandato innocuo e bonario che cerca incessantemente una sigaretta, il classico anziano che porta fuori il cane (o è il cane che porta fuori lui, ormai), le dirimpettaie pettegole di un'era che va a scomparire, fatta di inquadrature seppiate neorealiste che ci portano dirette alla pasta che trasudano le righe di Vasco Pratolini o, per altri versi più ruvidi, quelle pungenti di Jean Claude Izzo. Il tossico che si aggira come zombie, lo spacciatore magrebino in bicicletta come vampiro, la signora “ex bella” avvelenata e arrabbiata con la vita e con il tempo che passa.
E' una fotografia quella che scatta Maria Cassi, un'istantanea scolpita di appunti di un viaggio immobile, fermo alla porta di casa ad osservare (mai voyeuristicamente né morbosamente, ma con amore pieno) questo groviglio di anime, questa Spoon River che si avvia a terminare un'altra giornata che andrà ad assommarsi alle migliaia di altre, a formare quel panetto di burro, solido e spalmabile insieme, che è l'ordinarietà, fatta delle tante piccole certezze delle quali continuiamo a sobbalzare, ad esserne ingordi e gelosi e grati. Il quartiere della Cassi sono i suoi occhi, che fanno da riflesso e contraltare con quelli del vecchietto lucido (qui il mimo viene fuori con delicatezza e potenza espressiva nei silenzi cassi2carichi), in un'altalena a rimbalzarsi la stessa visione presa da due punti diversi, un'immagine bloccata da angoli opposti. Questa flotta di gente che vaga, torna e parte e va, questa ciurma che cammina e si perde, questa folla indifferente che si muove e sgomita o guarda e s'appoggia solamente, si fa strada tra l'odore del pane e quello che prende a calci una lattina contro una saracinesca, tra i vicini di casa e i loro accenti terreni e caldi e quella civetta che sorvola, controlla, spiega le ali quasi a benedire un'altra giornata portata a termine come fieno in cascina.
Una novella (buona) che frulla la vita privata e quella pubblica del rione, guardando dal buco della serratura l'equipaggio di questa nave sgangherata, questa moltitudine di corpi e gesti e occhi che si accendono in cerca di comprensione e affetto. In “Schegge” ci sono le facce e le mani di tutti quegli sconosciuti che ormai ci sono familiari anche se non ci siamo mai presentati, pezzi di un puzzle che ci è caro, parti di un quadro che sentiamo nostro. Ci senti Simenon tra le pieghe del discorso, tra i solchi dei vinili che scricchiolano come ogni esistenza.
Vedere il quartiere con occhi diversi, provare a guardarlo giù in tutte le case, andare col vento su per le finestre, sentirne gli umori che ne escono fuori. È come scostarsi un peso dal cuore, è come scoprire che esiste l'amore, sapere che i muri son gonfi di vita che sta prorompendo con forza infinita”. (Pierangelo Bertoli, “Vedere il quartiere”)

