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Il bosco come cura e attraversamento: a Campsirago è trekking culturale, ecologia teatrale

CAMPSIRAGO – “Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà” (San Bernardo di Chiaravalle).

Il bosco è il palcoscenico all'aperto di Campsirago, un nome che a cercarlo sulle cartine nessuno c'è. E' l'isola che non c'è, l'inizio dei sentieri per inerpicarsi e incunearsi su per la montagna lombarda torva a fradicia, un nome che rievoca passaggi di civiltà lontane e ancestrali che hanno segnato questi luoghi selvatici più che selvaggi. E c'è la sua bella differenza. Celti e longobardi hanno attraversato queste terre segnandole e i loro rimasugli sono rimasti nell'aria, sospesi in quest'atmosfera tra la magia, il mistero e l'imperscrutabile. A Campsirago abitano durante l'anno trentasei persone ma molte più anime vagano e aleggiano. Si sentono, si vedono, si percepiscono. Qui dagli inizi del Duemila è nato “Il Giardino delle Esperidi”, festival diretto da Michele Losi, manager culturale, visionario imprenditore di idee che non molla fin quando i desideri che anni prima venivano considerati impossibili e irrealizzabili, non si fanno di carne ed ossa. Così alla struttura in pietra dalle mura solide e alla foresteria si aggiungeranno, nei prossimi dieci anni, un teatro nel bosco in stile Mondaino, un teatro dentro una chiesa senza tetto come San Galgano, e verrà ristrutturata anche una grande dependance (grazie ai contributi di Fondazione Cariplo, del comune di Colle Brianza, 100.000, e del G.A.L. Gruppi Azione Locale che hanno accesso a fondi europei 250.000 euro) di circa DSC_7932_WEB.jpg400 metri quadri che conterrà una sala prove, una sala teatrale da una sessantina di posti per creare una stagione vera e propria che si articolerà con repliche tra produzioni e ospitalità nel fine settimana, una falegnameria, una cucina professionale e una sala dove poter pranzare per quaranta persone in stile Corte Ospitale. Ma cosa più suggestiva sarà la creazione di una sauna (Michele Losi spesso in questi anni ha realizzato produzioni nei paesi scandinavi) per rilassarsi ma anche per fare riunioni e anche per proporre spettacoli all'interno della vasca: originale e unica, bagnati e nudi attori e pubblico insieme nello stesso brodo primordiale. Le compagnie residenti passeranno dalle tre attuali, Le Scarlattine, Riserva Canini, le Pleiadi, alle quali si aggiungerà il manovratore di puppet cileno David Zuazola. Insomma il futuro sta a queste latitudini, i sogni qui, con il lavoro e la caparbietà, diventano possibili. Si sente il magma che produce, si muove, si sente il rumore del domani che ha voglia e desiderio di nascere, che spinge, che non sta più nella pelle.

Due le pièce nel bosco, interattive, mai statiche, da pubblico attivo, partecipe (dopotutto questa è una comunità), scarpe da ginnastica, piedi buoni, tanta curiosità e polpacci a scarpinare, la possibilità del sudore che amplifica la piccola fatica, che rende il tempo della piece esperienza da portarsi a casa, da far decantare, cementificare dentro ognuno di noi imprimendola in profondità. Spettacoli come tatuaggi che ti entrano sottopelle e non se ne vanno più. Continuano ad accompagnarti negli anni. E il bosco è il panorama e il fondale perfetto, lo scenario e il set ideale per l'attraversamento, base di queste avventure. L'andare fuori di noi che, parallelamente, sposta piccole cose, riequilibrandole, dentro di noi in un continuo gioco di specchi, di rimandi, di rimbalzi. Camminare, vedere, scorgere, scoprire pezzi del mondo, scovare parti intime di noi immerse in quei luoghi, ora lampanti e palesi. Un respiro profondo ad aprire sterno e polmoni, reali e metaforici. Il bosco fa paura perché è un buco nero e potrai scoprire cosa c'è dall'altra parte soltanto se ti lascerai trascinare, se quella paura non ti bloccherà ma diverrà trampolino per saltare, andare a tastare, a constatare. Ecco, in quest'ottica, “Amleto, una questione personale”, che dopo una prima parte frontale sul palco (che guarda la vallata e Milano che da qui è quieta e silenziosa) si divide in tre sezioni con tre percorsi dissimili che ogni tanto si tangono nelle radure: i “verdi” gli innocenti, i “rossi” i ricchi e potenti, gli “azzurri” i depressi. Silenzio, fila indiana, cuffie: siamo in un rito.

