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Parlare di filtro senza filtri: Recensito incontra Claudio Morici

Claudio Morici scrive bene ma legge anche meglio. Tra le tante cose si occupa di rapporti umani, sentimenti e comunicazioni difficili. Lo abbiamo intervistato in occasione di "Lui e Leila", il suo nuovo spettacolo, in scena dal 4 al 6 novembre al Teatro Biblioteca Quarticciolo.

Il reading sembra essere la tua forma di espressione prediletta. Cosa c’è dietro questa scelta?
“Io vengo dalla scrittura di romanzi, sono sostanzialmente uno scrittore. Non ho mai studiato teatro in vita mia né pensato di farlo. Ho scritto romanzi e, per quindici anni, è stata la mia attività principale... però faccio parte degli scrittori, diciamo così, di nicchia.
È che a forza di presentare libri recitandoli in brani davanti a un pubblico, ho scoperto che li “leggevo bene”: una sorta di talento che mi è stato riconosciuto. Da lì hanno iniziato a invitarmi per leggere pezzi di libri. Dopodiché molte persone che 1moricinel teatro ci lavoravano mi hanno consigliato di allargare questi pezzi che facevo e di riscriverli appositamente come spettacoli. Ho fatto il primo, ho fatto il secondo... mi diverte molto di più, adesso faccio solo questo, non scrivo più romanzi. È più bello, ho scelto una forma d’arte più sostenibile economicamente e anche più divertente. Inoltre, non ho più tempo di scrivere romanzi! Quando lo facevo, avevo impostato la mia vita su quello. Ho fatto il pubblicitario, sono andato all’estero, ma tornato a Roma con un figlio di tre anni fare lo scrittore di romanzi era impossibile! Per scrivere avevo bisogno di lavori che mi lasciavano tanto tempo e alla fine non mi pagavano molto... e non faccio certo parte della classe sociale che se lo può permettere! Sai com’è quando hai esigenze pratiche che trasformano anche la tua forma di espressione artistica... ecco, a Roma, posso anche mantenermici con i reading! E poi è divertente, ho riscoperto il contatto con il pubblico, che non sentivo da quando facevo musica a vent’anni. Sono tutti lì davanti a me e io devo fare qualcosa con loro, gli devo raccontare una storia e ogni volta lo spettacolo cambia. Persone molto brave mi vengono a trovare e mi danno consigli: mi hanno aiutato Giacomo Ciarrapico e Christian Raimo, poi ho collaborato anche con Sabina Guzzanti. Non è né teatro né lettura di un libro, il reading è proprio un obiettivo: i miei testi vanno letti, il leggio ha un ruolo scenico, non è che non mi ricordo le cose a memoria!”.

Oltre alla forma del reading, a tornare nei tuoi spettacoli è anche un certo tipo di contenuto: perché ti soffermi spesso sui rapporti umani filtrati dai social o dalla tecnologia?
“Ecco, il nuovo spettacolo è tutto così, parla proprio del “filtro”, quello più famoso: la tecnologia. In realtà, nella storia si capisce che non è solo questa a essere colpevole... tutto il mondo è filtro. La riflessione dello spettacolo va oltre questo, magari fosse solo la tecnologia il problema! Se tutto il mondo è filtro, allora l’osservazione del reale in quanto tale ci dice che non solo con un cellulare siamo tutti più lontani: anche parlandoci faccia a faccia, infatti, ciò che ci arriva sono solo onde sonore, vibrazioni nel timpano, non la persona! Nessuna persona arriva mai all’altra fino in fondo, a prescindere dai media”.

È da questa esigenza di raccontare il “filtro” che nasce Lui e Leila?
“È come se tutto ciò che ho messo nei miei vecchi spettacoli, esplodesse. Nei gli altri reading era tutto più paradossale e surreale. Si parlava di situazioni reali in contesti impossibili, c’erano sempre giochi che davano la verità ma in maniera indiretta. Questo spettacolo è, invece, più realistico e spero che chi lo vedrà si riconoscerà in queste dinamiche anche se sembrano strane. In realtà sono cose che accadono davvero! Sarà che Daniele Parisi [co-autore, Ndt] mi ha orientato a questo, ma le cose che si sentono in questo reading sono cose che possono accadere esattamente così come sono raccontate. I rapporti, l’amore, sono uno strumento di comprensione del reale. A livello sentimentale poi in realtà sembriamo tutti matti, tutti scemi, tutti irrazionali, problematici; di nessun rapporto potresti dire che è normale”.