Visto al Teatro del Sale il 1 settembre 2016

Tommaso Chimenti 02/09/2016

Sabato, 07 Maggio 2016 14:52

Resoconto Premio corti shakespeariani

FIRENZE – Shakespeare lo puoi sezionare e dividere, stralciare e tranciare, farlo a brandelli e prenderlo a pezzi, a morsi, a forbiciate e rimangono sempre versi e atmosfere di altissime vette. Smembrandolo non si perde niente della potenza e dell'aroma che sgorga, della facilità e della felicità, dell'ascolto pieno e del lasciarsi andare. Non a caso dopo 400 anni dalla sua morte siamo ancora qui a vivisezionare tra le righe, tra le pieghe il detto e il non-detto, il certo e il dubbioso, e ogni interrogativo, ogni punto di domanda apre nuove infinite chiavi di letture e porte, nuovi rimandi e parentesi.
Nelle tante celebrazioni shakespeariane (perché festeggiare la morte e non la nascita?), che tra l'altro la ricorrenza del 23.04.1616 lo accomuna ad un altro grandissimo della letteratura mondiale, Miguel Cervantes (gli eventi legati all'autore del “Don Chisciotte” da noi, comunque terra latina, latitano se non proprio sono ridotti al minimo), ha trovato una giusta casa l'idea del Teatro dell'Antella di far declinare il Bardo in tanti corti teatrali-esperimenti, lasciando massima libertà sulla maniera di affrontarlo.
Una rassegna corposa questo “Visioni shakespeariane” (direttore artistico l'attore Simone Rovida; va avanti fino al 19 giugno) che ha avuto la sua punta nella finale del concorso dei corti, al massimo della durata di quindici minuti, per declinare il loro Shakespeare nella forma e nelle modalità che, singoli e compagnie, sentono più vicino al loro modo di intendere il teatro. E allora, tra gli otto selezionati per la serata conclusiva (il primo classificato ha vinto la possibilità di una residenza artistica di dieci giorni per affinare una produzione che poi entrerà nel cartellone ufficiale della prossima stagione del teatro diretto da Riccardo Massai) abbiamo visto il muto e il brillante, il monologo come l'ensemble, il drammatico e tragico con il brillante e scanzonato. Shakespeare è sostanza e materia ma anche pretesto e scusa, è soffio di piuma e incudine, è nuvola e fango, poesia e sangue, è per questo che continua a toccare le nostre bassezze e le nostre speranze, il nostro “guscio di noce” e il nostro “spazio infinito”.
Partendo dal vincitore (in giuria Erriquez, il cantante del gruppo Bandabardò, lo scrittore noir Marco Vichi, il professore universitario Alessandro Serpieri), il milanese Christian Gallucci, con il suo “Martin Luther King lo faceva meglio”, trova il suo incipit nel monologo, abusato e travisato nel tempo, dell'“Essere o non essere” che diventa passepartout ed escamotage per raccontare la vita faticosa dell'attore con i sogni e le aspettative che si scontrano con la realtà fatta di lavori duri e ritagli di tempo da dedicare alla realizzazione delle proprie aspirazioni, del fare della loro passione-bisogno un lavoro retribuito, il tutto in chiave leggera e ironica, sul non mollare e insistere, puntando con veemenza sull'“essere”, accantonando, fin quando non suonerà la campana, il “non essere” in un angolo ad ammonirci certo della fine senza che questo diventi cappio e asfissia o paura che blocca.
Al secondo posto Roberta Sabatini è stata un'intensa “Gertrude” (testo di pathos quello di Andrea Mitri), calice di vino rosso e occhi dritti senza paura, una madre contemporanea che parla, senza sentimentalismo né mielosità, al figlio, quell'Amleto che adesso la odia ma verso il quale lei rivendica un amore sconfinato e che continua a proteggere, come leonessa con i cuccioli, con vigore e resistenza dagli attacchi esterni, una madre parafulmine che si addossa le colpe per salvare il suo bene più prezioso, il frutto del suo ventre.
Chiude il podio il “Shake Ofelia” di Fulvio Pera, con Chiara Salvucci che qui è la figlia di Polonio, incerta e indecisa, ma non così vuota e priva di volontà come molte volte ce l'hanno rappresentata. Un'Ofelia di oggi, con smartphone, un'Ofelia che lavora per la famiglia Macbeth, che sta al telefono con Iago, che, mentre aspetta nell'attesa infinita Amleto, legge “Romeo e Giulietta”. Con forza e decisione questa ragazza prende in mano la propria vita e tenta, contro la sorte o la sfortuna, di non farsi schiacciare da quelle che al momento le sembrano pesi insormontabili e insopportabili. Perché c'è sempre una via d'uscita, c'è sempre un'altra chance.
Segnaliamo qui anche i Bitols con “Piccola avventura di un cuore a Venezia” che, in un impianto da teatrino di giro, in un mercato che ha ricordato a livello di tappeto sonoro la fauna umana e gli olezzi del “Profumo” di Suskind, fanno muovere un coltellaccio-mannaia (che vola portandoci con la memoria alla “Fantasia” disneyana) di un macellaio che taglia, seziona, squarta pezzi di manzo, fino ad arrivare al nocciolo, all'essenza, al cuore pulsante, quella “libbra” che Shylock pretende per la sua usura. Certamente non adatto ai vegani.
L'interessante idea del Teatro dell'Antella è quella, dopo questo primo step shakespeariano, di affrontare ogni anno un autore universale, un classico del teatro, e farlo declinare sempre in forma di corto. Perché il teatro non se la passa così bene, ma è tutt'altro che morto e questa esperienza sta a dimostrare ancora il valore e l'interesse che si muove e vibra attorno alla scena, all'attore, alla magia, alle parole che qualcuno nel silenzio, nel buio, lascia che arrivino ad altri disposti a succhiarle, a prenderle, a respirarle.

