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MILANO – Sono i due interpreti che più hanno impressionato positivamente al Milano Off Fringe Festival per presenza scenica, carica emotiva, padronanza del palcoscenico, per le loro storie toccanti e struggenti, per la consapevolezza fisica e drammaturgica. Stiamo parlando di Sergio Del Prete, attore campano protagonista di “Sconosciuto”, e Pierluigi Bevilacqua che ci ha portato dentro le spire foggiane di “Frichigno!”. Due storie che hanno molto in comune: ovviamente quello che salta agli occhi è questo Sud che è poco madre e molto matrigna, un Sud che corrode lentamente i suoi figli, che toglie la terra da sotto i piedi, che incastra, impantana, ti affoga nel fango, ti lascia nelle sabbie mobili senza fune, impotente, senza forze, prosciugato. Un Sud lontano dalle cartoline dei turisti che d'estate accendono le luci su sole e mare mentre durante l'anno tutti si scordano, o non vogliono vedere, quello che succede nell'immobilismo, nell'omertà, nell'impossibilità di un futuro degno di questo nome.

E da qui nasceSconosciuto.jpgSconosciuto. In attesa di rinascita” di e con Del Prete, attore solido, che fisicamente riempie il piccolo palco di led a creare un recinto luccicante, che abbaglia quel che non puoi fuggire, la tua sorte che ti insegue come la tua ombra e che non puoi lasciare, che non riesci ad abbandonare. In fondo un'apertura a semicerchio quasi cuccia da cane, tenuto alla catena, forno per passare guccinianamente dal camino, o bocca dell'utero, partorito nuovamente con fatica e sudore e sangue. Come sottolinea il titolo questa è, dovrebbe essere, una rinascita, nuovamente risputato, e rispuntato, alla vita. Ed è un incedere di violente parole d'angoscia e attimi dove la parola d'ordine è “paura”, paura di perdersi, paura di non sapere chi siamo, paura di andare come paura di restare, sempre sospeso, traballante, claudicante tra mille forse, zoppicante tra vorrei irrealizzabili e creduti lontani e impossibili da raggiungere.

In questo clima, in questa periferia, in questo grigiore che dai palazzi arriva a macchiare e lordare anche le pareti dell'anima, la speranza è la prima ad arretrare, a scomparire, a chinare la testa di fronte a quel mondo fisso, eterno, che pare statuario, nell'impossibilità di cambiarlo, nell'impossibilità di felicità, nell'impossibilità di realizzarsi come persona, come individuo, cercando qualcosa in più del sopravvivere e dell'arrivare a domani. Una Napoli lontana anni luce da pizza e sole, da Vesuvio e Maradona, forse più vicina ai fondali naturali di Gomorra o a quelle Vele che non volano. Quello che ci dice Del Prete (ha il phisique du role di Raiz degli Almamegretta), investendoci con le sue parole di battaglia, è un mondo purtroppo già visto e sentito, ma l'attore ci mette forza e convinzione, rabbia e lacrime, una sorta di miserere e buoni propositi che si incagliano negli spigoli oggettivi della realtà sempre Sconosciuto. in attesa di rinascita.jpgpiù acida e fastidiosamente appuntita, scarnificante. C'è poesia e risentimento, rassegnazione e abbattimento, e ogni volta che vede un piccolo barlume nella sua progressione drammaturgica subito rincula verso un abisso consuetudinario a macerarsi nel solito porcile che sterilizza i sogni, che toglie le energie necessarie per poter pensare di cambiare le cose. Le key board sono il non sentirsi adeguati a nessuna situazione, il non ritenersi degni e adatti, la bassa autostima, il vivere con il freno a mano tirato in un continuo vorrei ma non posso logorante, stancante, sfibrante, ammorbante, deludente pieno di solitudine, di desideri ammosciati, di luci fioche, di zero soddisfazioni, con il domani uguale a ieri, con l'oggi in loop impercettibilmente peggiore di ieri. E i debiti e le mancanze e un intorno che propone orizzonti di rifiuti e televisori accesi sul nulla colorato che trabocca manesco e urlante dai vari canali starnazzanti, i silenzi di schiamazzi vuoti che fanno male, “terra bugiarda, terra di veleno, terra in cui l'amore non basta”. “Come fai a riconoscere la bellezza se cresci in mezzo ai palazzi abusivi?”. E' il ghetto che ti mangia, è la distanza che ti tiene lontano, che ti emargina, è l'assenza di abbracci, è quella mano allungata che non riesce mai a toccare l'oggetto del desiderio che diventa sempre più piccolo inasprendoti, inacidendoti, incattivendoti, spezzandoti dentro. Sergio Del Prete, immerso in una bella scrittura pungente, ci racconta queste “nostre vite scassate”, con la furia, tenera e allucinata, di un De Niro in “Taxi Driver”, con decisione, risolutezza e chili di personalità.

Stessa pasta e impronta per “Frichigno!” (Piccola Compagnia Impertinente, testo ricco di Enrico Cibelli): stavolta siamo a Foggia, anni '90, e Pierluigi Bevilacqua (corpulento e corposo, in una parola: di sostanza) dà spazio al suo repertorio che miscela comicità esondante nella prima parte alla quale segue un'amara riflessione acre in quella conclusiva. Illuminante e geniale l'incipit, la molla che tutto fa scattare, l'incastro di due personaggi lontanissimi, uno del grande panorama mondiale, l'altro, anche se ugualmente pubblico, vicino, terreno, tangibile, locale. Come avere un binocolo e poter vedere Seattle e l'intorno a te e poi metterli insieme, sullo stesso terreno comune, nella stessa diapositiva. Miscelare Kurt Cobain, eroe musicale con la sua fine annunciata che aveva distrutto l'era del rock e del pop con il grunge e sovvertito le regole dell'establishment musicale, con Zdenek Zeman, allenatore di Praga, contro i poteri forti, allenatore del Foggia dei Miracoli. Li accomunano gli stessi anni, nel '94 Cobain si spara, la stagione di serie A '93-'94 è l'ultima di Zeman con la squadra pugliese rossonera; e il frontman dei Nirvana e il Boemo vivono dentro, come ribellione, come rivalsa, dentro gli occhi e il petto di un adolescente che trova in queste due “divinità” un appiglio, un antidoto alla solitudine in una città sempre descritta dal Sole 24 Ore come maglia nera d'Italia per mancanza di lavoro, prospettive, qualità scadente di vita, dei servizi, abbandono scolastico, criminalità, fiducia nelle Istituzioni. E Zeman, con la sua squadra tutta votata all'attacco, è come se dicesse a questo ragazzo, e a tutti i foggiani, che finalmente “possiamo pensare in grande”, che “ce la possiamo fare”, che “non siamo sempre gli ultimi”.

La genesi di Frichigno poneFrichigno.jpeg le sue basi con gli americani venuti a liberare lo Stivale dal Nazi-Fascismo: giocando a calcio, quando c'era un fallo il soldato a stelle e strisce gridava “free kick”, ovvero punizione, facile la trasposizione per assonanza in frichigno che, se si vuole, sembra più ricordare un giocatore brasiliano tutto dribbling ubriacanti e colpi di tacco. Se nella prima tranche Bevilacqua è associabile a Checco Zalone (soprattutto quando canta l'inno del Foggia strimpellando, male, le corde di una chitarra), nella seconda si trasformerà in Roberto Saviano. Zeman che porta la fantasia al potere, che è contro il doping e contro il sistema Juventus, uno che non si piega pagandone le conseguenze, uno che non è omertoso, che insegna che, con la fatica e sudore, i risultati si possono ottenere. E Zeman cambia la percezione del mondo per i ragazzi di Foggia di allora, gli dice quello che gli adulti, la scuola e la politica non sono riusciti, o non hanno voluto, dire loro: bisogna lottare, rimboccarsi le maniche, sudare, e dove non si arriva con il talento si può arrivare con la corsa, con la tenacia, allenandosi più degli altri, perché se ti impegni tutto diventa possibile, se rispetti le regole: “Il risultato è casuale, la prestazione no” è l'emblema che se fai le cose per bene prima o poi verrai Pierluigi-Bevilacqua-1068x713.jpgpremiato senza dover scivolare nel vittimismo. Zeman ha ridato una verginità ai foggiani (e al Sud), non li ha fatti più vergognare di ciò che erano, gli ha dato un motivo d'orgoglio, di appartenenza: “Non avevamo più paura”, “Esistiamo anche noi”.

Ed è in questo nuovo clima di giustizia e di voglia di farcela, di rialzare la testa e urlare al mondo “Ci siamo anche noi”, che si interseca l'ultima coraggiosa parte, quella dove Cibelli-Bevilacqua (in una drammaturgia sempre organica e viva) fanno i nomi e i cognomi delle famiglie che da decenni annientano e soffocano Foggia con bombe e strozzinaggio, minacce e pizzo, tangenti e corruzione, attentati e omicidi, rapimenti. Cose che non escono sui giornali, fatti che non arrivano al grande pubblico perché la Puglia è bella, la Puglia sono i trulli e il Salento, ci sono le masserie e i vip, e “lu sule, lu mare, lu ientu”. E' un j'accuse feroce e dritto, senza sconti, senza scorciatoie, con i responsabili chiamati uno per uno, con i tanti, troppi istituzionali “la mafia non esiste”, con il Comune, unico esempio, che non si costituisce parte civile nei processi contro la criminalità organizzata. Il '94 è la fine delle illusioni, l'entrata nel mondo degli adulti, la fine dei giochi, muore Cobain, finisce l'era Zeman e tutto ritorna grigio come prima, sbiadito. E' un urlo per la propria città, per la propria adolescenza che qualcuno si è rubato. A livello italiano dopo Tangentopoli, e l'ondata di proteste e il desiderio di pulizia, arriverà Berlusconi: “La nostalgia è un album da colorare già colorato”. Emozionale, motivazionale.