Eliana Rizzi 31/10/2016

Italianism: stilnovismo postmoderno

Dieci parole per dieci illustratori per otto rappresentanti Made by Italians è Italianism. È integrato al programma dell’Outdoor festival all’ex caserma Guido Reni, l’appuntamento imperdibile nell’ambito dell’arte contemporanea: appartenente al contesto di riqualificazione del luogo - l’ex caserma appunto - visitato dagli artisti, che a questa edizione hanno travestito gli spazi di nuove vesti. 
Tema portante dell’edizione Italianism di quest’anno è stato il Design della parola con la direzione artistica di Renato Fontana. Cosa è significato dare la giusta forma e il giusto peso e significato ad una parola specifica, ce l’hanno spiegato i “talk” degli ospiti. Un’interessantissima scoperta attraverso quelle che sono state le parole ITALIANE, dieci per ognuno, scelte da coloro che hanno sostenuto per una ventina di minuti ciascuno il proprio discorso attorno ad esse. Snocciolando come un rosario di dieci nodi il proprio mondo attraverso il loro pensiero, è stata l’attribuzione fatta per ogni parola all’immagine di un illustratore/collettivo/istituto a rendere ultranarrativa quest’esperienza.
Ebbene Giuseppe Patota - linguista, professore ordinario dell’Università di Siena - con il peso della storia e della cultura ha sviscerato la letterarietà di un mondo dietro parole, le cui attribuzioni grafiche sono state perfette, Annamaria Testa - pubblicitaria e saggista, esperta di comunicazione e creatività - ha deciso di giocare da brava comunicatrice strategica attraverso il doppio senso delle sue scelte.
Nicola Lagioia - scrittore, Premio Strega 2015 - sublime anche con la propria dialettica, è intervenuto forse nella forma più brillante di tutte, quella con cui ha preso il culto dell’essere italiano e fondendolo con la propria persona ha messo su un costrutto di idee splendide che con una lettura divertente, forte e intelligente ha parlato fondamentalmente dell’italianità: quella della mafia, della provvidenza della controriforma (“che in Italia è stata senza riforma”), concludendo in un emblematico silenzio nel cibo, diventato argomento virale “di cui non ho niente da dire”.
Gli interventi letterari si sono alternati a quelli più eccentrici e non meno arguti, come quello di Cosmo e di Amir Isaa - che hanno ulteriormente intrattenuto il pubblico nella serata a tema Italian Night, assieme ai resident di L-Ektrica Andrea Esu e Fabrizio Esu. Se con Cosmo abbiamo viaggiato dentro la sua vita i suoi testi, che hanno reso di lui, della sua formazione filosofica un paroliere esperto nel racconto del suo mondo interiore, Amir Isaa anche lui, attraverso i suoi oculati idiomi, ha spiegato tanto di sè accompagnato dall’interessante lettering degli artisti che ne hanno contraddistinto il pezzo. Entrambi interventi che hanno reso brillante e servile il loro lavoro per la lingua, quella stralunata e mentale di un cantautore e quella più spuria e dissacrante di un rapper.
All’appello restano Monica Fabris (Presidente di Episteme, filosofa e ricercatrice), Alex Giordano (eclettico esperto digitale, docente di Innovazione Sociale e Marketing all’Università Federico II di Napoli) e Patrizia Ravaioli (amministratore dell’Ente strumentale alla Croce Rossa Italiana), tutti fondamentali nelle loro scelte e nell’aver costruito attorno ad esse il racconto della loro esperienza e formazione di vita.
Ultima e non meno importante colei che ha gestito e moderato la faccenda italiana: Valentina Parasecolo. Anche lei ha deciso di portare sul palchetto di Italianism le sue dieci parole, tra queste Pinocchio, la cui riflessione attorno al piccolo personaggio nato dalla penna italiana ha fatto addentrare il pubblico dentro la visione di un carattere e un mondo solo nostro.
Presentata infine attraverso la mostra di ottanta poster che raccontano le parole discusse (10 parole per ognuno degli otto relatori), scelti come chiave di lettura della conferenza e realizzati in collaborazione con i partners tecnici: [ADCI – Art Directors Club Italiano; ARF! Festival di storie, segni & disegni, Roma; Betterpress Lab, laboratorio di stampe a caratteri mobili, Roma; C41 Magazine; IED - Istituto Europeo di Design Roma; ISIA - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche, Urbino; Lahar Magazine, Padova; Lettering da, network creativo nazionale; La Scuola Open Source, Bari] come narrazione visiva delle parole selezionate dai relatori.
Ad aggiungere colore Imago, magazine di cultura visuale che ha dedicato ad Italianism il suo numero, e nella propria sfera editoriale aderisce pienamente al tema recitando “Dal più, il meno. La creatività salverà l’estinzione del genere umano?”. Citando Cosmo che cita Wittgenstein possiamo solo rispondere che “su ciò di cui non si è in grado di parlare, bisogna tacere” e lasciare al resto dell’arte dire la propria.

