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Quando si legge la parola “performance” sul flyer di una drammaturgia teatrale, solitamente, la prima, istintiva reazione è quella di un brivido lungo la schiena. Ci si chiede cosa si dovrà affrontare, quali bizzarrie il teatro avrà, stavolta, in serbo per noi. Ebbene, il flyer di “Quando non so che fare cosa faccio” (andato in scena dal 13 al 23 giugno scorso), di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, recita anche, in chiusura, un evocativo e simpatico “si consiglia di indossare scarpe comode”.
Sì, perché si cammina nella suggestiva e al tempo stesso urbana cornice del quartiere Marconi, attorno al Teatro India di Roma. Da una parte il fiume, l’orizzonte, il Gasometro, dall’altra il lungo viale, i negozi, la periferia urbana. Ma andiamo con ordine: si entra nella Sala B del Teatro India, spoglia e profonda, nuda, con Daria Deflorian seduta a distanza dal pubblico. 1Veniamo armati di cuffie bluetooth, con le quali far arrivare la voce sommessa della protagonista fino alle nostre orecchie. Poi si comincia, usciamo dal retro della sala e partiamo per un viaggio, al tempo stesso nella città e nella mente della non-attrice.
Già, perché uno degli obiettivi dello spettacolo è mettere in evidenza cos’è un attore al di fuori del della scena, e di riflesso cos’è il teatro, cosa la recitazione, chi è il pubblico e dove sta il confine (labile) tra palco e realtà. La sovrapposizione dei due è massima, mentre seguiamo Daria a debita distanza lungo le scenografie naturali costruite da Roma: capita di sorpassare una coppia di giovani che litigano, bambini che urlano e calciano un pallone di gommapiuma, di preoccuparsi per qualche goccia di pioggia, di sbirciare fuori dalla vetrina di Tiger, mentre la protagonista solitaria, se solitaria può dirsi per le strade di città, entra, prova qualche strano cappello e commenta, dal vivo, nelle nostre orecchie. Il tutto è condito da brevi riflessioni sull’essere e crescere donna, in bilico tra la scena e la vita, prendendo spunto da aneddoti legati a Stefania Sandrelli e al suo esordio cinematografico in “Io la conoscevo bene” (1965, di Antonio Pietrangeli).
In un percorso in cui tutto sembra casuale, compreso il racconto vocale, forse un po’ troppo spesso abdicato al silenzio, c’è anche spazio per le piccole partecipazioni “scriptate” di Monica Demuru o Ludovica Manzo, a seconda della data, e Francesco Alberici, il cui ruolo non è mai palese prima della rivelazione finale, per i saluti al pubblico. Grande idea, quindi, e costruita con mestiere, quella made in Tagliarini e Deflorian, che potrebbe indubbiamente godere di numerose altre applicazioni. La commistione di storia nelle cuffie e passeggiata in città, infatti, partorisce un’esperienza che meriterebbe di essere provata da chiunque, di solito, rabbrividisca al prospettarsi di misteriose “performance”. Magari al tramonto, con scarpe comode.