Tommaso Chimenti 28/09/2022

Foto "Sconosciuto": Guido Mencari

Leggi qui il resconto su Milano Off Fringe Festival: https://www.recensito.net/teatro/milano-off-fringe-festival-resoconto.html 

MILANO – Francesca Vitale, direttrice del Milano Off Fringe Festival assieme a Renato Lombardo, in questi ultimi anni ha viaggiato per il mondo (da Edimburgo a Orlando fino ad Adelaide) per capire, studiare strategie e portare in Italia un modello di fringe che si potesse adattare all'Italia. Nelle ultime stagioni molti ne sono nati, da quello di Roma a quello più organizzato di Torino. In quest'ottica, con il Milano Fringe attivo dal 2016, quest'anno nascerà, sempre diretto dalla stessa organizzazione, anche il Catania Off Fringe nel mese di ottobre. Questa edizione è stata molto più strutturata, composita, dettagliata delle precedenti con ventiquattro diversi spazi dislocati in città, 56 spettacoli diversi (dal 18 settembre al 2 ottobre), un sito ben curato e preciso (milanooff.com), tanti convegni mirati e workshop professionali, due giurie, quella degli esperti del settore e quella dei giovani, e soprattutto grandi premi per i vari vincitori per esportare il proprio lavoro: il premio della “Giuria dei ragazzi” di 1000 euro, il premio “Valore Italia”, il premio “Avignon Le Off”, con ventun giorni di repliche nel famoso fringe francese, il premio “Soho Playhouse” con due settimane di repliche al fringe di NY tutto spesato, il premio “Hollywood Fringe” a Los Angeles, il premio “Barry Church” con partecipazione al “Fringe di Edimburgo”, il premio “Gothenburg Fringe” per partecipare al concorso svedese, il premio “Stockholm Fringe” per esibirsi nella capitale scandinava; e ancora il premio “Palco Off Catania” con repliche al fringe siciliano, il premio “Binario 7” con una data nel teatro monzese, il premio “Teatro Factory 32” con una recita nello spazio milanese, il premio di formazione internazionale “SRSLY”. Un bel quadro, una grande prospettiva di crescita, una spinta di promozione ottimistica per tante giovani compagnie.

Si sa, nei fringe in giro per il mondo, la miglior scelta è buttarsi nel teatro fisico, nel muto, nel gestuale. Questa la scelta del gruppo austriaco Lemour che qui, selezionati dal fringe di Goteborg, Balloon adventures.jpeghanno presentato “Love's left hand” un lavoro che, confusionariamente, ha miscelato danza, circo, comicità in un frullatore che, senza il supporto della musica, onnipresente, decade e si sgonfia inesorabilmente. Una sorta di presentatrice che propone gag ormai abusate e vecchi numeri di cabaret ammicca al pubblica, gioca con il cilindro, tra mosse, mossette, risatine, si mette una barba finta, si atteggia. La drammaturgia è soltanto musicale e nei rari momenti di pausa si sente tutto il gelo del vuoto che si amplifica e si spande dal palco alla platea, il pubblico cade in depressione perché il vuoto cosmico e siderale morde le caviglie. Guardiamo l'orologio ma il tempo, quando ci si diverte, non passa mai. Se voleva far ridere non ci è riuscito. Ma è un lavoro, fatto con la mano sinistra, che ha anche delle pretese: irrompe in scena una coppia che nell'arco di un minuto ha finito la sua parabola esistenziale di incontro, conoscenza, amore e separazione. Non risulta nemmeno infantile perché anche i bambini lo avrebbero trovato banale e sciatto. Non riusciamo a trovare un appiglio, nessuna salvezza arriverà in nostro soccorso. Tocca rimanere fino alla fine per vedere se ci stiamo sbagliando: ecco che imperversano balletti non sense tra la figlia depressa per essersi lasciata dal fidanzato e la madre mentre il compagno resta inspiegabilmente per un buon quarto d'ora sotto il lenzuolo disperato e temiamo che invece non stia soffocando. La madre si veste come il fidanzato (in una sorta di transfert da Psycho al contrario) e il tutto ha un gusto rancido tra il trash e l'incomprensibile. Ma una è la domanda più pressante che ci ronza in testa: perché tutti e tre gli interpreti hanno i calzini bucati? Non lo sapremo mai, come il terzo segreto di Fatima: insvelabile. Il teatro è moribondo, il pubblico allibito, esterrefatto, restiamo increduli tra il soporifero e pesanti silenzi. La recitazione questa sconosciuta. Senza parole era lo spettacolo, senza parole siamo rimasti noi.

Di tutt'altra pasta “Ballon's Adventures” del Collettivo Clown, certamente uno spettacolo per i più piccoli ma che mai scade nella stupidità del gesto, nel facile, nel triviale; invece ha pennellate, poesia, leggerezza, gentilezza, garbo. Già a partire dai costumi dei due interpreti, uno in giallo e l'altro in blu, una chiara presa di posizione cromatica a favore dell'Ucraina. In scena una grande mongolfiera, che muovono con i piedi come fa Fred Flintstones con la sua auto in pietra, e questi due clown goffi e incerti, sbadati e caotici, “sbagliati” come tutti i pagliacci, dalle scarpe grosse e dal cuore altrettanto ampio che si fanno i dispetti ma sono legati da profonda amicizia. Con dei semplici palloncini allungati e cilindrici compiono trasformazioni alchemiche: diventano gabbiani, poi un arco e racchette da tennis, volante di auto e cintura e tergicristalli, ombrello e sterzo di motocicletta, onde del mare e pesci, maschera da sub e pinnai fiori del nuovo mondo.jpg di squalo, bocca e orecchie di coniglio, salsiccia, fiore, ape e cane al guinzaglio (ricorda l'opera di Jeff Koons esposta al Museo Guggenheim di Bilbao), pappagallo sulle spalle dei pirati, fune, elica, spada, fin quando non vengono ingoiati e fagocitati dalle stesse gigantesche palle. Un messaggio anche ambientalista, per insegnare ai più piccoli che niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma. E che qualsiasi oggetto può portare felicità e stupore.

Due amici, legati da un doppio filo di dipendenza, sadico e masochista, sicuro e incerto, deciso e titubante, decidono di lasciare il nostro mondo e di imbarcarsi per altre terre forse cercando “I fiori del nuovo mondo” (compagnia Teatro Segreto, testo, interprete, regia e costumi di Ludovico Buldini). Arrivati la sera su una banchina in attesa di questa barca-Godot per salpare per altri lidi ci ricordano i migranti che lasciano tutto per cercare fortuna altrove: ma aspettano una barca a vela e il loro abbigliamento con polo, pantaloni bianchi e scarpe firmate li identifica più con Porto Cervo che con la Libia. La notte una tempesta shakespeariana sta per travolgerli e sommerge tutto tranne quel limbo di asfalto, quella boa di cemento che adesso (come l'abbazia francese di Mont Saint-Michel con la marea) galleggia in mezzo alle onde. Soltanto con una scatola magica-oracolo che contiene delle carte riusciranno a placare i marosi e i flutti confessandosi peccati per troppo tempo celati, mettendo sul piatto recriminazioni e colpe, aprendosi finalmente oltre l'ipocrisia di rapporti consolidati e incancreniti. Tra i due emerge attorialmente, e soprattutto una bella voce profonda, Diego Frisina, il personaggio timido e irrisolto. La storia è buona anche se quando si mischia il reale con il metaforico si rischia sempre di non essere credibili. La mattina dopo, quando è tornato il sereno, e i due protagonisti sono usciti indenni da questo sogno-incubo, riappare la strada e uno dei due prende effettivamente questa barca che arriva veramente a prenderlo; in quel momento il simbolismo decade e noi crediamo un po' meno a tutto l'impianto.

Pezzo generazionale, ma di valore e qualità, è questo “Mi ricordo”, del gruppo siciliano Barbe à Papà, scrittura e regia di Claudio Zappalà, con in scena tre brave protagoniste che tirano fuori dai loro magici cassetti ricordi d'infanzia che mischiano il piccolo particolare personale autobiografico con la grande storia che scorre con noi, attraverso noi, malgrado noi. Ne emerge un quadro per niente consolatorio della generazione under 30 confusa, con i sogni spezzati prima ancora di averli pensati o sperati, alla quale hanno tolto anche le illusioni, il lavoro, la pensione che non ci sarà, una generazione cresciuta in una scuola che non boccia più, in una università triennale a crocette che ti dà il pezzo di carta ma non forma, una generazione di ragazzi in balia di telefonini e falsi miti, like sui social e apparenza su Instagram. Un j'accuse. Tirano fuori i loro diari e appunti (hanno cazzimma da vendere e capacità interpretative Chiara Buzzone, Federica D'Amore e Roberta Giordano), come doni, come conigli da un cilindro delle meraviglie che però porta più lacrime che sorrisi, poesie, scatti di viaggi. Ne esce fuori insicurezza, incertezza sul domani, anzi voglia di vivere soltanto il presente perché il futuro, Mi ricordo - ph Vito Raia 3.jpeganche a breve gittata, fa paura, perché tutto è in rapido cambiamento e non si riesce a prendere le misure e questi ragazzi non hanno antidoti in uno dei Paesi con la più alta disoccupazione giovanile, dove i ragazzi non vanno a votare perché non si sentono rappresentati, dove è facile deprimersi e demoralizzarsi perché non si hanno orizzonti, perché la meritocrazia non è di casa qui, perché i migliori se ne vanno all'estero. Ed escono da questi parallelepipedi medaglie e cd, libri e sciarpe di squadre, polaroid e cravatte, cappelli. Sono giovani e sembrano parlare con una nostalgia canaglia di un mondo lontanissimo e soprattutto che non ritornerà, come se quella felicità non potesse tornare mai più. Si sente sfiducia e rassegnazione e un lasciarsi andare che fa male all'anima. Ma più che altro, la parola che torna più spesso è “paura” di un mondo che non c'è più e di uno che non si riesce né a costruire né tanto meno a vedere né immaginare.