Emanuela Platania 30/10/2016

Immagini (dall'alto): "Ritmo", Plaza; "Tempo", Paolo Voto (ripreso anche in copertina)

Recensito incontra l’attore Igor Mattei

Igor Mattei è un attore a 360 gradi, impegnato su diversi fronti, diviso tra cinema, teatro e direzione artistica. L’abbiamo visto attualmente sul grande schermo nel film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo”, mentre a fine novembre debutterà, sul palcoscenico del Teatro Piccolo Eliseo, con lo spettacolo “Risorgi” di Duccio Camerini. Da tre anni, inoltre, è il direttore artistico del “Festival Ad Arte CalcataTeatroCinemaFestival”, iniziativa che intende promuovere il teatro e il cinema italiano indipendente. Dal set del nuovo film di Carlo Benso, “Te absolvo, che sta girando in questi giorni, Mattei, dotato di grande esperienza e animato da profondi ideali, si racconta a Recensito, parlando dei suoi progetti attuali e futuri.

Sei attualmente al cinema con il film di Roberto Faenza “La verità sta in cielo”, vero e proprio “film inchiesta” sul caso Emanuela Orlandi, che da anni interessa l’opinione pubblica italiana. Che significato ha avuto per te prendere parte ad un progetto di questo tipo?
“Prendere parte a questo film di Roberto Faenza, col quale stavo per lavorare già tanti anni fa all’inizio della mia carriera, ha avuto per me un duplice significato: lavorare al cinema, diretto da un regista del suo calibro da una parte, e dare, con igormatteiuna mia piccola partecipazione in questo film di denuncia, come sempre meno se ne vedono in giro nel nostro Paese, il mio contributo di artista per fare chiarezza su un caso terribile ancora oggi irrisolto, che mi sconvolse da bambino e mi rattrista, mi fa arrabbiare e mi lascia davvero senza parole oggi, se penso a quanti depistaggi, e a quanti insabbiamenti ancora si perpetrano su questo inquietante e drammaticissimo caso.
Mi sento davvero vicino a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, al quale va tutta la mia stima e partecipazione umana, per non avere mai ceduto e per avere combattuto perché venisse fatta luce sulla scomparsa della giovane Emanuela. La Chiesa Cattolica dovrebbe chiedere perdono per questa tragica vicenda e dire tutto ciò che ha da dire in merito ora e non tra duecento anni, se davvero ha intenzione di rinnovarsi, come pare che questo Papa manifesti di volere fare. Sarebbe, questo sì, un atto rivoluzionario, ma ho seri dubbi che la Chiesa possa manifestare tanto coraggio nell’aiutare a trovare la verità”.