Andrea Giovalè
25/06/2018

Da Pantelleria a Roma. Questo è il viaggio di Danilo Ruggero, siciliano trapiantato nella Capitale cinque anni fa. Cinque sono anche le canzoni del suo primo EP "In realtà è solo paura", in cui il cantautore siculo classe ’91 attraversa i suoi ultimi anni condensandoli in brani intensi che passano da racconti intimistici ad altri più universali, oltre ai quali però non mancano critiche aspre ma dannatamente attuali del mondo che ci circonda.
La regista palermitana Emma Dante ha portato il dialetto siciliano a teatro, proponendo non solo storie di Sicilia, ma ricreando atmosfere in cui i sentimenti più profondi dell’Io e un’estetica eterea erano protagonisti di storie umane. Allo stesso modo Ruggero propone, in brani come "Agghiri ddrà" o "Damu foco ai pinsera", testi in siciliano che però non escludono coloro ai quali il dialetto non è familiare, ma anzi li invitano, con musicalità acustiche in cui la voce è accompagnata maggiormente dalla chitarra, ad entrare in questo microcosmo di storie di umanità. "Agghiri ddrà" racconta degli sbarchi in Sicilia, tematica molto sentita nella sua isola di origine, Pantelleria, descritta dal punto di vista di chi arriva. Ma questo brano inruggero1 dialetto siciliano è anche la storia di chi abbandona la propria terra e approda in una sconosciuta, che risulta diversa da come ce la si era immaginata. Danilo Ruggero spiega così il brano "Damu foco ai pinsera": ”è per me forse il brano più importante dell’EP, forse per come mi ci sento emotivamente legato [...]. La mia prima canzone in dialetto, nata forse per sbaglio, in maniera istintiva e poco consapevole a Pantelleria. […] Racconto di come possa accadere di rimanere attaccati, incastrati al proprio passato e di come questo possa condizionare irrimediabilmente ogni scelta futura.”
Non solo coraggio quello di Danilo Ruggero, ma forse anche un po’ paura, una paura però che tramuta in fucina creativa esprimendone le sfumature in ognuno dei 5 brani. Il fil rouge che unisce l’EP d’esordio è sicuramente l’esperienza di vita del cantautore, che descrive la sua crescita musicale e personale, i suoi timori nel tentare di pubblicare i suoi brani per la prima volta e la paura che sta dominando il mondo reale e virtuale, e lo fa però non diventando autoreferenziale, ma ampliando la sua storia in pezzi universali e coinvolgenti, che fluttuano dal folk a brani più cantautoriali, fino a pezzi di matrice pop rock. Il genere è vario, ma allo stesso tempo rimane coerente all’interno di tutto l’EP.
Il cantautore è al momento finalista al Premio Fabrizio De André 2017 con il brano "I figli dei figli degli altri", nel quale articola le paure della società attuale: dalla minaccia concreta del terrorismo fino all’ipocrisia e alla finzione che impera nella realtà di oggi, specialmente quella dei social, la cui più grande paura è forse quella di doversi mostrare ed essere riconosciuti socialmente; un brano duro e sincero: “Le coscienze pulite, l’occidente, le bombe le barriere occidentali, il gioco del terrore, le nuove frontiere del turismo sul barcone. [...] con chi pensa che vada sempre tutto bene e si abitua a dire che è normale fino a quando non succede a due centimetri dal cuore e se succede il dito sul fucile o sulle tastiere. Tutti pronti a sparare.”

L'EP si chiude con "È una questione di scelta", brano 'dedicato' a coloro che non scelgono mai la strada più corretta, ma barano per arrivare, e con "Lo spazio", unica canzone d'amore. "In realtà è solo paura" è un EP sincero, che racconta l’essere umano e la società di oggi senza filtri, così com’è.

Foto a destra: Tamara Casula

Giordana Marsilio 19/06/2018

Oggi avrebbe 80 anni. Nel maggio del ’68, ne aveva 30. In quasi quarant’anni di attività, ha avuto il tempo di comporre numerosi tasselli centrali, nel ricco puzzle del cantautorato italiano, di raccontare storie con la delicatezza e l’eloquio della poesia, forte di un’incrollabile raffinatezza musicale. È Fabrizio De André, artista amato e apprezzato quanto, talvolta, contestato, frainteso. È naturale, quando un genio compositivo si scontra con una qualsiasi cultura, persino se è quella in cui nasce, che questa reagisca in maniera complessa e composita, come lo stesso compositore è cresciuto reagendo irregolarmente al proprio contesto sociopolitico.
Ma, oggi, cosa è cambiato nella nostra percezione di De André? Più difficile ancora, qual è la percezione che ne hanno le generazioni nate senza di lui? Alla Sala Umberto di Roma, il 21 maggio, per l’appunto, ottantesimo anniversario della sua nascita, lo spettacolo musicale del gruppo Mercantinfiera2.0 spazia tra questa domanda e un’altra, opposta, istanza. Da una parte, la ricerca della sua eredità, della sua resiliente attualità, dall’altra la (legittima) celebrazione malinconica di una personalità musicale e poetica la cui eco risuona ancora nei cantautori odierni.