E' complicato quando continuamente ti cambiano le regole sotto al naso e tutto si muove troppo velocemente e tu non sai, anche perché nessuno te lo ha insegnato, come muoverti, in quale direzione andare in questo deserto dove se la cava chi ha le spalle coperte o talenti sopra la media: ma tutti gli altri? Rimangono in quella vaghezza che va ad ingrossare il fiume degli insoddisfatti, dei consumatori compulsivi, degli infelici che si sfogano sulla tastiera. “Quello che oggi sembra imprescindibile domani sarà dimenticato”, “Quello che oggi sembra importante domani ci sembrerà ridicolo”. Senza punti di riferimento, in balia delle onde, in mezzo a cambiamenti che non si sanno fronteggiare, senza scialuppe di salvataggio è normale annaspare, galleggiare a stento se va bene, o perdersi nel vittimismo o peggio ancora nel nichilismo. I ricordi fanno male perché ti portano nel terreno caldo familiare quando tutto era più piccolo e certo, quando le responsabilità erano ovattate, quando tutto era più semplice. Questi ragazzi sembrano siano senza pelle, più soggetti alla sofferenza, senza rimedi né farmaci contro questo mondo globalizzato che ogni giorno sembra sempre più grande tanto da soverchiarli, fagocitarli in un solo boccone, dove tutto è da consumare e in fretta altrimenti si perde, si sciupa, si rompe o qualcuno ce lo ruba: “Sarà così spaventoso il futuro?”, si/ci chiedono. Non possiamo rassicurarli, purtroppo. “Perché a vent'anni è tutto chi lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell'età”, diceva Guccini indossando il suo “Eskimo”. Non viene da condannarli questi ragazzi, verrebbe invece da abbracciarli. Sarebbe bello dire loro “Andrà tutto bene”, ma anche i cartelli sui balconi accanto al basilico si sono sdruciti e sgualciti e scoloriti.

Tommaso Chimenti 26/09/2022

CAMPSIRAGO – “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” (San Bernardo di Chiaravalle).

Il bosco è il palcoscenico all'aperto di Campsirago, un nome che a cercarlo sulle cartine nessuno c'è. E' l'isola che non c'è, l'inizio dei sentieri per inerpicarsi e incunearsi su per la montagna lombarda torva a fradicia, un nome che rievoca passaggi di civiltà lontane e ancestrali che hanno segnato questi luoghi selvatici più che selvaggi. E c'è la sua bella differenza. Celti e longobardi hanno attraversato queste terre segnandole e i loro rimasugli sono rimasti nell'aria, sospesi in quest'atmosfera tra la magia, il mistero e l'imperscrutabile. A Campsirago abitano durante l'anno trentasei persone ma molte più anime vagano e aleggiano. Si sentono, si vedono, si percepiscono. Qui dagli inizi del Duemila è nato “Il Giardino delle Esperidi”, festival diretto da Michele Losi, manager culturale, visionario imprenditore di idee che non molla fin quando i desideri che anni prima venivano considerati impossibili e irrealizzabili, non si fanno di carne ed ossa. Così alla struttura in pietra dalle mura solide e alla foresteria si aggiungeranno, nei prossimi dieci anni, un teatro nel bosco in stile Mondaino, un teatro dentro una chiesa senza tetto come San Galgano, e verrà ristrutturata anche una grande dependance (grazie ai contributi di Fondazione Cariplo, del comune di Colle Brianza, 100.000, e del G.A.L. Gruppi Azione Locale che hanno accesso a fondi europei 250.000 euro) di circa DSC_7932_WEB.jpg400 metri quadri che conterrà una sala prove, una sala teatrale da una sessantina di posti per creare una stagione vera e propria che si articolerà con repliche tra produzioni e ospitalità nel fine settimana, una falegnameria, una cucina professionale e una sala dove poter pranzare per quaranta persone in stile Corte Ospitale. Ma cosa più suggestiva sarà la creazione di una sauna (Michele Losi spesso in questi anni ha realizzato produzioni nei paesi scandinavi) per rilassarsi ma anche per fare riunioni e anche per proporre spettacoli all'interno della vasca: originale e unica, bagnati e nudi attori e pubblico insieme nello stesso brodo primordiale. Le compagnie residenti passeranno dalle tre attuali, Le Scarlattine, Riserva Canini, le Pleiadi, alle quali si aggiungerà il manovratore di puppet cileno David Zuazola. Insomma il futuro sta a queste latitudini, i sogni qui, con il lavoro e la caparbietà, diventano possibili. Si sente il magma che produce, si muove, si sente il rumore del domani che ha voglia e desiderio di nascere, che spinge, che non sta più nella pelle.

Due le pièce nel bosco, interattive, mai statiche, da pubblico attivo, partecipe (dopotutto questa è una comunità), scarpe da ginnastica, piedi buoni, tanta curiosità e polpacci a scarpinare, la possibilità del sudore che amplifica la piccola fatica, che rende il tempo della piece esperienza da portarsi a casa, da far decantare, cementificare dentro ognuno di noi imprimendola in profondità. Spettacoli come tatuaggi che ti entrano sottopelle e non se ne vanno più. Continuano ad accompagnarti negli anni. E il bosco è il panorama e il fondale perfetto, lo scenario e il set ideale per l'attraversamento, base di queste avventure. L'andare fuori di noi che, parallelamente, sposta piccole cose, riequilibrandole, dentro di noi in un continuo gioco di specchi, di rimandi, di rimbalzi. Camminare, vedere, scorgere, scoprire pezzi del mondo, scovare parti intime di noi immerse in quei luoghi, ora lampanti e palesi. Un respiro profondo ad aprire sterno e polmoni, reali e metaforici. Il bosco fa paura perché è un buco nero e potrai scoprire cosa c'è dall'altra parte soltanto se ti lascerai trascinare, se quella paura non ti bloccherà ma diverrà trampolino per saltare, andare a tastare, a constatare. Ecco, in quest'ottica, “Amleto, una questione personale”, che dopo una prima parte frontale sul palco (che guarda la vallata e Milano che da qui è quieta e silenziosa) si divide in tre sezioni con tre percorsi dissimili che ogni tanto si tangono nelle radure: i “verdi” gli innocenti, i “rossi” i ricchi e potenti, gli “azzurri” i depressi. Silenzio, fila indiana, cuffie: siamo in un rito.

E' appunto, DSC_9845_WEB.jpgda titolo, una questione privata, un corpo a corpo personale del singolo spettatore con il testo, con le dinamiche ancestrali, con il luogo. Camminiamo e nelle orecchie arrivano frasi che nella loro semplicità scombussolano e rimescolano: “Chi sei quando nessuno ti guarda?”, “Di cosa dubiti?”, “Qual è la tua questione?”. Il bosco non risponderà per noi ma aiuta a fare silenzio attorno, a ripulire l'aria dal vuoto, dall'inutile, dal chiacchiericcio ingolfante. Il bosco è un tunnel verso la Madre Terra, è un essere vomitati tra le frasche, è un cercare la via d'uscita, è un tentativo di salvezza, è un tiro ai dadi scommettendo su se stessi. Sul cammino troviamo sparse giacche incastonate su rami come spaventapasseri. E li sentiamo vivi e attuali Ofelia e Amleto, Polonio o Claudio, vicini e comprensibili, giustificabili, terreni, umani, sbagliati, come noi. Nessun giudizio quando fai fatica. Passiamo staccionate che altro non sono che un esperimento di dare un ordine al selvaggio, e capanne (e ci sentiamo Hansel e Gretel) e rifugi e ovili e rovi. E acacie e ortica a pungere e attenzione ai rami se si guarda troppo la terra e attenti alle radici se si ha la testa tra le nuvole. E' muschio ed edera. Spettacoli che fanno crescere, che rimangono invischiati nei nostri capelli, appesi ai nostri sogni, nei nostri giorni.

Se “Amleto” è comunque una prova d'attore (Sebastiano Sicurezza su tutti, forza, istinto, talento, intuizione, intenzione), nella seconda piece “Vivarium” ci saranno i passi reali e le figure stilizzate virtuali a popolare i sentieri del bosco. Ci sarà un perché tutte le fiabe hanno luogo nei boschi. Seguiamo i percorsi del culto delle acque fino ad arrivare alla fonte miracolosa della Madonna del Sasso. Apparentemente sembra che la tecnologia sia agli antipodi della Natura. In “Vivarium” Losi e soci ci dimostrano che non è così, che forse con uno smartphone in mano si riesce meglio, combinando le due visioni, ad apprezzare l'intorno, a vedere tutto quel che si nasconde tra cielo e terra. Ed eccoci immersi nel “cercare la matematica della Natura” (Fibonacci) che in definitiva possiamo laicamente chiamare Dio. Il telefono diventa mappa interattiva, diventa bacchetta magica che trasforma il circostante. Infatti la realtà si mischia con il virtuale che ci fa DSC_6184_WEB.jpgapparire poiane ancestrali, salamandre della tradizione alchemica come scatole che fluttuano o ombrelli elicoidali che sembrano meduse e infine stormi di pesci volanti. Il vero si miscela con l'app per un mix che sposta i punti di riferimento, alimenta la fantasia, accresce l'immaginazione. Le epifanie si manifestano quando, come in una caccia al tesoro in questo trekking poetico-teatrale, in questo pellegrinaggio artistico, entriamo in contatto con dei nodi che abbracciano tronchi. Sono corde di riso giapponesi, le cosiddette shimenawa shintoiste (ad ottobre il direttore Losi andrà per un mese in un monastero nipponico) numi tutelari che ricordano le passate delle ragazze, candidi abbracci a tenere, a non far scappare né cadere. La via è contrassegnata da strisce color oro sui sassi (e non può non venire alla mente la tecnica del kintsugi, letteralmente “riparare con l'oro”, pratica che consiste nell'utilizzo dell'oro per il restauro di oggetti in ceramica). La nostra è una processione lenta, sacra e laica insieme. Andiamo alla ricerca del grande ippocastano, l'albero sacro. E andando alla ricerca di qualcosa fuori dai nostri corpi, troviamo pezzi di noi stessi che rimangono incantati verso la vallata di Renzo e Lucia, guardando l'Adda affiorare e il Resegone fare capolino. La ricerca non si esaurisce mai. “La preghiera è stare in silenzio in bosco”. (Mario Rigoni Stern)