E' appunto, DSC_9845_WEB.jpgda titolo, una questione privata, un corpo a corpo personale del singolo spettatore con il testo, con le dinamiche ancestrali, con il luogo. Camminiamo e nelle orecchie arrivano frasi che nella loro semplicità scombussolano e rimescolano: “Chi sei quando nessuno ti guarda?”, “Di cosa dubiti?”, “Qual è la tua questione?”. Il bosco non risponderà per noi ma aiuta a fare silenzio attorno, a ripulire l'aria dal vuoto, dall'inutile, dal chiacchiericcio ingolfante. Il bosco è un tunnel verso la Madre Terra, è un essere vomitati tra le frasche, è un cercare la via d'uscita, è un tentativo di salvezza, è un tiro ai dadi scommettendo su se stessi. Sul cammino troviamo sparse giacche incastonate su rami come spaventapasseri. E li sentiamo vivi e attuali Ofelia e Amleto, Polonio o Claudio, vicini e comprensibili, giustificabili, terreni, umani, sbagliati, come noi. Nessun giudizio quando fai fatica. Passiamo staccionate che altro non sono che un esperimento di dare un ordine al selvaggio, e capanne (e ci sentiamo Hansel e Gretel) e rifugi e ovili e rovi. E acacie e ortica a pungere e attenzione ai rami se si guarda troppo la terra e attenti alle radici se si ha la testa tra le nuvole. E' muschio ed edera. Spettacoli che fanno crescere, che rimangono invischiati nei nostri capelli, appesi ai nostri sogni, nei nostri giorni.

Se “Amleto” è comunque una prova d'attore (Sebastiano Sicurezza su tutti, forza, istinto, talento, intuizione, intenzione), nella seconda piece “Vivarium” ci saranno i passi reali e le figure stilizzate virtuali a popolare i sentieri del bosco. Ci sarà un perché tutte le fiabe hanno luogo nei boschi. Seguiamo i percorsi del culto delle acque fino ad arrivare alla fonte miracolosa della Madonna del Sasso. Apparentemente sembra che la tecnologia sia agli antipodi della Natura. In “Vivarium” Losi e soci ci dimostrano che non è così, che forse con uno smartphone in mano si riesce meglio, combinando le due visioni, ad apprezzare l'intorno, a vedere tutto quel che si nasconde tra cielo e terra. Ed eccoci immersi nel “cercare la matematica della Natura” (Fibonacci) che in definitiva possiamo laicamente chiamare Dio. Il telefono diventa mappa interattiva, diventa bacchetta magica che trasforma il circostante. Infatti la realtà si mischia con il virtuale che ci fa DSC_6184_WEB.jpgapparire poiane ancestrali, salamandre della tradizione alchemica come scatole che fluttuano o ombrelli elicoidali che sembrano meduse e infine stormi di pesci volanti. Il vero si miscela con l'app per un mix che sposta i punti di riferimento, alimenta la fantasia, accresce l'immaginazione. Le epifanie si manifestano quando, come in una caccia al tesoro in questo trekking poetico-teatrale, in questo pellegrinaggio artistico, entriamo in contatto con dei nodi che abbracciano tronchi. Sono corde di riso giapponesi, le cosiddette shimenawa shintoiste (ad ottobre il direttore Losi andrà per un mese in un monastero nipponico) numi tutelari che ricordano le passate delle ragazze, candidi abbracci a tenere, a non far scappare né cadere. La via è contrassegnata da strisce color oro sui sassi (e non può non venire alla mente la tecnica del kintsugi, letteralmente “riparare con l'oro”, pratica che consiste nell'utilizzo dell'oro per il restauro di oggetti in ceramica). La nostra è una processione lenta, sacra e laica insieme. Andiamo alla ricerca del grande ippocastano, l'albero sacro. E andando alla ricerca di qualcosa fuori dai nostri corpi, troviamo pezzi di noi stessi che rimangono incantati verso la vallata di Renzo e Lucia, guardando l'Adda affiorare e il Resegone fare capolino. La ricerca non si esaurisce mai. “La preghiera è stare in silenzio in bosco”. (Mario Rigoni Stern)