Foto ninè ingiulla e mercantinfiera 2.0.jpgIl tributo che ne risulta, intitolato “Anche se il nostro maggio…”, è una composta riscoperta della sua opera, con particolare attenzione letteraria al disco post-’68, il suo “Storia di un impiegato” arrivato nel 1973 dopo una riflessione lunga un lustro sull’annosa, e mai sanata, questione dell’impegno politico. Districa i nodi del disagio del cantautore, nell’accettare tale impegno, o del parziale sollievo nell’universalizzarlo, il doppio intervento dello scrittore e critico Stefano Gallerani.
Il gruppo musicale, invece, guidato dalla voce faberiana di Ninè Ingiulla, si produce in un’inevitabilmente crudele ma puntuale selezione di brani, dai classici ai più controversi, eseguiti tutti con fedeltà e ricchezza di arrangiamenti (d’altronde, la prima richiede la seconda). La formazione, fortunatamente, lo permette: Giovanni Baldin a tastiere e chitarra, Eleonora Elio al violino, Maurizio Leone ai fiati, tanti e tali che gli valgono una nota di merito, Paolo Pasqualetti alle chitarre e mandolino, Giovanni Romio alla batteria e Giampaolo Roncoletta al basso.
Allo show, preciso e distinto, forse non guasterebbe un pizzico di energia in più, scatenata dal semplice alzarsi in piedi degli interpreti, stavolta soltanto saltuario. Impossibile, però, non restare convinti da una performance preparata e solida, protesa nel giorno della mancata ricorrenza più alle generazioni nostalgiche che all’esplorazione delle nuove. Dimostra, a ogni modo, il grande coraggio di confrontarsi con un mito titanico e complesso come quello di Fabrizio De André. Lui, ne siamo certi, è ancora lungi dal cessare, ogni giorno, d’essere riscoperto.

Andrea Giovalè 22/05/2018

Un po’ pop, un po’ decadenti, un po’ psicanalitici. Sono questi i colori di “Dichiaro guerra al tempo”, in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 20 maggio. Una tela complessa da comprendere pienamente, così come avviene con un quadro cubista. Ogni forma, ogni pennellata ha in realtà un suo peso, un suo perché; allo stesso modo, le intenzioni, le premesse e i messaggi narrati in questo spettacolo, dai riverberi lunari e oscuri, vengono collocati in una dimensione sognante ma al contempo palpabile e reale, perché ruotano intorno all’unico elemento certo dell’esistenza, anch’esso sfuggente ma crudelmente presente: lo scorrere del tempo e le sue conseguenze sul senso della vita. In una stanza semivuota che potremmo assimilare ad una sorta di antro della memoria, con pochi oggetti sparsi per terra, due donne si ritrovano ad interagire; non hanno un nome perché non sono dei personaggi, ma degli archetipi umani. Una contemporanea e vestita con abiti androgini (Melania Giglio), l’altra di epoca elisabettiana (Manuela Kustermann). La prima rappresenta la donna moderna, lacerata dai mostri dei nostri giorni: la depressione, la paura per il futuro, l’amore nella sua fragilità, la paura d’invecchiare. Decide così di dichiarare guerra alla causa di tutto ciò: l’orologio. AGIGLIO Ad aiutarla una donna antica, con abito e gorgiera cinquecenteschi, con una penna e i sonetti di Shakespeare in mano. Le due, tra versi, canzoni e dialoghi, cercano di capire come si possa fermare l’incantesimo del tempo, che così barbaricamente sta strappando via loro ogni speranza. Forse, l’unico modo di vincere lo scorrere delle ore è la poesia? L’amore? I figli? Non si può riuscire a dare una risposta, l’interrogativo è troppo grande. La vera bellezza consiste nel saper riconoscere, godere, ed esaltare il dono della giovinezza. Viste le tematiche estremamente controverse e le modalità con cui la messa in scena le esprime, le due protagoniste, Kustermann e Giglio, ne escono indubbiamente vincitrici. Alla seconda spetta un plauso ulteriore, riuscita, durante la sera della prima, ad andare avanti tra recitato e cantato (con pezzi eseguiti dal vivo che vedono l’alternarsi delle hit di artisti come David Bowie, Prince, Cat Stevens) superando un guasto tecnico al microfono. Nonostante una declinazione smaccatamente al femminile, lo spettacolo si rivolge indistintamente a tutti, perché tutti, in un mondo dominato dalle lancette, sono vulnerabili al passare del tempo e alla sua ancora: l’amore.