Fuori dal bosco, in un contesto più classico di teatro frontale, ci hanno comunque colpito due proposte lontanissime l'una dall'altra seguendo quel filo sDSC_8976_WEB.jpgottile tra il divertimento leggero ma mai superficiale e l'impegno il tutto giocato su quell'equilibrio che rendono certe serate frizzanti e degne di essere vissute, tenute nella memoria, raccontate. E' così che abbiamo scoperto (i festival servono anche per portare all'attenzione compagnie o personaggi, è questa una delle funzioni dei direttori artistici, quelli coraggiosi, che non si fermano al già consolidato) la milanese Nina Madù, all'anagrafe Camilla Barbarito, con il suo gruppo “Le reliquie commestibili”. Il suo personaggio è una signora aristocratica, stilosa e rarefatta, elegantissima e snob che potremmo mettere nella stessa sezione di Drusilla Foer. E' altera, charmant, scandisce le parole nelle sue esternazioni lente, serafiche, cattivissime, taglienti, pungenti. Non ha peli sulla lingua. E' in sospensione nel suo rock demenziale a cavallo tra Alice ed Elio e le Storie Tese, tra Giuni Russo e gli Skiantos. E' indifferente ai destini del mondo. Parla più che cantare, un po' come il frontman degli Offlaga Disco Pax, ma quando apre l'ugola stempera la platea ricordandoci il grido di “The great gig in the sky” dei Pink Floyd. Pare mummificata ma quando parla tra una ballata caustica e l'altra è intelligente nella sua parodia di una madame enigmatica, saccente al punto giusto, supponentemente noir, zelante come Morticia Addams. Canta le sue hit: “Bitumificio” e “Uomo col riporto”, “Pediluvio” e “Chef crudista”, “Coppia etero” e ancora “Colluttazione con l'hostess” proprio quando gli animi si scaldano e alcuni anziani del borgo alzano la voce, tra minacce e bestemmie, perché non riescono a dormire. I suoi gesti sono controllati e misurati, da consumata star, imbalsamata come Lady Gaga, immersa in mosse da etoile classica. Lei è la Regina e noi siamo i suoi schiavi; salutandoci ci dice: “Buonanotte, Good night, Gute Nacht, Ammammete, Assorete”. Noi ridiamo, lei resta salda sul trono, dopotutto è l'Imperatrice.

Di tutt'altro tono (ma la complessità delle direzioni artistiche è proprio quella di spaziare tra i generi tenendo dritta la barra della qualità) èDSC_0022_WEB.jpg l'esperienza di David Zuazola con il suo “Robot” un impianto di macchinerie e meccaniche sferraglianti per una storia tenera e dura che ci racconta del nostro passato e come si possa ripresentare se non mettiamo in campo validi anticorpi. Una storia d'amore e differenza, un racconto di handicap e di solidarietà umana, di sentimenti che vanno oltre la superficie, che sanno guardare al di là della copertina. In un mondo prossimo al nostro una dittatura (sembra di stare dentro “Fahrenheit 451” o “1984”) cerca, scova e rinchiude in campi di concentramento, prima di farne rifiuti e spazzatura, i robot ritenendoli il male assoluto. Non passano dal camino ma diventano pezzi di ferraglia. I piccoli filo spinato davanti a noi danno un brivido, così come le sirene, gli allarmi, le luci della polizia, i droni a caccia, i soldati che marciano a passo d'oca. Zuazola (ci ha ricordato le piece di David Espinosa) sta tra due tavoli lunghi e manovra davanti e manipola e sposta, da dietro prende oggetti, incastra in un gioco DSC_0056_WEB.jpgtanto infantile quanto eterno. Il filo spinato elettrificato ci parla di morte e di un tempo non troppo lontano da quello attuale. La sua narrazione è un'armonia tra l'odio e la ferocia delle milizie verso le macchine mentre dall'altro lato del suo personale palco allungato, in questo presepe di figure alle quali lui presta il movimento con le sue mani, si apre una scena borghese di musica tranquilla, di casa e veranda, di fiori da annaffiare. La donna è in sedia a rotelle e un carillon di sottofondo ci racconta della sua solitudine malinconica ma in qualche modo, come i tedeschi con i nazisti, ci dice anche che (come ne “Il bambino dal pigiama a righe”) il popolo che vive accanto a certe brutture e storture non poteva non accorgersi di tali barbarie e quindi non può considerarsi innocente e con la coscienza pulita. E' l'incontro tra questi due esseri soli ed emarginati, ognuno nella propria diversità esposta, che fa nascere la voglia di parlarsi a gesti, di comunicare, di sfiorarsi. Sono entrambi prigionieri del proprio corpo, dal quale non possono scappare. Ma l'amore, si sa, è una farfalla che non vola nello stomaco come nei Baci Perugina ma riesce a passare steccati e barriere, sopravvivendo al male, al tempo: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”, pare perfetta per l'occasione la parabola di Wangari Maathai. Intanto il cielo è stellato sopra di noi. Non poteva che essere altrimenti.

“Niente è complicato se ci cammini dentro. Il bosco visto dall’alto è una macchia impenetrabile ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi ad ascoltarlo” (Stefano Benni).

Tommaso Chimenti 28/06/2021

Foto: Alvise Crovato

MILANO – In teatro, di solito, ci trovi degli attori, a volte dei danzatori, altre dei performer. Insomma qualcuno di vivo (si chiama infatti “spettacolo dal vivo”) che si muove, si agita, sta perlomeno, a tratti parla. Ma come fa una cosa ad essere viva (cosa e viva nella stessa frase solitamente stonano, qui no) se non è agita da nessun essere umano? Se sul palco proprio, come un Aspettando Godot, aspettiamo che si palesi qualcuno ma alla fine senti che non è stato importante, che le emozioni sono passate anche attraverso un mezzo “freddo”, che la scossa è stata provocata senza alcuno sguardo, nessuna pausa teatrale, nessun nostro simile nel quale immedesimarsi. Come è possibile che uno schermo, che per sua stessa natura non può dire e quindi scrive, possa farci sentire piccoli e vicini, solidali e uniti, possa farci commuovere, a specchio, parlando alle nostre paure, raccontando la sospensione, nostra e sua dopo un anno e mezzo nel quale il teatro non è stato vissuto, non è stato usato, non è stato calpestato né respirato?foto (C) Laila Pozzo Bruno Fornasari-Tommaso Amadio.jpg

E' il teatro che ci parla, quello fisico, le mura, le poltrone, le americane, il palcoscenico, le funi, i microfoni, ma è anche il Teatro che ci parla, l'istituzione e la cultura, e tutto quello che qui dentro (e dentro tutti i luoghi dove si possa fare e vedere e ascoltare teatro; Peter Brook diceva che “metti un uomo al centro e altri intorno a guardarlo e quello è già teatro”) c'era e vuole tornare ad essere, si muoveva e che è rimasto incrostato per troppo tempo,Bruno Fornasari.jpg sospeso, impaurito, tentennante, come noi là fuori, anzi fuori dal teatro ma chiusi nei nostri loculi ad aspettare un'alba che veniva sempre rimandata. Si chiama “Nel frattempo” questa installazione particolare messa in piedi ed ideata da Tommaso Amadio e Bruno Fornasari che hanno architettato questa macchina che, in quarantacinque minuti, ci ha schiaffeggiato riportandoci alla mente quello che abbiamo passato, trascorso, (non) vissuto, eliminando la dinamica della rimozione dalle nostre memorie e scuotendoci ci ha detto: pensate, riflettete, non buttatevi alle spalle i traumi, soppesateli, teneteli, sciogliete i nodi.

Su quel palco vuoto non c'era nessuno e in definitiva c'eravamo tutti (ah, cosa importante: entrata gratuita, da sottolineare) con le nostre storie di sottrazione rispetto alle nostre vite precedenti. Chi eravamo? Chi siamo diventati? Dobbiamo farci i conti e non nascondere né la testa sotto la sabbia per non vedere né la polvere sotto il tappeto sperando così che tutto sia pulito e lindo.

E' il teatro che ci parla attraverso un deus ex machina, o la sua coscienza, che batte i tasti, è il teatro (in questo caso dei Filodrammatici milanese) che ci interroga cercando uno scambio, una interconnessione, un dialogo con gli umani a sedere sulle poltroncine rosse. E' il teatro che ripensa alla tv, che avrebbe voluto trasformarsi in pizzeria, oppure in night club, tutte scelte fallimentari proprio per la natura intrinseca e la volontà interiore di tutto questo pulviscolo che si sbatte e muove, questo insieme di battiti e di minuzie, questo agglomerato di cose impalpabili ed effimere come gli applausi o le lacrime, i brividi o i colpi al cuore, i pensieri o i sogni. Jouvet diceva: “Niente di più futile, di più falso, di più vano, niente di più necessario del teatro”.