Ora stai invece girando da protagonista il nuovo film di Carlo Benso. Puoi anticiparci qualcosa su questo nuovo impegno e nuovo ruolo?
“Proprio in questi giorni sono iniziate le riprese, qui, in questo splendido angolo di Italia per me sconosciuto fino ad ora che si chiama Monferrato, con base nel piccolo e caratteristico paesino di Conzano, perso tra le meravigliose colline, vestite adesso dei più bei colori autunnali. Il mio ruolo in questo caso è quello del protagonista insieme a Toni Garrani. Due preti e due anime a confronto. Don Andrea (Toni Garrani) da una parte, il vecchio parroco del paese fautore di una libertà impossibile che diventa caos, all’interno di un’istituzione come quella della Chiesa e il prete più giovane Don Paolo (da me interpretato), portatore al contrario di una visione ordinata dell’esistenza, che viene inviato da Roma nel piccolo paese proprio per tirare su le sorti di una Parrocchia e dunque una comunità spiritualmente abbandonata ormai a se stessa. Ma come sempre caos e ordine sono i due lati di una stessa medaglia e l’uno sconfina nell’altro.
Dal mio punto di vista posso dire che nella mia vita ho vissuto distintamente entrambi gli aspetti e che dunque è vero che caos e ordine convivono e fraseggiano in noi costantemente, a noi la bacchetta per armonizzarli e farli diventare musica. Mi fa molto piacere rivendicare, in qualche modo, il mio ruolo di Deus ex machina che ha permesso che la realizzazione di questo film prendesse corpo. Quando il regista Carlo Benso mi parlò di questo suo soggetto, avevamo da poco terminato l’avventura della produzione e dell’allestimento dello spettacolo “Lacerimonia” con Marina Biondi e Astra Lanz per la regia di Carlo, che dopo aver debuttato in prima nazionale all’edizione 2015 del nostro Ad Arte Teatrocinefestival, aveva poi replicato per tre settimane a Roma.
Quando Carlo mi fece leggere la sceneggiatura di “Te absolvo” lo chiamai e gli dissi “Ho il produttore che può fare al nostro caso...ma il ruolo di Don Paolo è il mio, posso farlo”. È stata davvero un’illuminazione. Sapevo che il produttore Francesco Montini (Movie Factory), che conosco ormai da anni, avrebbe sicuramente apprezzato il soggetto, dopo avergli chiesto telefonicamente di leggere la sceneggiatura e dopo avermi risposto che l’avrebbe letta con calma. Qualche giorno dopo mi ha chiamato a sorpresa per dirmi che l’aveva letta e che voleva incontrare Benso, che nel frattempo aveva detto che aveva pensato alla mia proposta e che effettivamente il ruolo era giusto per me e che era strano che non ci avesse pensato da subito. Oggi siamo qui, quasi ancora increduli che tutto si sia concretizzato in così breve tempo, per un film indipendente. A Carlo va sicuramente dato atto della sua immensa tenacia e del suo travolgente e contagioso entusiasmo senza il quale sicuramente ci saremmo arenati in tanti momenti".

Non solo cinema: tra circa un mese debutterai al Teatro Piccolo Eliseo di Roma con lo spettacolo “Risorgi” di Duccio Camerini, i cui protagonisti sono personaggi ai margini della società posti davanti ai propri nemici. Una storia tra legalità e illegalità. Come si colloca nello spettacolo il tuo personaggio? Ti va di raccontarci qualcosa in merito?
“Non solo cinema, certo, sarebbe bello farne anche di più di cinema. Ma sappiamo quanto sia chiuso il mondo del cinema italiano, quanto poco se ne faccia di cinema indipendente e quanto poco a me piaccia prestarmi, per carattere, ai convenevoli e alle cerimonie del mondo dello spettacolo ufficiale, in genere.
Ma a parte questo, sì, il teatro, dove tutto, per quanto mi riguarda, è cominciato e continua artisticamente a vivere. Sebbene sia tanto difficile anche lì ormai tenersi in gioco, di fatto.
Dal 30 novembre sarò effettivamente al Piccolo Eliseo di Roma con un meraviglioso testo di Duccio Camerini, regista e attore nello spettacolo, oltre che autore. Un ruolo diametralmente opposto a quello del film che sto girando, se da una parte interpreto un parroco, uomo di fede sincera, che ha fatto dell’ordine la propria barriera contro la paura e contro l’incertezza dell’esistenza, al Piccolo Eliseo porterò in scena un “marchettaro” deciso a tutto pur di riprendersi il suo posto all’interno di una banda di balordi ai margini di Roma, capeggiati da una ruffiana e spietata figura di un trans che sfrutta malformazioni fisiche e non dei suoi componenti per fare cassa. Una dickensiana favola nera nella periferia dell’urbe. Potrei dire senza dubbi che mi ritroverò, in quanto a ruoli da affrontare in questa prima parte di stagione, tra il diavolo e l’acqua santa”.

In base a ciò, credi che il teatro possa avere un ruolo e una funzione sociale?
“Il teatro è per sua natura sociale. È la società che si specchia sempre nel teatro da sempre”.

Hai lavorato con importanti nomi del teatro e del cinema (Latella, Cosimi, Manfredini, Danco), chi ti ha lasciato l’insegnamento più importante?
“Indubbiamente tra i maestri per la mia formazione d’attore Danio Manfredini al quale sono legato anche da una profonda amicizia ormai e Walter Pagliaro. Da un punto di vista registico senz’altro Antonio Latella, ma ancor di più su questo versante Maria Grazia Cipriani, del Teatro del Carretto, Pierluigi Pieralli, e sempre Walter Pagliaro che resta, al suo livello, a mio avviso, uno dei pochi testimoni del teatro di regia esistenti oggi in Italia”.