Alfonso Romeo – 16/05/2018
(Foto di scena: Fabio Gatto)

La ricerca della felicità è un tema diffuso, in narrativa e oltre. Tra Hollywood, letteratura e la vita di chiunque, inevitabile prima o poi confrontarcisi, sia pure per la semplice e pulsante voglia di essere felici mentre il mondo, la vita o qualsivoglia altro concetto antagonistico sembra opporsi a questa nostra inclinazione. Anche l’autrice, Samira Zuabi Garcia, l’ha fatto, e ha anche congelato questa sua battaglia, per non dire guerra, in un racconto diaristico pubblicato da Montedit per la collana I Salici: “#365 Days Happy”.11
Nato come reportage fotografico sul più diffuso dei social network, nientemeno che Facebook, il libro costituisce la controparte letteraria del progetto di chi, dopo un grave colpo al cuore, ha un bisogno disperato di un nuovo obiettivo. E quale obiettivo più sincero può esserci di ritrovare la felicità perduta? Samira ci racconta tutto questo con trasparenza, distribuendo su 365 pagine il resoconto di 365 giorni della sua vita. Salvo le eccezioni di prologo ed epilogo, il discorso è scandito cronologicamente, non ci sono espedienti narrativi, non si tratta di altro che quello che sembra. La scrittrice, dall’inizio alla fine di un percorso rieducativo alla serenità, si pone di imprimere su carta uno o più momenti felici, escludendo tutti quelli infelici, per ogni giorno che passa.
Perciò, il libro è una mera summa di attimi felici, senza soluzione di continuità né struttura narrativa? Benché la narrazione sia davvero trasparente, tra ciò che promette e ciò che mantiene, “#365 Days Happy” è però una mappa introduttiva all’anima dell’autrice che si può consultare anche in controluce. Non sfuggirà al lettore attento, ma nemmeno al curioso di psicologia, come quasi ogni picco di felicità mostri su di sé le cicatrici di un contrappasso cupo, triste, appartenente forse al passato, forse allo stesso presente. Non solo: vi sono brani scritti a carattere più piccolo del resto del corpus, che se ne distaccano sottovoce. Sfogano valvole di dolore e sconforto che, altrimenti taciute, non solo esploderebbero presto in una crisi, ma priverebbero la lettura di un contrasto dolce-amaro privilegiato e fondamentale.
Nello spirito dell’opera stessa, quello del repetita iuvant, ribadiamo che questo libro non mente, non nasconde, non si vergogna. Quasi a rispecchiare la propria occupazione principale, la fotografia, Samira cattura 365 momenti come una narratrice fedele alla sua immagine di realtà. Se siete in cerca di artifici narrativi, colpi di scena e sconvolgimenti, cercate altrove, “#365 Days Happy” non è né vuole essere questo. Ma d’altra parte, come resoconto di vita, non vuole né può prescindere dalla sua dose di montagne russe. L’autrice, infine, ha visto realizzarsi, persino editorialmente, la sua auto-profezia di felicità in divenire. E noi, invece? Non è tanto se siamo felici, la domanda che il libro ci pone, ma una più autentica e sottile: vogliamo esserlo? Perché, non senza fatica ed esercizio, forse potremmo.