Qui il teatro è uno di noi, è un organismo che ha sofferto, è un'anima che temeva di potersi perdere, il teatro è una forza consapevole e senziente che si apre a noi e si racconta nel suo momento più brutto, la chiusura, la clausura, l'abbandono, il deserto. I tasti battono su una tastiera immaginaria e si concretizzano e materializzano su questo schermo gigante che ci tiene incollati nel seguire i suoi meccanismi cerebrali, le sue intelligenti (a tratti ciniche) digressioni, le sue considerazioni mai banali di intelligenza artificiale con un cuore che pulsa anche senza sangue da pompare. Il teatro pompa emozioni da sempre. Sembra di avere davanti Kit, la macchina del telefilm adolescenziale Supercar, oppure il computer che decodificava il pensiero di Stephen Hawkings. Il teatro è una macchina che però ha pancia e testa, occhi e memoria, scheletro e tutti i sensi aperti per dare e ricevere in un continuo scambio osmotico che svuota e riempie come le onde della marea sulla battigia.NEL FRATTEMPO foto (C) Umberto Terruso.JPG

E' sarcastico quando questo Dio meccanico e terreno (ci conosce molto bene) ci dice che gli sono mancate anche le nostre piccole stoltezze e difetti e debolezze: le caramelle scartate, l'immancabile tosse o un cellulare che suona (e difatti, e non era una gag, dopo poco realmente ad uno spettatore è suonato il telefonino). Lui/Lei ci perdona, è come se ci desse un buffetto, ci spettinasse i capelli dall'alto come fa un padre, uno zio, un fratello maggiore salvandoci, comprendendoci indulgente, assolvendo le nostre piccolezze, stranezze, scempiaggini sceme. Siamo deboli e fragili e a volte anche stupidi ma il Teatro ci vuole bene lo stesso e non perché facciamo volume, non perché riempiamo il suo spazio ma perché sa chi siamo, sa che cosa nel (frat)tempo, in tutto il tempo di frequentazione assidua o scarsa che sia stata, ci siamo detti, ci siamo passati, contagiandoci a vicenda, contaminandoci con la malattia della curiosità, della cultura, del sapere, della conoscenza, del luccichio della volontà di spostare continuamente la nostra asticella personale. Il teatro, come noi, è stato solo, senza alcun contatto. Ci è mancato il teatro ma anche noi siamo mancati a Lui/Lei. Noi siamo indispensabili al teatro ma anche il teatro è indispensabile a noi, anche a quelli che non ci sono mai stati. Il teatro è un luogo di possibilità, di apertura, di dialogo, se rimane chiuso perdiamo tutti una grossa fetta di noi stessi, perdiamo il sogno, perdiamo il domani. Questo “Nel frattempo” è una dedica d'amore di Amadio/Fornasari al teatro, al futuro (forse anche al figlio di Bruno, Mattia nato da un mese), è una dedica agliunnamed (5).jpg spettatori, alle persone che hanno sofferto, è una dedica soffice che si è sciolta in un pianto collettivo e commosso alla fine perché su quel palco vuoto c'eravamo tutti. Forse i balconi erano i nostri personali teatri dove affacciarsi per sentire e prendere parole e visioni, erano la nostra finestra su un fuori immobile che ci stava tagliando le gambe e mangiando i nostri sonni.

La voce di Giuseppe Conte (sembrava una cosa lontanissima nel tempo e invece stiamo parlando soltanto di pochi mesi fa) è stata davvero un pugno allo stomaco, la sua voce e dietro l'imponente Piazza Duomo di Milano deserta, brulla, disabitata, spopolata, apocalittica, post atomica. In quel momento l'entità del Teatro che ci stava parlando/scrivendo ci ha detto non è stato un brutto sogno, ci ha preso per le spalle e ci ha abbracciato, ci ha detto piangi pure se vuoi, non cancellare questo tempo, non buttarlo alle spalle, non nasconderlo, altrimenti tornerà in maniera ancora più devastante, affronta il dolore senza negarlo, fatti attraversare dalle ferite che si rimargineranno più velocemente se le accoglierai come parte di te. Il teatro raccoglie storie e le mette in condivisione con un'autenticità che la vita di noi esseri umani spesso non ha. Senza teatro siamo tutti più poveri. Bentornato teatro, che le tue porte non si chiudano più.

“Il mondo è già abbastanza pieno di brutte frasi.
È pieno di frasi scritte da gente pigra per essere lette da gente che va di corsa.
Io non corro, sono qui e vi aspetto”.

Tommaso Chimenti 11/06/2021

Foto: Laila Pozzo, Umberto Terruso

Martedì, 19 Novembre 2019 09:04

Gli otto spettacoli migliori di Next 2019

MILANO – Sarebbe bello (utile e funzionale) se ogni regione o macroregione (inteso come accorpamento) potesse offrire ognuna ad inizio della stagione la sua “Next”, ovvero la vetrina dei migliori progetti di quello che vedremo, delle produzioni che verranno. Certo alle spalle ci vorrebbe una banca come Cariplo che finanzi l'operazione. Sta di fatto che da anni Next per tre giorni è il centro nevralgico del teatro italiano; lì si fanno incontri tra operatori, si scorgono nuove compagnie, c'è un fermento e una vivacità concentrata tra le sale e i foyer difficilmente rintracciabile in altre simili occasioni. Anche quest'anno una gioiosa maratona ci ha portato a vivisezionare i ventidue progetti (tutti vincitori, una commissione ad hoc stabiliva la reale entità del premio di produzione o, se il lavoro ha già debuttato, di sostegno alla distribuzione) da venti minuti l'uno, una full immersion con varie sorprese, come sempre, e tante conferme. Due giorni per scegliersi, e segnalare sul taccuino del critico, quali produzioni seguire nella stagione appena iniziata, le opere che ci hanno incuriosito, quelle imperfette ma che presentavano un germe, uno snodo, uno spiraglio tutto da evolversi. Next è elettrico, è sprint, è glamour, è fresco. Anche quest'anno tra Elfo Puccini e Franco Parenti. Faremo dei piccoli spot rispetto a quelle piece che, in qualche modo, ci abbiamo stuzzicato, Tradimenti.jpegtoccato, smosso, scosso, spostato. Cominciamo con due lavori che hanno debuttato proprio in questi giorni: “Tradimenti”, produzione Elsinor, e “Gioventù senza”, a cura dei Filodrammatici.

Per quanto riguarda il regista pugliese Michele Sinisi, che da qualche anno fa coppia fissa con il Sala Fontana, stavolta, per quello che abbiamo potuto vedere in questo gustoso assaggio pinteriano, non ha fatto sfoggio, il testo non lo permetteva, di colori, azioni debordanti, fantasia proiettata, invenzioni sceniche, suo marchio di fabbrica stimolante. Ma, al di là dell'incrocio-scontro dei tre personaggi in scena che si tradiscono credendo che gli altri non sappiano quando tutto il gioco è palese, svelato e fintamente celato e nascosto coperto da tabù e vergogna, dal ludibrio del proibito, è questo grande pannello, come il cruciverbone di “Non è la Rai” di Enrica Bonaccorti (ricordate “Eternit”?), con le parole e le frasi che si illuminano, strumento efficace per delineare l'azione, il luogo e il tempo, semplice meccanismo (ci ha ricordato le opere luminescenti di Mario Merz) che diventa esplosivo, chiaro, lampante, metafisico e concreto. Alla fine dei 20 minuti se ne esce con la voglia di vederlo tutto perché, come sempre, Sinisi ha una marcia in più nelle vene, ha quell'acceleratore che tocca la pancia come la testa, scardina al tempo stesso budella e cervello. Gioventù senza.pngLa gioia e il piacere dello stare a teatro. E non è da tutti.

Stavolta Bruno Fornasari firma soltanto la drammaturgia di questo nuovo testo, “Gioventù senza” (regia di Emiliano Bronzino) tratto dall'omonimo di Odon von Horvath. Fornasari e i Filodrammatici sono sempre sul pezzo dell'attualità con un respiro ampio e profondo sul contemporaneo, pori, occhi, orecchie, cuore aperti a cogliere le sfumature del tempo, le pieghe, i movimenti ed a metterli su carta e in scena. Hitler è padrone della Germania e le sue idee hanno pervaso la società e soprattutto le scuole, le nuove generazioni: un professore (Tommaso Amadio sempre autorevole sul palcoscenico) tenta di perseguire il dubbio, la ragione, il punto interrogativo ma sarà messo alla berlina e disarcionato dalla classe: la dittatura della maggioranza, il silenzio-assenso della massa di pavidi. Con dieci (bravi) attori provenienti dalla loro scuola-fucina.

Lo Straniero” del Teatro I ci ha colpito per la messinscena di pochi elementi scenici ma catalizzanti. La drammaturgia (di Francesca Garolla) parte, ovviamente, da Camus ma se ne discosta, anzi potrebbe essere un sequel, un post che riassume le vicende e crea un ponte versolo-straniero.jpg il non detto. Se Woody Neri è convincente e spiazzante tra follia e lucidità, è la gru (manovrata con abilità e quasi carezzata con dolcezza dal regista Renzo Martinelli) con un faro sopra che, cinematograficamente, illumina e segue, quasi fosse un drone agganciato al suo bersaglio mobile, l'imputato protagonista. Una “giraffa”, quasi canna da pesca per andare a stanarlo, che diventa violino da grattugiare e arpa da solcare e pizzicare. Se le luci intorno fossero state spente, l'effetto sarebbe stato ancor più catartico e se, attaccato alla luce che colava dall'alto, vi fosse stata anche una telecamera che riprendeva e proiettava un'altra visione della scena, l'impianto sarebbe stato ancora più invasivo e straniante.

