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Il quartiere di Maria Cassi: “Schegge” di un’umanità che fa le fusa

FIRENZE - “Nel quartiere borghese c'è la pace di cui ognuno dentro si contenta, anche vilmente, e di cui vorrebbe piena ogni sera l'esistenza” (P.P.Pasolini)

In punta di piedi, come a socchiudere un'anta, da piccoli, durante il nascondino, vedere e non essere visti, scrutare luoghi familiari, sempre uguali e sempre diversi, farsi presenza, aleggiare per prendere e respirare quell'imprendibile e intangibile essenza che vola e veleggia per le strade conosciute, per le vie consolidate di ricordi e quotidianità. Maria Cassi si affaccia nel proprio quartiere e a “Schegge” ci porta dentro un piccolo mondo fatto di personaggi e storie circoscritte quanto universali, temi e topos che raccontano molto più di un angolo di cemento e intonato, molto più a fondo di marciapiedi e scritte sui muri. Scende giù in strada in una notte insonne, “buia e tempestosa” per dirla con la dolcezza dello Snoopy scrittore sul tetto della propria cuccia, e incontra le figure care, sembrano pascoliane o leopardiane, che gli gravitano attorno, uno sciame di umanità gonfia e divertente nelle consuete manie, negli stessi stilemi che creano quell'amalgama, Cassiquel denso e vischioso composto che forma l'anima (che non si può raccontare ma solo vivere e stratificare giorno su giorno) di ogni quartiere.
E compaiono il suo gatto che imperturbabile le fa le fusa come colbacco a coprirle le orecchie, la Cupola di Firenze grassa e bellissima a proteggere, lo sbandato innocuo e bonario che cerca incessantemente una sigaretta, il classico anziano che porta fuori il cane (o è il cane che porta fuori lui, ormai), le dirimpettaie pettegole di un'era che va a scomparire, fatta di inquadrature seppiate neorealiste che ci portano dirette alla pasta che trasudano le righe di Vasco Pratolini o, per altri versi più ruvidi, quelle pungenti di Jean Claude Izzo. Il tossico che si aggira come zombie, lo spacciatore magrebino in bicicletta come vampiro, la signora “ex bella” avvelenata e arrabbiata con la vita e con il tempo che passa.
E' una fotografia quella che scatta Maria Cassi, un'istantanea scolpita di appunti di un viaggio immobile, fermo alla porta di casa ad osservare (mai voyeuristicamente né morbosamente, ma con amore pieno) questo groviglio di anime, questa Spoon River che si avvia a terminare un'altra giornata che andrà ad assommarsi alle migliaia di altre, a formare quel panetto di burro, solido e spalmabile insieme, che è l'ordinarietà, fatta delle tante piccole certezze delle quali continuiamo a sobbalzare, ad esserne ingordi e gelosi e grati. Il quartiere della Cassi sono i suoi occhi, che fanno da riflesso e contraltare con quelli del vecchietto lucido (qui il mimo viene fuori con delicatezza e potenza espressiva nei silenzi cassi2carichi), in un'altalena a rimbalzarsi la stessa visione presa da due punti diversi, un'immagine bloccata da angoli opposti. Questa flotta di gente che vaga, torna e parte e va, questa ciurma che cammina e si perde, questa folla indifferente che si muove e sgomita o guarda e s'appoggia solamente, si fa strada tra l'odore del pane e quello che prende a calci una lattina contro una saracinesca, tra i vicini di casa e i loro accenti terreni e caldi e quella civetta che sorvola, controlla, spiega le ali quasi a benedire un'altra giornata portata a termine come fieno in cascina.
Una novella (buona) che frulla la vita privata e quella pubblica del rione, guardando dal buco della serratura l'equipaggio di questa nave sgangherata, questa moltitudine di corpi e gesti e occhi che si accendono in cerca di comprensione e affetto. In “Schegge” ci sono le facce e le mani di tutti quegli sconosciuti che ormai ci sono familiari anche se non ci siamo mai presentati, pezzi di un puzzle che ci è caro, parti di un quadro che sentiamo nostro. Ci senti Simenon tra le pieghe del discorso, tra i solchi dei vinili che scricchiolano come ogni esistenza.
Vedere il quartiere con occhi diversi, provare a guardarlo giù in tutte le case, andare col vento su per le finestre, sentirne gli umori che ne escono fuori. È come scostarsi un peso dal cuore, è come scoprire che esiste l'amore, sapere che i muri son gonfi di vita che sta prorompendo con forza infinita”. (Pierangelo Bertoli, “Vedere il quartiere”)

Visto al Teatro del Sale il 1 settembre 2016

Tommaso Chimenti 02/09/2016

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