Fotografie di Samira Zuabi Garcia

Andrea Giovalè
14/5/2018

Canada: in un paesino isolato dal resto del mondo, la stravagante Fiona (Fiona Gordon) passa le sue giornate in modo piuttosto monotono, immersa in una routine fatta di libri, casa e lavoro. A un tratto, però, l’esistenza della donna viene scombussolata da una lettera dell’anziana zia Martha (Emmanuelle Riva); l’ancor più stravagante novantenne vive in Francia ed è terrorizzata dall’idea di poter finire in un ospizio, così chiede, disperatamente, aiuto alla nipote. A questo punto Fiona, costretta ad abbandonare la sua vita fra le montagne canadesi, parte alla volta di Parigi. È proprio nella capitale francese che la situazione si complica: la zia Martha è fuggita di casa, così alla protagonista non resta che mettersi sulle sue tracce, imbattendosi, fra una disavventura e l’altra, nell’affascinante clochard Dom (Dominique Abel). L’uomo, innamoratosi di Fiona, decide di aiutarla nelle sue ricerche.
Con uno stile narrativo che si potrebbe definire piuttosto classico, se non lineare o addirittura didascalico, va specificato che "Parigi a piedi nudi", commedia girata dall’accoppiata Abel & Gordon, si nutre di un’ironia molto ingenua, destrutturata, apparentemente naïve, rivelando in realtà la denuncia, nemmeno troppo criptica, di due fra i problemi sociali più sentiti trasversalmente in Europa: la condizione degli anziani e la povertà. APARIGI È in questo gioco dei contrari che si rende possibile l’incontro tra una donna borghese e un senzatetto, trovando sbocco in una sintonia che a poco a poco si trasforma in innamoramento: uno scenario, insomma, abbastanza improbabile al di fuori dal set. Pur inquadrando il genere di commedia come un figlio dell’archetipo chapliniano, è forse questa la forzatura più evidente e squisitamente idilliaca del film. Il tema-cardine della narrazione, invece, risulta essere quello della vecchiaia; la paura più grande della zia Martha è quella della solitudine. Senza l’intervento della nipote, rischia di passare gli ultimi anni in un istituto che non potrà e non saprà comprendere la sua esuberanza. Ad alleggerire argomenti che pesano come un macigno, però, oltre alla sceneggiatura semplice ma sopra le righe ci pensa una regia colorata e fanciullesca, che riprende Parigi in tutto il suo splendore: anche la Ville Lumière, in fondo, è una vecchia signora un po’ eccentrica proprio come Martha, che cerca di andare avanti fra mille paure e contraddizioni.

Alfonso Romeo 09/05/2018

Joe (Joaquin Phoenix) è un ex marine, un ex agente FBI, un servitore degli Stati Uniti che ha visto troppe scene del crimine. Solitario e tormentato l’uomo sceglie di vivere nell’ombra, al riparo dai fantasmi di un passato troppo denso per poter essere superato, si guadagna da vivere salvando dietro compenso giovani ragazze inghiottite dal vortice della prostituzione. L’uomo non ha amici, non ha amanti, non ha relazioni sociali che oltrepassino le quattro mura domestiche condivise con l’anziana e inetta madre di cui si prende amorevolmente cura. Un giorno Joe riceve la chiamata di un senatore newyorkese disposto a tutto pur di riabbracciare la figlia Nina (Ekaterina Samsonov), fatta prigioniera in bordello di Manhattan. Nel tentativo di districare la giovane dalle grinfie dei suoi carnefici, scopre una vasta e ramificata rete di violenza e corruzione. Quando nel tentativo di ostacolarlo proveranno a sottrargli l’unica persona che conti veramente per lui, Joe inizia un implacabile e folle cammino alla ricerca della verità. 

Nelle sale dal 1 maggio, “A Beautiful Day” è scritto e diretto da Lynne Ramsay e basato sul racconto di Jonathan AmesNon sei mai stato qui” da cui è tratto il titolo originale del film, “You Were Never Really Here”. Presentato in anteprima alla 70ª edizione del Festival di Cannes è stato premiato per la Migliore sceneggiatura e la Miglior interpretazione maschile. Al suo quarto lungometraggio, l’autrice scozzese fa sfoggio di una spiccata abilità registica che le consente di esprimere al meglio il forte impatto visivo che da sempre caratterizza il suo cinema. Senza mai scadere nell’autocelebrazione, la Ramsay conferma una naturale propensione alla narrazione per immagini. Una maturità stilistica coltivata nel corso di una carriera costellata da molti riconoscimenti e pochi titoli in filmografia, sapientemente distribuiti nel corso di oltre un ventennio di attività. Dopo l’esordio ancora ventisettenne con il corto di diploma “Small Death”, si fa notare sulla croisette nel 1999 con “Ratcatcher – Acchiappatopi”, commovente racconto di formazione ambientato nel sottoproletariato scozzese. “A Beautiful Day” attinge a piene mani, ed apparentemente in totale consapevolezza, al consolidato repertorio del thriller senza mai venir meno alla propria marca autoriale. Il montaggio - curato da Joe Bini - è studiatissimo ed incalzante: tagli netti ed un audio sempre in anticipo rispetto all’immagine danno l’idea di voler giungere in soccorso ad una sceneggiatura atipicamente asciutta per il genere. Le lunghe e continue digressioni oniriche da un lato rallentano la progressione narrativa, dall’altro la arricchiscono con un’impattante portata estetica un Soggetto non esattamente inedito.