Coloratissimo icabaret-delle-piccole-cose.jpgl testo (anche la regia) di Filippo Timi, “Cabaret delle piccole cose”, targato Franco Parenti, debordante di lazzi, frizzi e paillette. Dieci personaggi, tutti con il naso di Pinocchio (Collodi tira sempre più) che impersonano altrettanti oggetti minimi delle nostre case, i rifiuti messi nei cassetti, gli scarti, le cose non più nuove o sorpassate o obsolete. Il gusto di Timi è visibile nei costumi eccentrici come nelle sonorità come nell'uso del linguaggio, nella scelta delle musiche come nel gancio sensibile e accorato: c'è il dialetto napoletano, il siciliano (la più brava) con eco emmadantesco durante un funerale frizzante, il rubinetto romano che “piange”, il toscano rustico della candelina, l'abatjour mal funzionante, lo specchio ed altre suppellettili casalinghe. La sensazione che rimane però è quella del “numero”, della gag sospesa tra lacrima cercata, risata inseguita con colpo ad effetto sulla coda.

Minimalista e giocato sulle pause e sui silenzi che tutto avvolgono è “Come Out! Stonewall Revolution” (prod. Triennale Milano Teatro), toccante affresco della lotta per i diritti Lgbt nella New York del '69. Se dietro sul fondale passano immagini in bianco e nero dell'epoca,Stonewall.jpg su una poltrona il protagonista racconta i due piani della vicenda, vicino e lontano, la storia piccola, la sua, e quella con la esse maiuscola, i cambiamenti personali e quelli epocali. Un monologo intimo, misurato, quasi sussurrato (il giovane attore è incisivo e soffice, caparbio e dolce), abile a districarsi nel non-detto, nelle sospensioni, in equilibrio in un tempo che sosta tra l'attesa e la sorpresa. Lui, che avrebbe voluto essere lì in mezzo alla guerriglia, ai cortei per rivendicare i propri diritti, che invece è tornato a casa, in una casa che non lo ha mai capito né accettato in quanto omosessuale, perché sua nonna, l'unica che lo ha supportato, sta morendo. E rimane lì impotente tra la voglia di ribellarsi e la realtà che lo zittisce, tra il desiderio di tornare nella Grande Mela e quella piccola provincia bigotta che lo trattiene come colla a sé.

Doppio filone anche per “Il rumore del silenzio” (prod. Teatro della Cooperativa) con due mostri sacri viventi del teatro di narrazione: Laura Curino e Renato Sarti. Se la prima ci racconta di Piazza Fontana e dell'anarchico Giuseppe Pinelli, dall'altra parte Sarti ci porta nella sua Milano, Il rumore del silenzio.jpgnei suoi ricordi, nella sua memoria, in quegli stessi luoghi, visti con i suoi occhi più giovani di cinquant'anni, scenario della bomba alla Banca dell'Agricoltura. Ma non solo: da una parte c'è la morte, il passato (nei fumetti solidi) dall'altra la vita, la gioventù, le case di ringhiera, la bicicletta, gli amori, tutta la vita davanti. In questa frizione tra il bianco e nero della Storia e i colori del presente ci sentiamo fortunati a poter sentire ancora Sarti farci vivere attraverso le sue parole quegli anni. Uno spettacolo che vale decine di volumi sugli anni '70.

La compagnia Eco di Fondo continua a stupirci per la sua sensibilità, per la ricerca di temi etici, per quella pulizia di pensiero che sta alla base del loro lavoro. Se con “Sirenetta” si affrontava l'argomento dell'estetica collegata alle giovani generazioni e al bullismo, stavolta con quest'“Antigone” moderna ci immergiamo nel caso Cucchi (Giulia Viana sempre tosta), ma potrebbe essere anche Regeni o Aldrovandi o Uva o ancora forzando un po' la mano Khashoggi, perdite inspiegabili. Un cerchio di terra al centro (elementi e luci molto efficaci) e la storia che si sposta su più piani, il prima, il dopo la tragedia, il dialogo tra questa sorella e un fratello ormai soltanto spirito, l'autopsia disarmante che atterrisce, i flashback e quel muro di gomma dove rimbalzi senza trovare giustizia né pace.

Lo spettacolo più divertente e scanzonato è stato sicuramente la scrittura collettiva “M8 Prossima Fermata Milano” (prod. Animanera; testo composito di Davide Carnevali, Magdalena M8 Prossima Fermata Milano.jpgBarile, Carlo Guasconi, Pablo Solari, Camilla Mattiuzzo) con l'esplosivo e scintillante one man show (in questi 20 minuti, nel proseguo della piece interverranno altri personaggi) Fabrizio Lombardo nella sua stand up comedy irriverente, urticante, debordante, varietà per presentare vari progetti visionari per le Olimpiadi 2026 tra Milano e Cortina. E' anche un'analisi sulla Milano di oggi, sui suoi meandri, al sua collettività in perenne movimento e cambiamento: ne esce un affresco pittorico idealista impossibile e fanciullesco come chiudere tutta Milano al traffico e riaprire tutti i corsi d'acqua e renderli navigabili, le chiatte trainate da ippopotami, al reintroduzione della nebbia, la grande caccia al tesoro per ritrovare le zampe dei piccioni monchi e zoppi. Finisce e ne vorremmo sapere ancora, come andrà a finire, dove andrà a finire Milano, la vera capitale d'Italia.

Tommaso Chimenti 19/11/2019

MILANO – “L'uomo e la donna sono le persone meno adatte a stare insieme” (Massimo Troisi).

Il periodo è buio. Sta tornando il Medioevo e l'Oscurantismo? Soprattutto la Caccia alle Streghe. Il caso Weinstein, sollevato per prima da Asia Argento, quello di Kevin Spacey, quello che ha riguardato, effetto boomerang, la stessa figlia del regista horror, quello che ha toccato Cristiano Ronaldo a Las Vegas, quello che ha investito il regista Fausto Brizzi (proprio suo il film dal titolo “Maschi contro femmine”) poi scagionato, quello che ha toccato Giuseppe Tornatore (accusato da Miriana Trevisan). Negli Stati Uniti già da anni gli uomini non entrano in un'ascensore dove è presente una donna sola per timore di poter essere accusati di comportamenti inappropriati. Al netto del #metoo (nessuno critica il movimento in sé quanto le modalità da pubblica gogna) non sempre e non per forza il lupo cattivo deve essere l'uomo e Cappuccetto Rosso la donna, ed è pur vero che può accadere che le accuse siano prive di fondamento per mettere in difficoltà o alla berlina la persona in questione, per motivi di interesse, di screditamento professionale, per competere nella carriera, per invidia, per farsi pubblicità, per vendetta, per avere puntati addosso i riflettori. Il punto è che i processi la prova© Laila Pozzo-2.jpgdiventano mediatici molto prima che giuridici, sono i media a decretare la sparizione di un personaggio, se conosciuto, il suo accantonamento (per il film “Tutti i soldi del mondo” il regista Ridley Scott ha sostituito Spacey, a riprese ultimate, con Christopher Plummer rifacendogli rigirare tutte le scene dove era presente il protagonista de “I soliti sospetti”; al Premio Oscar è stata anche cancellata la partecipazione nella pellicola “Gore”), l'emarginazione sociale e il marchio a fuoco come appestato, se comune mortale. E' di queste ore la notizia che Lady Gaga abbia autocensurato il suo duetto con il rapper R. Kelly per le accuse nei confronti del cantante da parte di diverse donne.

La la prova© Laila Pozzo-30.jpgcondanna però non può avvenire attraverso la voce del volgo né talk show o interviste televisive. Bisognerebbe che realmente, e non solo sulla carta, esistesse l'innocenza fino a prova contraria. Ecco le parole esemplificative post bufera di Tornatore: “Una mattina ti svegli, apri il giornale o il computer e scopri di essere un mostro, un molestatore, un violentatore. Poi siccome si fa un uso abbastanza sciolto delle parole, diventi uno stupratore. E scopri tutto questo grazie a certi metodi di certi organi di stampa, non tutti fortunatamente, che non seguono delle regole ortodosse. Perché scrivono che sei un assassino senza ricorrere al contraddittorio, poi tu ti difenderai, se vorrai come vorrai, ma intanto il danno è fatto. Questo è un sistema veramente mostruoso ed è inaccettabile”. Alcune accuse infamanti distruggono delle vite e il risarcimento, nei rari casi in cui avviene, non riporta mai indietro il tempo, le energie e la reputazione perdute.
Proprio su queste basi, perché i Filodrammatici milanesi sono sempre sul pezzo dell'attualità e del contemporaneo e non hanno paura a sporcarsi le mani, nasce il nuovo testo di Bruno Fornasari, “La Prova” che tenta di scardinare le modalità, di far emergere e di portare alla luce le crepe e le criticità del nostro mondo che improvvisamente si è risvegliato impaurito delle relazioni umane, bloccato, timoroso, pieno di dubbi e punti interrogativi verso l'altro o altra. Se, come nel caso dello spettacolo in questione, ci sono un uomo e una donna soli in una stanza, può accadere che la parola di lei, che abbia ragione o meno, possa vere più peso di quella dell'uomo. La soluzione non è quella di cercare il colpevole tra le fila degli uomini, in quanto maschi, etero, (se caucasici, meglio) proprio per la loro carica interiore storicizzata di predominio, violenza, sottomissione, colonizzazione, aggressione. E' da combattere la generalizzazione che ci dice che i buoni stanno da una sola parte e i cattivi, necessariamente, dall'altra. E' più facile l'idea dell'orco che una riflessione della nostra società più ampia.la prova© Laila Pozzo-3.jpg

Fornasari ribalta la faccenda, facendo diventare la pièce un thriller, un'indagine psicologica; sulla scena non siamo in presenza di nessun giudice o avvocato ma una donna, una collaboratrice di questa agenzia pubblicitaria, accusa il capo che la sera precedente ha avuto un comportamento non consono, una “microviolenza”, nello specifico una mano su una spalla, nuda per via della scollatura dell'abito da sera. Se da una parte le rimostranze della donna sembrano eccessive, o pretestuose è l'uomo messo alle strette e schiacciato alle corde, dal socio come dalla nuova compagna che vacillano nel credergli, ed è lui a dover mettere sul tavolo la “Prova”, che ovviamente, la sua parola contro quella della donna, non può produrre né fornire. La donna si trincera dietro al velo “che motivo ho io di mentire” accusandolo senza sconti di misoginia e sessismo. Ma è il ricorso, come in una vera e propria inchiesta d'investigazione della quale la platea diventa “persona informata sui fatti”, all'uso del flash back che ci portano ad altre situazioni e quadri precedenti temporalmente dove sono implicati i quattro personaggi a mostrarci non certo la soluzione ma un altro modo di riflettere sull'accaduto. Il filo tra verità e diffamazione è sottile: “Sentirsi offesi non vuol dire aver ragione”, dice l'accusato.

