FIRENZE – E' il primo esperimento della loro trilogia teatrale. Il più datato, anche se parliamo di soli quattro anni fa. Da questo “Reality”, al netto di premi Ubu, sono arrivati poi “Rewind” e “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Con queste tre onde il duo Deflorian – Tagliarini ha sconnesso, sparigliato, smosso le acque ferme della stagnante situazione teatrale italica. C'è un gusto francese con bagliori berlinesi. Danzatori che non danzano, attori che imprimono al testo la loro non-recitazione come modo non solo di interpretare o di stare sul palco ma di affrontare l'argomento, la tesi, l'ipotesi, il tema. Perché i nodi da sciogliere sono sempre pesanti e c'è di mezzo sempre la memoria, il passato, il nostro stare nel mondo, la riproducibilità del gesto, il passaggio, la comunicazione del nostro essere ed esistere. Il tutto affrontato con la leggerezza di una discussione aperta, di una chiacchierata dentro e fuori i personaggi che altro non sono se non ponti per una migliore connessione ed empatia, conoscenza e trasmissibilità di informazioni. Si impara, si apprende, ci stimola il loro non-dialogo, quel canovaccio che è sempre fluido e malleabile, quell'essere un passo nella Storia e un passo in quell'hic et nunc ricreato come mero fatto teatrale, quindi finto e fiction, ma talmente vero, reale, possente, da poterne sentire gli scricchiolii dello sterno quando in alcuni passaggi la respirazione ha un'estasi di fermezza e timore.
Se in “Rewind” riuscivano a farci vedere “Cafè Muller” di Pina Bausch mimandoci le mosse da un pc che dava le spalle alla platea e parlandoci del loro rapporto, viscerale e lontano, con il mito di Wupperthal, quindi un lavoro intenso di analisi e al tempo stesso autobiografico, scandagliando i gesti come in una lectio magistralis sentita e carnale dove le molte competenze vengono miscelate con l'aneddotica e il cuore pulsante della vita vissuta e trascorsa, se in “Ce ne andiamo” si parlava della crisi economica europea dal punto di vista marginale e laterale, piccolo e spoglio della quarta età che non ha più niente da chiedere e con i sogni ormai aridi e avvizziti, in questo “Reality” (da considerare anche il volume “La trilogia dell'invisibile”, targato Titivillus a cura di Graziano Graziani, 160 pp, 14 euro) si affronta il tema da una parte della solitudine, dall'altra del racconto del sé.
Nel 2000 muore d'infarto in mezzo ad una strada di Cracovia una signora polacca. Sembra una storia come un'altra, uguale, purtroppo, a mille altre, di quelle che non fanno nemmeno cronaca né notizia. Ma a casa i parenti più prossimi ritrovano quasi 800 quaderni dove l'anziana fin da giovane, da ben cinquantasette anni, annotava tutti i gesti della giornata, categoria per categoria, colazione, pranzo, regali fatti e ricevute, le telefonate, eventi inaspettati, le visite, i programmi televisivi, i libri letti, le persone incontrate. Un lavoro immenso e maniacale da monaco amanuense, in bella calligrafia, che però non si può ascrivere soltanto ad una lucida follia della signora rimasta sola con tutta una vita davanti impiegata nel compiere sempre le stesse ripetitive azioni. Numerare oggetti e situazioni serve a rendere l'imponderabile e l'ignoto del mondo esterno conoscibile e malleabile al nostro volere. Se la realtà è in continuo movimento e trasformazione, cambia ad ogni istante e non dà punti di riferimento, la sua elencazione e catalogazione la porta ad essere comprensibile, schiacciata in un solo segno tangibile su di un foglio casalingo, quindi il massimo del comfort e del controllo su quella particolare circostanza che nel mentre del suo accadimento ci mette in ansia e agitazione perché non prevista e di fronte alla quale, forse, proviamo imbarazzo perché non siamo pronti ad affrontarla.
E' una sorta di diario di bordo, senza interlocutori né possibili lettori, quello che la donna traccia e dal quale, come storici, possiamo risalire ad abitudini e movenze, e nel quale stanno soltanto i fatti, depurati dal merito, dal giudizio, dalla passione, la vita così com'è, bidimensionale e spicciola anche squallida, come si è formata e affermata in quel determinato tempo e in quel dato spazio. E' lei il suo segretario che registra in maniera consolatoria una serie infinita di azioni, più o meno sempre le stesse, è lei il suo controllore e carnefice. Sembra che viva in funzione di quei quaderni, di quest'azione che è divenuta la vera essenza della vita, anzi ne è divenuta la vita stessa. Forse provava piacere e soddisfazione e utilità personale nel riepilogare punto per punto, passo per passo, le sue giornate e il sentirle piene di cose da riportare le dava il senso del tutto, riempiva quel vuoto debordante e assordante che non riusciva a controllare se non con il suo conteggio e ordine.
Gli attimi, i momenti, gli accadimenti, importanti e non, tutto è visto con il binocolo e con il microscopio, con il grandangolo e con il caleidoscopio del suo mondo intimo, tutto viene annotato, anche le minuzie piccolissime e prive di qualsiasi fascinazione, narrazione e curiosità facendo diventare ogni giorno ricordabile, proprio perché è stato trasposto su carta, e al tempo stesso dimenticabile, proprio perché simile a mille altri. Con gli schemi riesci a sezionare la realtà, con le ascisse e i riquadri provi a renderla più addomesticabile e mansueta, più morbida e commestibile. E' tutto lì nero su bianco e non può più fuggire, scapparti di mano. E una vita minima, vissuta nell'ombra, nella massa in dissolvenza di un unico paesaggio, di molti passaggi, diventa letteratura innalzandosi ad un grado speciale tanto da essere raccontata, vista, ascoltata, letta, studiata.
Ogni vita è un'opera d'arte e nel solco tra l'indifferenza e l'infinito Tagliarini e Deflorian camminano sul cornicione tra verità e finzione nascondendo adesso, svelando ora, celando a più riprese esaltando esponenzialmente successivamente perché per dare senso alla realtà ci vuole il concreto del gioco e la poesia della riflessione. Se il minuscolo diventa eccezionale è la conferma che ogni esistenza dovrebbe essere assorbita e compresa, annusata e bevuta. Siamo tutti simili, banali, consuetudinari, abitudinari nel nostro scorrere dei secondi, dei minuti, delle ore, dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni. Siamo corpi, piedi, parole, sorrisi, siamo sabbia al vento spazzata via in un soffio, siamo un gigantesco enigma, grottesco inganno al quale cerchiamo di dare una soluzione. Per questo siamo, ognuno di noi, Dio, per questo siamo Infinito, siamo imperscrutabili misteri che nessun elenco potrà mai sciogliere.
Visto al Teatro Cantiere Florida, Firenze, il 10 marzo 2016.
Tommaso Chimenti 13/03/2016