igormattei2Da tre anni, con Marina Biondi, sei il direttore artistico del “Festival Ad Arte CalcataTeatroCinemaFestival”, un’iniziativa che intende incentivare il teatro e il cinema italiano indipendente. Quest’anno il festival è stato incentrato sul tema dell’eresia, intesa come verità non imposta, quasi a voler sottolineare l’intento di promulgare un’arte anomala, diversa. Quali sono i criteri sui quali ti sei basato per la selezione delle opere e per l’organizzazione della scorsa edizione? Progetti per la prossima?
“I criteri sui quali io e Marina Biondi ci siamo basati per la selezione sono senz’altro quelli della qualità, per me sinonimo sempre di ricerca stilistico-formale, dell’indipendenza (che può coincidere anche con l’emergente) in primis, e da un punto di vista tematico , la scelta di prodotti che avessero contenutisticamente una visione “diversa” e dunque eretica della realtà narrata.
Quest’anno siamo felici di aver intercettato, così senza segnalazioni, come invece il più delle volte capita, spettacoli e film di grandissimo valore. Voglio segnalare per il teatro, tra gli altri, tutti bellissimi, lo spettacolo che verrà presentato per la prima volta a Roma a novembre al Teatro Lo Spazio (nostro partner nella seconda edizione) , “Il bambino che verrà” della compagnia Imprevisti e Probabilità, per la regia di Daniele Furno, che narra ,ricorrendo in parte agli stilemi del teatro fisico e circense, dell’alienazione di due individui nella nostra società, sempre più schiavizzante, in cui invisibili padroni ci obbligano a lavorare ininterrottamente per soddisfare i loro desideri e a imporre desideri non nostri e dunque sempre meno autentici (qui l’eresia del tema per noi).
Quanto al cinema voglio invece segnalare i tre film “sbarcati” sull’isola del cinema di Roma a fine agosto (partner addirittura dalla nostra prima edizione) che stanno meritatamente facendosi largo in modo quasi insperato, data la loro assoluta indipendenza e il fatto di essere opere prime, in Festival internazionali, come nel caso del visionario e così poco italiano film di Alessandra Pescetta “La città senza notte”, arrivato al Toronto Film Festival subito dopo essere stato da noi e inserito tra l’altro anche da Silvano Agosti come “bestemmia programmatica” al suo Azzurro Scipioni, e il commovente, lucido e teso “La notte non fa più paura” di Marco Cassini, film sul terremoto in Emilia, avvenimento scomparso come niente dalla nostra memoria troppo breve di italiani, arrivato alla Festa del Cinema di Roma 2016, all’interno della Sezione Riflessi.
Insomma, non so se il nostro AD ARTE porti fortuna. Di fatto, a quanto pare, abbiamo un grosso fiuto per il vero talento e i fatti ci stanno dando ragione e in fondo essere eretici per noi è anche questo fiutare, senza filtro, i talenti e cercare di farli circuitare anche in questo nostro sciagurato paese in mano alle solite cricche, anche artisticamente parlando. Andare oltre questa logica a costo di farci qualche nemico, è essere eretici”.

Svolgi anche dei workshop: che importanza ha per te la formazione dei nuovi talenti?
“Credo che di workshop ormai non se ne possa più, mai come in questo periodo ne sono venuti su di tutti i tipi; purtroppo la selva è davvero piena di ogni tipo di offerta, spesso più dovuta all’esigenza di voler passare, trasmettere le proprie esperienze. Personalmente, faccio in realtà pochissimi laboratori, rispetto a quanti amerei farne.
Credo che il talento ci sia o non ci sia. Non c’è laboratorio che possa funzionare se manca il terreno sul quale attecchire. Ma certo un buon maestro può senza dubbio aiutare il talento a raffinarsi, a forgiarsi e dunque ad esprimersi al massimo. Dal mio punto di vista penso invece che non necessariamente un artista, più o meno affermato o più o meno popolare, sia automaticamente anche un buon insegnante.
Ritengo che insegnare sia uno dei mestieri più belli del mondo, ma che funzioni solamente se si ha anche voglia di continuare ad imparare. Ho preparato vari allievi per esami di ammissione presso le principali scuole di teatro nazionale, ma ho lavorato anche molto con attori di teatro amatoriale: posso dire di aver messo la stessa passione e di essermi dato in entrambi i casi. Aiutare una persona a esprimere il proprio artista interiore è come aiutare un essere umano a venire alla luce. Ci vuole passione, propensione e sensibilità. Sono caratteristiche che penso di possedere e di poter mettere, senza inganno, a disposizione di un giovane, ma anche non giovane, talento”.

Maresa Palmacci 25/10/2016

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