Se la prova© Laila Pozzo-32.jpgne viene fuori, come pubblico, frastornati perché il tema tocca potenzialmente tutti, al netto di bigottismi e moralismi, se ne esce con più domande di quando siamo entrati. Perché il tema è scottante ed è semplicistico accusare l'uomo in quanto portatore sano di generi violenti e muscolari, machisti e virili. In questo caso il genere conta, le pari opportunità si fanno da parte: “Cerchiamo sempre la conferma da quello che vogliamo sentirci dire”. L'ironia e l'intelligenza di Fornasari, alla scrittura e in regia, coadiuvato dai determinati, energici e affiatati, esplosivi e graffianti Tommaso Amadio, Emanuele Arrigazzi, Orsetta Borghero ed Eleonora Giovanardi (artistica, illuminante ed estetizzante la scena dello yogurt; che nessuno si offenda se i nomi degli attori sono stati scritti prima di quelli delle attrici, è soltanto il rigoroso elenco alfabetico) sta proprio nel riuscire a creare un percorso di pensiero che ci conduce a posizioni e convinzioni opposte, lontanissime, per poi farcene pentire e azzerare tutto, sconvolgere tesi appena costruire, mandare al tappeto certezze e opinioni sui diversi personaggi-topos. Fornasari mischia le carte in tavola senza trovare (non li cerca neppure) colpevoli mostrando quanto sia facile cadere in trappola, quanto sia semplice essere non solo accusati ma anche condannati moralmente e socialmente senza possibilità di difendersi.la prova© Laila Pozzo-9.jpg
Purtroppo la violenza sulle donne non si combatte, come auspicava qualcuno qualche tempo fa in Parlamento, cambiando il genere delle parole che si usano; chiamare una donna ingegnera o assessora non farà calare il numero devastante del fenomeno femminicidio. E nemmeno le “quote rosa” hanno azzerato le differenze, e neanche la dicitura “Genitore 1” e “Genitore 2” ci salverà. Sarà che forse il problema non sta lì?

Tommaso Chimenti 15/01/2018

Foto: Laila Pozzo

Mercoledì, 21 Novembre 2018 14:21

Le migliori sette produzioni di Next 2018

MILANO – L'importanza di Next, la vetrina del teatro lombardo, è che puoi gustare e vedere e assaggiare stralci (20 minuti) delle produzioni che verranno. Tutti i teatri lombardi, Milano ovviamente la fa da padrona, mostrano alcune parti delle novità che dovranno debuttare, da bando, entro il maggio dell'anno successivo. Il clima è un bel momento di unificazione, di scambi, di visione del lavoro altrui per una due giorni che fa da collante senza competizioni. Anche se una commissione giudicatrice stabilirà quanto premio di produzione assegnare ad ognuna delle opere scelte, finanziate dalla Regione Lombardia e dalla Fondazione Cariplo. Next è il teatro che verrà, ma il futuro, come sempre, è già qui. In questi momenti di condivisione già si può capire dove sta andando la stagione e cosa ci interesserà maggiormente seguire durante l'anno, insomma un giusto annusare l'aria, un modello che potrebbe essere esportabile ad altre regioni. Sui ventisei progetti scelti, tredici al giorno, una vera e propria maratona visiva, sono sette le pièce sulle quali ci siamo soffermati e che meriteranno certamente uno sguardo più approfondito quando debutteranno. Ed anche allora ci saremo per confermare o meno questo nostro primo giudizio positivo. Quindi segnatevi i titoli e cercateli, i boccioli diverranno fiori, si apriranno in tutta la loro forza e poesia, potenza e profondità.Atir.jpeg

L'Atir di Serena Sinigaglia è una garanzia di quel mix di intrattenimento alto, commozione, riflessione sull'oggi: “Aldilà di tutto” (supervisione di Arturo Cirillo) ci parla di malattia, di morte, di come sopravvivere senza farsi schiacciare dalle brutte notizie, di depressione. E ci mette di fronte, per chi ancora non le conoscesse, a due grandi interpreti, che qui collimano perfettamente, la forza di Chiara Stoppa e la delicatezza, tra lo svampito e l'indecisione all'ennesima potenza, della meravigliosa Valentina Picello (ci ha fatto venire in mente come movenze Angela Finocchiaro), ora nervosa adesso paranoica, spassosa e piacevole quanto paurosa, puntualmente sopra le righe per delineare questo nostro tempo fatto di up and down, di paure straordinarie e di eccezionali eccessi, comica nel dramma, senza mai scivolare né scadere nel ridicolo e nel grottesco.

Sul fronte brillante il Teatro Binario 7 ci porta in un interno durante la notte di Capodanno, una di quelle serate dove tutto può accadere, dove tutto è lecito, anche non sapere che cosa è successo. Un gioco da tavolo dà il titolo a questo “Sognando la Kamchatka” (ndr. foto di copertina), pensando a quella penisoletta inutile e periferica che a Risiko significava la vittoria schiacciante sugli avversari e parafrasando quel “California dreaming” delle Mamas and Papas che evocava altri desideri, altre speranze. Qualche maschio contemporaneo, deluso, frustrato, lasciato dalla fidanzata, bambini cresciuti, bugiardi, irresponsabili, soprattutto soli, traditori, si ritrovano a casa di uno di loro (emerge Marco Ripoldi); la notte è uno sfacelo tanto che la mattina l'appartamento è distrutto e uno di loro giace senza vita. Nessuno si ricorda niente. Ci ha molto ricordato la pellicola “Una notte da leoni”.

Visite.jpgSi stringe il cuore davanti alle “Visite” dei Gordi (prod. Franco Parenti) che abbinano un teatro fatto di piccoli grandi gesti simbolici ad un'immensa delicatezza e commozione miscelando il tempo che fu da giovani con il presente da anziani, rallentati, pieni di acciacchi, dimenticanze, debolezze. I due piani temporali si sommano, si aggrovigliano, si intersecano tra queste facce allegre e frivole e spensierate con tutta la vita davanti e queste maschere (di Ilaria Ariemme) rugose e prossime all'addio. La musica alta ed eccessiva di certi party tra alcool e baci rubati fanno da contraltare ai piccoli passi strusciati, alle cose perdute, ai lunghi silenzi della terza età: la vita è un soffio, ma i respiri continuano a risuonare nelle stanze che li hanno abitati.Sinisi.jpg

Squadra che vince non si cambia, e allora Elsinor si affida al team, capitanato da Michele Sinisi, che negli ultimi anni ha sfornato “Miseria e Nobiltà”, “I Promessi Sposi” e “La masseria delle allodole” e che adesso si getta a capofitto nel “Sei personaggi” pirandelliano. I lavori di Sinisi e Asselta hanno sempre nel caos controllato il loro punto di forza e perno sul quale tutta la struttura di testo e attoriale ruota, s'impenna, si ribalta. Ed è una festa del teatro (sicuramente i 20 minuti più esplosivi di questo Next), una sarabanda di video e musica, arrivi e risse, una diretta facebook, recensioni lette, una banda che suona l'hip hop e David Bowie. In tutto questo teatro nel teatro nel teatro con gli attori che interpretano se stessi ma anche i “personaggi”, in questo carnevale inaspettato e imprevedibile si perde la rotta, ci si trova felicemente naufraghi, dispersi, rapiti. La curiosità sarà quella che ad ogni replica saliranno sul palco attori colleghi che metteranno la maschera di se stessi. Così per complicare ulteriormente, gioiosamente, i vari piani: la realtà è già teatro, il teatro è là fuori.

Queen Lear.jpgDolcemente tempestose sono le Nina's Drag Queen che trasformano il “Re Lear” shakespeariano in “Queen LiaR” (prod. Teatro Carcano) attualizzando la vicenda e portandola, ovviamente al femminile, en travestì, nei loro costumi eccessivi e luccicosi, ad un oggi tutto nostrano. Tre sorelle e una madre anziana (in coppia di fatto con una vicina) il tutto infarcito di frasi delle canzoni pop anni '80 che abbiamo tutti tatuate nel nostro dna, ritornelli strazianti e sdolcinati, rime iperboliche e desideri inaccessibili e sopra ogni cosa questo amore contro tutto e contro tutti. Le due sorelle più grandi che professano, ma soltanto a parole, il loro grande amore per la madre, la terza viene rinnegata perché non riesce ad arrivare alle vette dialettiche delle sorelle esagerate e menzognere. Ed eccoci a far rimbalzare La Cura e cantare “Insieme a te non ci sto più”; con Gloria Gaynor Shakespeare duetta alla perfezione.