Joe è un personaggio ibrido, una personalità duplice in cui convergono e convivono istanze diametralmente opposte. Alla fisicità brutale e mascolina si alterna una spiccata sensibilità e un senso di responsabilità e premura di stampo materno. In equilibrio fra vita e morte, l’uomo sembra perennemente indeciso se porre fine alle terribili allucinazioni che lo perseguitano o continuare a vivere per quella madre così fragile e bisognosa. Così lo troviamo in bilico sulla banchina della metro, intento a trastullarsi con un coltello a scatto o ancora a spingersi al limite dell’asfissia costringendosi la testa in sacchetti di plastica. Una resistenza al dolore, fisico e psicologico, costantemente esercitata, indotta ed addestrata con metodologie degne della Legione Straniera. Joe è l’incarnazione di una figura archetipica del cinema hollywoodiano, il giustiziere della notte, il killer solitario. Phoenix - in stato di grazia - dimostra ancora una volta la sua capacità di assimilare totalmente i personaggi che interpreta. Fisico imbolsito, respiro pesante, barba e capelli che lasciano un’unica via d’accesso allo sguardo spiritato da soggetto borderline. Un’interpretazione stanislavskijana degna del Travis Bickle/Robert De Niro di “Taxi Diver”. Ma la catarsi attoriale non è il solo punto d’incontro con il capolavoro di Martin Scorsese. Caschetto biondo, fisico acerbo e viso da bambina fanno di Nina la corrispondente postmoderna di Iris/Jodie Foster, la prostituta tredicenne che Travis cerca di strappare - con la stessa brutalità di cui Joe è capace - a un crudele destino. Una città in perenne movimento - restituita nel suo cupo e profondo fascino dalla fotografia di Thomas Townend - custode di un’umanità volubile, corrotta e profondamente ipocrita. Un senso di violenza latente accompagna tre quarti di visione per poi esplodere con una forza impattante, ad alto tasso splatter, degna dei migliori titoli della ‘New Hollywood’ e sorprendere lo spettatore come un fulmine a ciel sereno. L’affresco metropolitano immaginato dalla Ramsay non dista molto da quello seventies di “The Deuce”, ideato per il piccolo schermo da David Simon e George Pelecanos. Il tappeto sonoro creato ad hoc da Jonny Greenwood - storico chitarrista della band britannica, Radiohead - conduce passo dopo passo la narrazione con sonorità sintetiche ed incalzanti che ricordano molto l’ultimo lavoro dei Safdie Brothers, “Good Time”. Del resto la musica sembra voler fuoriuscire ovunque in “A Beautiful Day”, dalle radio perennemente accese alla selezione extradiegetica delle 60’s hits - d’effetto la sequenza snodo che poggia sulla candida voce di Rosie Hamlin in “Angel Baby” - fino alle stesse improbabili interpretazioni vocali dei protagonisti in bilico fra vita e morte.

 

Luisa Djabali  29/04/2018

Cosa c’è più classico di una commedia di Plauto? Probabilmente è questo il quesito alla base de “Il soldato spaccone”, adattamento di e con Vincenzo Zingaro del “Miles Gloriosus” di Plauto, pieta miliare della commedia latina e non solo, in scena dal 20 aprile al 6 maggio al Teatro Arcobaleno di Roma. 

