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Resoconto Premio corti shakespeariani

FIRENZE – Shakespeare lo puoi sezionare e dividere, stralciare e tranciare, farlo a brandelli e prenderlo a pezzi, a morsi, a forbiciate e rimangono sempre versi e atmosfere di altissime vette. Smembrandolo non si perde niente della potenza e dell'aroma che sgorga, della facilità e della felicità, dell'ascolto pieno e del lasciarsi andare. Non a caso dopo 400 anni dalla sua morte siamo ancora qui a vivisezionare tra le righe, tra le pieghe il detto e il non-detto, il certo e il dubbioso, e ogni interrogativo, ogni punto di domanda apre nuove infinite chiavi di letture e porte, nuovi rimandi e parentesi.
Nelle tante celebrazioni shakespeariane (perché festeggiare la morte e non la nascita?), che tra l'altro la ricorrenza del 23.04.1616 lo accomuna ad un altro grandissimo della letteratura mondiale, Miguel Cervantes (gli eventi legati all'autore del “Don Chisciotte” da noi, comunque terra latina, latitano se non proprio sono ridotti al minimo), ha trovato una giusta casa l'idea del Teatro dell'Antella di far declinare il Bardo in tanti corti teatrali-esperimenti, lasciando massima libertà sulla maniera di affrontarlo.
Una rassegna corposa questo “Visioni shakespeariane” (direttore artistico l'attore Simone Rovida; va avanti fino al 19 giugno) che ha avuto la sua punta nella finale del concorso dei corti, al massimo della durata di quindici minuti, per declinare il loro Shakespeare nella forma e nelle modalità che, singoli e compagnie, sentono più vicino al loro modo di intendere il teatro. E allora, tra gli otto selezionati per la serata conclusiva (il primo classificato ha vinto la possibilità di una residenza artistica di dieci giorni per affinare una produzione che poi entrerà nel cartellone ufficiale della prossima stagione del teatro diretto da Riccardo Massai) abbiamo visto il muto e il brillante, il monologo come l'ensemble, il drammatico e tragico con il brillante e scanzonato. Shakespeare è sostanza e materia ma anche pretesto e scusa, è soffio di piuma e incudine, è nuvola e fango, poesia e sangue, è per questo che continua a toccare le nostre bassezze e le nostre speranze, il nostro “guscio di noce” e il nostro “spazio infinito”.
Partendo dal vincitore (in giuria Erriquez, il cantante del gruppo Bandabardò, lo scrittore noir Marco Vichi, il professore universitario Alessandro Serpieri), il milanese Christian Gallucci, con il suo “Martin Luther King lo faceva meglio”, trova il suo incipit nel monologo, abusato e travisato nel tempo, dell'“Essere o non essere” che diventa passepartout ed escamotage per raccontare la vita faticosa dell'attore con i sogni e le aspettative che si scontrano con la realtà fatta di lavori duri e ritagli di tempo da dedicare alla realizzazione delle proprie aspirazioni, del fare della loro passione-bisogno un lavoro retribuito, il tutto in chiave leggera e ironica, sul non mollare e insistere, puntando con veemenza sull'“essere”, accantonando, fin quando non suonerà la campana, il “non essere” in un angolo ad ammonirci certo della fine senza che questo diventi cappio e asfissia o paura che blocca.
Al secondo posto Roberta Sabatini è stata un'intensa “Gertrude” (testo di pathos quello di Andrea Mitri), calice di vino rosso e occhi dritti senza paura, una madre contemporanea che parla, senza sentimentalismo né mielosità, al figlio, quell'Amleto che adesso la odia ma verso il quale lei rivendica un amore sconfinato e che continua a proteggere, come leonessa con i cuccioli, con vigore e resistenza dagli attacchi esterni, una madre parafulmine che si addossa le colpe per salvare il suo bene più prezioso, il frutto del suo ventre.
Chiude il podio il “Shake Ofelia” di Fulvio Pera, con Chiara Salvucci che qui è la figlia di Polonio, incerta e indecisa, ma non così vuota e priva di volontà come molte volte ce l'hanno rappresentata. Un'Ofelia di oggi, con smartphone, un'Ofelia che lavora per la famiglia Macbeth, che sta al telefono con Iago, che, mentre aspetta nell'attesa infinita Amleto, legge “Romeo e Giulietta”. Con forza e decisione questa ragazza prende in mano la propria vita e tenta, contro la sorte o la sfortuna, di non farsi schiacciare da quelle che al momento le sembrano pesi insormontabili e insopportabili. Perché c'è sempre una via d'uscita, c'è sempre un'altra chance.
Segnaliamo qui anche i Bitols con “Piccola avventura di un cuore a Venezia” che, in un impianto da teatrino di giro, in un mercato che ha ricordato a livello di tappeto sonoro la fauna umana e gli olezzi del “Profumo” di Suskind, fanno muovere un coltellaccio-mannaia (che vola portandoci con la memoria alla “Fantasia” disneyana) di un macellaio che taglia, seziona, squarta pezzi di manzo, fino ad arrivare al nocciolo, all'essenza, al cuore pulsante, quella “libbra” che Shylock pretende per la sua usura. Certamente non adatto ai vegani.
L'interessante idea del Teatro dell'Antella è quella, dopo questo primo step shakespeariano, di affrontare ogni anno un autore universale, un classico del teatro, e farlo declinare sempre in forma di corto. Perché il teatro non se la passa così bene, ma è tutt'altro che morto e questa esperienza sta a dimostrare ancora il valore e l'interesse che si muove e vibra attorno alla scena, all'attore, alla magia, alle parole che qualcuno nel silenzio, nel buio, lascia che arrivino ad altri disposti a succhiarle, a prenderle, a respirarle.

Tommaso Chimenti 07/05/2016

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