Tommaso Chimenti 07/05/2016

FIRENZE – E' il primo esperimento della loro trilogia teatrale. Il più datato, anche se parliamo di soli quattro anni fa. Da questo “Reality”, al netto di premi Ubu, sono arrivati poi “Rewind” e “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Con queste tre onde il duo Deflorian – Tagliarini ha sconnesso, sparigliato, smosso le acque ferme della stagnante situazione teatrale italica. C'è un gusto francese con bagliori berlinesi. Danzatori che non danzano, attori che imprimono al testo la loro non-recitazione come modo non solo di interpretare o di stare sul palco ma di affrontare l'argomento, la tesi, l'ipotesi, il tema. Perché i nodi da sciogliere sono sempre pesanti e c'è di mezzo sempre la memoria, il passato, il nostro stare nel mondo, la riproducibilità del gesto, il passaggio, la comunicazione del nostro essere ed esistere. Il tutto affrontato con la leggerezza di una discussione aperta, di una chiacchierata dentro e fuori i personaggi che altro non sono se non ponti per una migliore connessione ed empatia, conoscenza e trasmissibilità di informazioni. Si impara, si apprende, ci stimola il loro non-dialogo, quel canovaccio che è sempre fluido e malleabile, quell'essere un passo nella Storia e un passo in quell'hic et nunc ricreato come mero fatto teatrale, quindi finto e fiction, ma talmente vero, reale, possente, da poterne sentire gli scricchiolii dello sterno quando in alcuni passaggi la respirazione ha un'estasi di fermezza e timore.
Se in “Rewind” riuscivano a farci vedere “Cafè Muller” di Pina Bausch mimandoci le mosse da un pc che dava le spalle alla platea e parlandoci del loro rapporto, viscerale e lontano, con il mito di Wupperthal, quindi un lavoro intenso di analisi e al tempo stesso autobiografico, scandagliando i gesti come in una lectio magistralis sentita e carnale dove le molte competenze vengono miscelate con l'aneddotica e il cuore pulsante della vita vissuta e trascorsa, se in “Ce ne andiamo” si parlava della crisi economica europea dal punto di vista marginale e laterale, piccolo e spoglio della quarta età che non ha più niente da chiedere e con i sogni ormai aridi e avvizziti, in questo “Reality” (da considerare anche il volume “La trilogia dell'invisibile”, targato Titivillus a cura di Graziano Graziani, 160 pp, 14 euro) si affronta il tema da una parte della solitudine, dall'altra del racconto del sé.
Nel 2000 muore d'infarto in mezzo ad una strada di Cracovia una signora polacca. Sembra una storia come un'altra, uguale, purtroppo, a mille altre, di quelle che non fanno nemmeno cronaca né notizia. Ma a casa i parenti più prossimi ritrovano quasi 800 quaderni dove l'anziana fin da giovane, da ben cinquantasette anni, annotava tutti i gesti della giornata, categoria per categoria, colazione, pranzo, regali fatti e ricevute, le telefonate, eventi inaspettati, le visite, i programmi televisivi, i libri letti, le persone incontrate. Un lavoro immenso e maniacale da monaco amanuense, in bella calligrafia, che però non si può ascrivere soltanto ad una lucida follia della signora rimasta sola con tutta una vita davanti impiegata nel compiere sempre le stesse ripetitive azioni. Numerare oggetti e situazioni serve a rendere l'imponderabile e l'ignoto del mondo esterno conoscibile e malleabile al nostro volere. Se la realtà è in continuo movimento e trasformazione, cambia ad ogni istante e non dà punti di riferimento, la sua elencazione e catalogazione la porta ad essere comprensibile, schiacciata in un solo segno tangibile su di un foglio casalingo, quindi il massimo del comfort e del controllo su quella particolare circostanza che nel mentre del suo accadimento ci mette in ansia e agitazione perché non prevista e di fronte alla quale, forse, proviamo imbarazzo perché non siamo pronti ad affrontarla.