Sempre interessanti e intelligenti sono le riflessioni, mai provocazioni, di Bruno Fornasari e Tommaso Amadio ed anche stavolta hannoLa prova - Filodrammatici.png mostrato tutta la loro cifra e carica con il nuovo “La Prova” (prod. Filodrammatici). Proprio nel bel mezzo del #metoo, il movimento femminista sollevato da Asia Argento, il regista e l'attore milanesi sono i primi maschi, etero, a prendere posizione attraverso l'arte e vedere il processo, i suoi estremi, le sue derive, le sue problematiche, invece di fermarsi alle accuse, di puntare il dito ed incolpare che sembra diventato lo sport preferito dai leoni da tastiera che, per invidia e molto spesso per insoddisfazione e frustrazione, vogliono vedere tutti gli altri, giustificando invece sempre se stessi, dietro le sbarre e puniti. Una donna sostiene che il capo le ha messo una mano sulla spalla, una spalla nuda di un vestito da sera scollato. C'è chi dice che non è niente e chi vede il gesto come aggressivo, una vera e propria prevaricazione e violenza sessuale. Perché ormai la diffamazione fa già processo ed è già di per sé condanna. Il bello, il brutto semmai, è che è l'uomo a dover produrre “La prova” della sua innocenza, una prova per sconfessare la calunnia accusatrice, una prova forse impossibile da mostrare: povero maschio etero sei diventato la minaccia di questo mondo che ci vuole asettici, privi di relazioni: castrando l'uomo le donne saranno più contente?

Ufilippo-renda.jpgno dei mali del nostro contorto tempo sono le “Fake” news, quelle notizie false che girano sul web e sui social network che mutano la percezione del reale e che, se diventano virali, cambiano la realtà in maniera indissolubile sostituendo la verità con altre interpretazioni che spesso hanno secondi fini, soprattutto politici. Il discrimine ormai su che cosa è reale e cosa non lo è è nebuloso e alquanto difficile da poter determinare. L'uomo non può non credere a niente, a qualcosa deve affidarsi, di qualcosa deve fidarsi. Ma se la televisione è di parte, i giornali parziali e partigiani, il web è prezzolato e finanziato da editori che hanno i loro interessi, la vita per il cittadino medio diventa impossibile. Il testo di Valeria Cavalli e Filippo Renda (anche in scena e in regia; prod. Manifatture Teatrali Milanesi) mette in scena una storia vera (vera?, non è dato saperlo): un'intervista ad una donna che ha vinto una somma spaventosa al jackpot nazionale e che ha stracciato il suo biglietto perché quella cifra l'ha spaventata e avrebbe cambiato per sempre la sua semplice grama esistenza. La signora, dalla vita grigia, ha anche scritto la sua esperienza sui social venendo aggredita, anche minacciata pesantemente, perché oggi rifiutare 40 milioni di euro con la fame e la povertà, o la voglia di lusso indotta proprio dai social, che c'è in giro è sembrato un affronto incolmabile. Una fredda intervista con questa piccola segretaria dove il pubblico sarà interattivo: che cos'è la verità? Quello a cui crediamo.
Sette come i vizi capitali, sette come le meraviglie, sette come i nani, sette come il teatro che verrà. Voglio vedere come andrà a finire, cantava il Vasco che andava al massimo.

Tommaso Chimenti 21/11/2018

 

MILANO – Edimburgo, teatralmente parlando, è a Milano. La Fabbrica del Vapore ha in sé l'anima dell'artigianato, l'odore di mattone e ferro, quel piglio di mani e idee, quel fare che nasce nella testa e si sviluppa grazie a uomini e donne di buona volontà. La fucina è IT, il vulcano è IT, la fornace è IT (utilissimo e ben fatto il libretto per orientarsi nel mare magnum delle proposte) dove nascono gli attori e le compagnie, i testi e le messinscene di domani. Futuro presente. Il colore è il giallo: grano, sole, birra. Venti minuti, piccoli morsi per capire dove stiamo andando, i temi dei giovani, quello che si muove nel sottobosco delle proposte, delle promesse. Fiori che nascono sull'asfalto e nel deserto e che sbocceranno. Sono maratone, si entra e si esce, fuori il itbannersole cocente, dentro il buio tra queste volte ampie, i soffitti alti che danno respiro e possibilità di movimento ai sogni, alle speranze. E ne abbiamo trovata di fertilità, di novità, di guizzi, di lampi, di ponti, di gesti da ricordare, sottolineare, sottoscrivere, esaltare. Dieci ne abbiamo visti, di quattro parleremo. Già il manifesto evidenzia un animale ibrido e mitologico, sorta di Chimera, dal carattere roccioso del rinoceronte, caterpillar che non si ferma davanti alle difficoltà nella savana, e dalla spinta leggera e al contempo potente della balena. Un animale impossibile, come fare teatro in questo Paese. Ma c'è qualcuno che lo fa e con buoni risultati. Come il calabrone nel motto di Einstein.
itheartCi siamo affacciati alla stanza dove gli Snaporaz hanno allestito l'inquietante “Heartbreak Hotel”, per uno spettatore alla volta, dal sapore kubrickiano, con tocchi di Lynch, spruzzate di Hitchcook, e un fondo che ci ha ricordato “A sangue freddo” di Truman Capote. Un racconto che viene sciorinato attraverso il muro in cartongesso verso il quale siamo, come da piccoli in castigo, con la faccia rivolta. Siamo all'angolo, dietro è possibile che si muova qualcosa nell'ombra, nel buio. La narrazione-cronaca è quella di un serial killer; la psicologia del superstite sfora dalla radio, esce dal telefono. A terra ci sono tarocchi sparsi e la sensazione è quella di essere proprio sulla scena di un crimine, dentro le pieghe del male descritto, in quell'angolo di normalità, da carta da parati floreale e borghesuccia con i suoi ghirigori da seguire con il dito, in rilievo e lisci, le medicine sul comò, e tu stai lì, imbambolato, immerso nella grande dicotomia tra perdono o vendetta. Sono l'assassino o la giuria? Il condannato o la vittima? Incuriosente.
Da seguire assolutamente nel suo sviluppo è “In.Ter.Nos” dei Carolina Reaper, progetto in tre fasi, autonome e correlate dove un filo sottileitinter di malessere malcelato e uno strato sottile di soffocamento, straniamento, spaesamento. Un'indagine, potremmo dire banalmente, ma è molto di più; è uno scavare dentro le nostre paure, dentro i meandri di quel possibile che cerchiamo di allontanare in ogni modo ma che sta lì, come gufo sulla spalla, come avvoltoio in attesa dell'ultimo volo in picchiata. Al centro una “principessa”, bionda come lo devono essere le altezze reali di bellezza. Una sorta di modella stile Madonna in evidente stato di shock. La drammaturgia di Livia Castiglioni riesce pian piano, docilmente, ad instradarci nel sentiero dei passi pericolosi dove l'innocenza si tramuta in colpa, l'ingenuità in dramma, la pulizia in marcio. Siamo fatti di doppifondi ai quali attingere come pozzo d'acqua limpida o fango imputridito. Bravi, abili ed efficaci i tre sulla scena: Silvia Giulia Mendola, la starlette ossessiva, Elena Scalet e Francesco Meola, agenti alla “X files”. Mettetelo nel paniere delle scelte per la prossima stagione.
italchemicoAltro piccolo stralcio che ci ha colpito è “Per le ragioni degli altri” (Alchemico Tre) dove risulta ancora più lucente l'interpretazione di Michele Di Giacomo (che qui firma anche regia e adattamento da Pirandello), sempre più in palla e in vena, ad ogni nuovo lavoro ancora più convincente. Il filo che morde il freno è l'insoddisfazione, la molla che punge arrugginita è la desolazione sentimentale, la mancanza di empatia, l'assenza di comprensione. In questo buco nero, in questa infelicità diffusa che prende alla bocca dello stomaco, un uomo è diviso tra la mogliettina carina ma acida (Giorgia Coco), le sue voglie di scrittore (ci ha ricordato la biografia di Kafka) e un figlio avuto da una prostituta (Federica Fabiani, qui molto Maria Nazionale, carattere e “tigna”). Gli obblighi si sommano alle responsabilità, la cattiveria scappa da tutti i pori, nella frustrazione, nell'accettazione passiva che lacera e brucia. Non esiste più amore, resiste solo recriminazione e voglia di vendetta, acidità in tutte le forme possibili e declinabili per cadere e sprofondare sempre più in fondo a questo vortice turbinoso senza vie d'uscita. Da seguirne gli sviluppi.
L'ansia da prestazione sembra che sia uno dei cardini fondamentali dell'essere giovani oggi. E le compagnie di IT lo hanno tirato fuori e fattoitamor2 presente. Anche se sul versante brillante gli Amor Vacui con il loro “Domani mi alzo presto” ci portano nelle pieghe piagate della burocrazia che uccide i buoni propositi, in quell'ammasso di carte bollate e certificati, password e timbri che ingolfano prima la mente, che tarpano ambizioni, che infarciscono la mente di tanti ragazzi lasciati tra cellulare e divano, abbandonati tra pc e tv a passare il tempo fin quando non sarà troppo tardi. Sembra quasi che il mondo fin qui costruito abbia riservato alle giovani generazioni degli asili nido perenni per una forma di controllo e instupidimento continuo, una bolla di sapone che calma e placa come un placebo, come un antidolorifico che toglie il sintomo ma non il tumore sottostante. E il bubbone sta esplodendo. In “Domani mi alzo presto” (Andrea Bellacicco sugli scudi) il bando post universitario, il provino d'attore come la tesi diventano dei mostri giganteschi, scogli insuperabili, paure che si autoalimentano mangiandosi i giorni, la freschezza, la vitalità per creare nuovi zombie insoddisfatti e senza futuro. Una finta allegria vuota. Complimenti.

Tommaso Chimenti 10/06/2017

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