Con questo spettacolo, presentato al pubblico per la prima volta nel 1997 e rappresentato lo scorso anno come evento conclusivo per i festeggiamenti del 25° anniversario della sua nascita, la Compagnia Castalia mette in scena la classicità della commedia a 360 gradi. Non solo Plauto, padre della commedia, ma la sua opera più famosa e longeva rappresentata da un gruppo di teatranti della commedia dell’arte – che, da un lato, fece dei grandi autori comici classici il proprio cavallo di battaglia e, dall’altro, gettò le basi per la commedia moderna dal teatro, al cinema, fino alla televisione. E non occorre andare tanto lontano nel tempo per averne degli esempi, in fondo anche i tanto biasimati Cinepanettoni provengono – alla lontana – dalla stessa famiglia. Classicità latina e Commedia dell’Arte - già legate di per sé da un fille rouge che giunge fino ai giorni nostri – sono qui abilmente impastate da un gioco di metateatro, tecnica amata già da Plauto e Goldoni e consacrata a “classico” da Pirandello. soldato spaccone1

Insomma, gli ingredienti per rendere un classico ancora più classico, per dilettare gli amanti della commedia tradizionale, ci sono tutti, e amalgamati abilmente. Non sarà un caso infatti se lo spettacolo dal 1997 è stato accolto da oltre 40.000 spettatori con le sue circa 200 repliche. Anche osservando il pubblico in sala al Teatro Arcobaleno di Roma, dove lo spettacolo è in scena dal 20 aprile al 6 maggio, si può notare come la ricetta della Compagnia Castalia sia adatta a un pubblico variegato, dagli adulti ai bambini. L’intreccio di base è quello Plautiano: il soldato spaccone Pirgopolinice, che pur vantandosi a sproposito delle innumerevoli e millantate imprese si lascia raggirare dal piano architettato dal suo scaltro servo Palestrione – un Arlecchino ante litteram – per riportare tra le braccia dell’amato la bella Filocomasio, cortigiana finita tra le grinfie del Miles come bottino di guerra. Lui, lei e l’altro diremmo oggi. Ma non solo: ricchi e poveri, servo e padrone, giochi di inganni e incomprensioni. Tutti temi a cui siamo non solo abituati, ma anche affezionati, dai classici ai moderni, da Plauto a De Filippo, fino ad Aldo Giovanni e Giacomo. Il rischio di proporre qualcosa di trito e ritrito – anche se amato - c’era, ma è stato dribblato egregiamente non solo grazie alla brillante performance di tutti gli attori sul palco, ma anche grazie alle azzeccatissime scelte di regia, dall’uso dei dialetti, all’inserimento in sottofondo di incalzanti musiche partenopee, fino al finale a sorpresa. Unica pecca forse la durata: quasi due ore di spettacolo interrotte da una ormai inusuale pausa primo tempo che rischiano talvolta di distogliere l’attenzione del pubblico da una trama, seppur comica, ben articolata.

Virginia Zettin 29/04/2018

 

Costa Smeralda: nelle stanze della villa del Cavaliere, tempio sacro di feste notturne e fughe dalla realtà, una pecora, ansimante sul lussuoso pavimento, resta uccisa dal fortissimo impianto d’aria condizionata, mentre echeggia, dalla televisione, uno show con Mike Bongiorno. Lo spirito di "Loro 1" di Paolo Sorrentino potrebbe benissimo esser custodito esclusivamente da questi fotogrammi: è il ritratto dell’Italia ai tempi del berlusconismo, la fastidiosa fotografia di una società condotta sull’orlo del baratro dall’ambizione e dalla sete di denaro, incarnati, più di chiunque altro, da Lui: Silvio. Il sacerdote, il re, l’imperatore di un mondo destinato a estinguersi, ma che cambierà il Paese per sempre.