E' una sorta di diario di bordo, senza interlocutori né possibili lettori, quello che la donna traccia e dal quale, come storici, possiamo risalire ad abitudini e movenze, e nel quale stanno soltanto i fatti, depurati dal merito, dal giudizio, dalla passione, la vita così com'è, bidimensionale e spicciola anche squallida, come si è formata e affermata in quel determinato tempo e in quel dato spazio. E' lei il suo segretario che registra in maniera consolatoria una serie infinita di azioni, più o meno sempre le stesse, è lei il suo controllore e carnefice. Sembra che viva in funzione di quei quaderni, di quest'azione che è divenuta la vera essenza della vita, anzi ne è divenuta la vita stessa. Forse provava piacere e soddisfazione e utilità personale nel riepilogare punto per punto, passo per passo, le sue giornate e il sentirle piene di cose da riportare le dava il senso del tutto, riempiva quel vuoto debordante e assordante che non riusciva a controllare se non con il suo conteggio e ordine.
Gli attimi, i momenti, gli accadimenti, importanti e non, tutto è visto con il binocolo e con il microscopio, con il grandangolo e con il caleidoscopio del suo mondo intimo, tutto viene annotato, anche le minuzie piccolissime e prive di qualsiasi fascinazione, narrazione e curiosità facendo diventare ogni giorno ricordabile, proprio perché è stato trasposto su carta, e al tempo stesso dimenticabile, proprio perché simile a mille altri. Con gli schemi riesci a sezionare la realtà, con le ascisse e i riquadri provi a renderla più addomesticabile e mansueta, più morbida e commestibile. E' tutto lì nero su bianco e non può più fuggire, scapparti di mano. E una vita minima, vissuta nell'ombra, nella massa in dissolvenza di un unico paesaggio, di molti passaggi, diventa letteratura innalzandosi ad un grado speciale tanto da essere raccontata, vista, ascoltata, letta, studiata.
Ogni vita è un'opera d'arte e nel solco tra l'indifferenza e l'infinito Tagliarini e Deflorian camminano sul cornicione tra verità e finzione nascondendo adesso, svelando ora, celando a più riprese esaltando esponenzialmente successivamente perché per dare senso alla realtà ci vuole il concreto del gioco e la poesia della riflessione. Se il minuscolo diventa eccezionale è la conferma che ogni esistenza dovrebbe essere assorbita e compresa, annusata e bevuta. Siamo tutti simili, banali, consuetudinari, abitudinari nel nostro scorrere dei secondi, dei minuti, delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni. Siamo corpi, piedi, parole, sorrisi, siamo sabbia al vento spazzata via in un soffio, siamo un gigantesco enigma, grottesco inganno al quale cerchiamo di dare una soluzione. Per questo siamo, ognuno di noi, Dio, per questo siamo Infinito, siamo imperscrutabili misteri che nessun elenco potrà mai sciogliere.

Visto al Teatro Cantiere Florida, Firenze, il 10 marzo 2016.

Tommaso Chimenti 13/03/2016

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