Fuori dal bosco, in un contesto più classico di teatro frontale, ci hanno comunque colpito due proposte lontanissime l'una dall'altra seguendo quel filo sDSC_8976_WEB.jpgottile tra il divertimento leggero ma mai superficiale e l'impegno il tutto giocato su quell'equilibrio che rendono certe serate frizzanti e degne di essere vissute, tenute nella memoria, raccontate. E' così che abbiamo scoperto (i festival servono anche per portare all'attenzione compagnie o personaggi, è questa una delle funzioni dei direttori artistici, quelli coraggiosi, che non si fermano al già consolidato) la milanese Nina Madù, all'anagrafe Camilla Barbarito, con il suo gruppo “Le reliquie commestibili”. Il suo personaggio è una signora aristocratica, stilosa e rarefatta, elegantissima e snob che potremmo mettere nella stessa sezione di Drusilla Foer. E' altera, charmant, scandisce le parole nelle sue esternazioni lente, serafiche, cattivissime, taglienti, pungenti. Non ha peli sulla lingua. E' in sospensione nel suo rock demenziale a cavallo tra Alice ed Elio e le Storie Tese, tra Giuni Russo e gli Skiantos. E' indifferente ai destini del mondo. Parla più che cantare, un po' come il frontman degli Offlaga Disco Pax, ma quando apre l'ugola stempera la platea ricordandoci il grido di “The great gig in the sky” dei Pink Floyd. Pare mummificata ma quando parla tra una ballata caustica e l'altra è intelligente nella sua parodia di una madame enigmatica, saccente al punto giusto, supponentemente noir, zelante come Morticia Addams. Canta le sue hit: “Bitumificio” e “Uomo col riporto”, “Pediluvio” e “Chef crudista”, “Coppia etero” e ancora “Colluttazione con l'hostess” proprio quando gli animi si scaldano e alcuni anziani del borgo alzano la voce, tra minacce e bestemmie, perché non riescono a dormire. I suoi gesti sono controllati e misurati, da consumata star, imbalsamata come Lady Gaga, immersa in mosse da etoile classica. Lei è la Regina e noi siamo i suoi schiavi; salutandoci ci dice: “Buonanotte, Good night, Gute Nacht, Ammammete, Assorete”. Noi ridiamo, lei resta salda sul trono, dopotutto è l'Imperatrice.

Di tutt'altro tono (ma la complessità delle direzioni artistiche è proprio quella di spaziare tra i generi tenendo dritta la barra della qualità) èDSC_0022_WEB.jpg l'esperienza di David Zuazola con il suo “Robot” un impianto di macchinerie e meccaniche sferraglianti per una storia tenera e dura che ci racconta del nostro passato e come si possa ripresentare se non mettiamo in campo validi anticorpi. Una storia d'amore e differenza, un racconto di handicap e di solidarietà umana, di sentimenti che vanno oltre la superficie, che sanno guardare al di là della copertina. In un mondo prossimo al nostro una dittatura (sembra di stare dentro “Fahrenheit 451” o “1984”) cerca, scova e rinchiude in campi di concentramento, prima di farne rifiuti e spazzatura, i robot ritenendoli il male assoluto. Non passano dal camino ma diventano pezzi di ferraglia. I piccoli filo spinato davanti a noi danno un brivido, così come le sirene, gli allarmi, le luci della polizia, i droni a caccia, i soldati che marciano a passo d'oca. Zuazola (ci ha ricordato le piece di David Espinosa) sta tra due tavoli lunghi e manovra davanti e manipola e sposta, da dietro prende oggetti, incastra in un gioco DSC_0056_WEB.jpgtanto infantile quanto eterno. Il filo spinato elettrificato ci parla di morte e di un tempo non troppo lontano da quello attuale. La sua narrazione è un'armonia tra l'odio e la ferocia delle milizie verso le macchine mentre dall'altro lato del suo personale palco allungato, in questo presepe di figure alle quali lui presta il movimento con le sue mani, si apre una scena borghese di musica tranquilla, di casa e veranda, di fiori da annaffiare. La donna è in sedia a rotelle e un carillon di sottofondo ci racconta della sua solitudine malinconica ma in qualche modo, come i tedeschi con i nazisti, ci dice anche che (come ne “Il bambino dal pigiama a righe”) il popolo che vive accanto a certe brutture e storture non poteva non accorgersi di tali barbarie e quindi non può considerarsi innocente e con la coscienza pulita. E' l'incontro tra questi due esseri soli ed emarginati, ognuno nella propria diversità esposta, che fa nascere la voglia di parlarsi a gesti, di comunicare, di sfiorarsi. Sono entrambi prigionieri del proprio corpo, dal quale non possono scappare. Ma l'amore, si sa, è una farfalla che non vola nello stomaco come nei Baci Perugina ma riesce a passare steccati e barriere, sopravvivendo al male, al tempo: “Mi hanno sepolto ma quello che non sapevano è che io sono un seme”, pare perfetta per l'occasione la parabola di Wangari Maathai. Intanto il cielo è stellato sopra di noi. Non poteva che essere altrimenti.

“Niente è complicato se ci cammini dentro. Il bosco visto dall’alto è una macchia impenetrabile ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi ad ascoltarlo” (Stefano Benni).

Tommaso Chimenti 28/06/2021

Foto: Alvise Crovato

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