Sorrentino torna a raccontare un grande personaggio della politica nostrana 10 anni dopo "Il Divo", concentrandosi stavolta sugli antefatti del tema principale; Toni Servillo, trasformato letteralmente (e volutamente) in una maschera tragicomica da spettacolo di second’ordine, dietro un abbondante strato di cerone, autoabbronzante e capelli posticci, riesce a restituire un Berlusconi che simbolizza appieno la decadenza del potere. ALOROOO Eppure, la sua prima apparizione sullo schermo arriva solo a fine film, o meglio, a circa 25 minuti dal finale; scelta senz’altro opinabile ma audacemente intelligente, oltre che coerente. L’attesa del pubblico, infatti, rispecchia quella dei protagonisti di questo primo capitolo. Per più di un’ora assistiamo alle imprese di Sergio Morra (personaggio che ricalca dichiaratamente Gianpaolo Tarantini), interpretato da un ottimo Riccardo Scamarcio, che insieme alla compagna Tamara (Beatrice Axen) e aiutato dalla escort Kira (Kasia Smutniak), vive nell’ansia spasmodica di poter, prima o poi, avvicinarsi a Lui (così, quasi sempre, ci si riferisce a Berlusconi in Loro 1), grazie ai suoi traffici di droga e di giovani donne in vendita, ovvero quel grottesco valzer infinito di “vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà” che denunciava un’annichilita Veronica Lario ai tempi della separazione dal celeberrimo consorte. A tal proposito Elena Sofia Ricci, perfetta nei panni di una stanca e dolente Veronica, rappresenta psicologicamente la “sezione interna” del racconto, con le ripercussioni e il dolore dell’altro lato del potere. Al marito, che spera di acquistare la sua comprensione coi diamanti, risponde: “Preferivo quando sapevi che avevo freddo e mi regalavi le pantofole”. Al di fuori, intanto, continua la costruzione del “set” per Loro 2: prende forma, inesorabilmente, la corte dei miracoli del Presidente, tra scene (abbellite dal solito perfezionismo sorrentiniano stavolta meno solenne e, visto il tema, più kitsch) che ricordano "Caligola" di Tinto Brass e "The Wolf of Wall Street" di Martin Scorsese. Perché Lui, dopotutto, nulla sarebbe stato senza Loro, cioè “quelli che contano”. Com’è tipico di Sorrentino, anche in Loro 1 ritroviamo un tocco dostoevskijano: il personaggio principale è indiscutibilmente negativo. Quelli che lo circondano, però, sono molto peggio.

Alfonso Romeo 26/04/2018

 

Si dice che camminare faccia bene all’anima. Tanto più se in mezzo alla natura. Forse è per questo che i due protagonisti dello spettacolo “Il bacio”, i neo vincitori del Premio Speciale Teatro della V edizione del Premio Anna Magnani, Barbara De Rossi e Francesco Branchetti – che ne è anche regista – si incontrano durante una passeggiata nel bosco. E non è una passeggiata qualsiasi quella attorno a cui ruota l’intera narrazione scenica. Non lo era quando, ognuno per i propri motivi, hanno deciso di incamminarsi, né lo sarà quando, dopo aver condiviso intensamente parte del cammino, entrambi proseguiranno per la propria strada. Il sipario si chiude, non li seguiamo più nelle loro vite, ma ne usciamo con la certezza che questo incontro li abbia toccati nel profondo, lasciando in loro una traccia indelebile. Come, d’altronde, ne esce commosso il pubblico dallo spettacolo. il bacio 3

Le loro storie le conosciamo passo dopo passo, con la stessa gradualità con cui i due si aprono l’un l’altro. È tutta una questione di fiducia, in fondo. È chiaro che questa donna, già scossa dalla vita e che non desidera altro se non una passeggiata in solitaria le proprie paure - almeno fino alla meta -, non abbia alcuna voglia di condividere né la strada né sé stessa con uno sconosciuto. Tanto più se si tratta di un’altra anima infelice come la sua. 

Eppure, sarà proprio l’estrema solitudine di lui a dargli la forza di non demordere, fino a raggiungere quel tanto atteso contatto, prima di tutto di spirito più che carnale. Due vite ferite e un unico obiettivo – la serenità -, perseguito con due approcci diversi e due modi diversi di relazionarsi. Ma il trucco sta nel non avere paura dell’altro, prima che di noi stessi. Sembra questo il messaggio nascosto tra le righe dal suo autore, l’olandese Ger Thijs, uno dei principali drammaturgi della scena contemporanea dei Paesi Bassi, che, non a caso, ha degli studi di psicologia alle spalle.


Uno spettacolo – attualmente in tournée (sabato 28 aprile al Teatro Europa di Aprilia) - che ci suggerisce come tutti, a modo nostro, siamo soli nelle nostre paure, che però, in fondo, non sono poi così diverse.Ed è così che parlarne, aprirci, raccontarci l’un l’altro, può aiutarci se non a vincerle almeno ad accettarle. Insomma, può essere, in un certo senso, “terapeutico”. Come una camminata.

Virginia Zettin - 26/04/201

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