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FIRENZE – Le case dei villaggi dei film sul Far West sembrano solide. Da lontano, in campo largo, appaiono stabili, di legno massello, con salde fondamenta massicce nella sabbia. Ma è tutta apparenza, esiste soltanto la facciata, tenuta su, dietro, da assi in diagonale per sorreggere la messinscena. La parvenza non ha il suo corrispettivo con la profondità. Entrando in quei saloon c'era solo terra riarsa. Tentando di cercare un minimo di profondità nella nuova opera del Cirque du Soleil si finisce a terra nella sterpaglia, si rotola al tappeto, si inciampa sui nostri stessi passi. Da molti anni il Cirque cambia il titolo alle proprie produzioni ma la salsa è sempre la stessa, pur nell'altissima qualità degli ingredienti: tecnica, interpreti e strumentazione. Un gran fiorire di costumi, un impasto tra musical e circo, atletismi d'ogni sorta e coreografie da etoile che creano immagini impeccabili e splendide suggestioni. Il Teatro latita, rimane la maraviglia, le botole che si aprono e si chiudono, che ingoiano o che lanciano fuori, le altezze e le costruzioni aeree, le funi e le altalene, i geyser che sputano fumo zolfino dal basso, le verticalità e le trazioni, i corpi scolpiti.Varekai2
Di fondo un grande perché che lascia insoddisfatto il palato, un vuoto che sentiamo concreto e tangibile sotto la spessa scorza di colori e girotondi, giravolte e piroette. Sembra che tutto l'armamentario di risorse messe in campo per "Varekai" (quaranta eccezionali professionisti sul palcoscenico del Mandela Forum; dieci repliche soltanto a Firenze) serva per distrarre e non per concentrare, serva per perdere contatto e controllo invece che fare adesione e abrasione. Una volontà di non far pensare a nient'altro che alla superficie della visione, usare gli occhi e le retine e non le sinapsi del cervello, fermarsi e fissarsi al bidimensionale imbrattando e infarcendo il tutto di decibel da stadio e cromature psichedeliche frastornanti.
In questa sorta di mondo alternativo e trasognante, molto ripreso da “Avatar”, tra grugniti e ruggiti e un vento ancestrale, si muovono questi esseri umanoidi primordiali e immaginifici misti ad animali preistorici, epici o mitologici che in alcune loro parti ci ricordano i caproni o il Dio Pan, i pesci degli abissi o anfibi pericolosi e serpenti biblici, altri sono fiammelle-anime da Divina Commedia, fino ad arrivare a spiriti veri e propri, diavoli per ogni gusto, giullari di corte, creature vitruviane, contornati da regine e folletti, elfi, stelle di mare e demoni, entità metà Varekai4Diogene e metà Zio Fester, centauri e tartarughe ninja, iguane e troll, dinosauri di squame e code e pinne, teschi e galli cedroni. C'è tutto il ventaglio e il panorama per Halloween e dintorni, cosparso di riti aztechi e sfide a colpi di spade che scintillano come in “Star Wars”. Un'immensa precisione, cura dei dettagli, forza e pulizia tecnica sono messe al servizio di una storia che sempre estratta da “Le mille e una notte” dove l'amore vincerà sull'odio e sulle diversità.
Tra gioco e inquietudine, cadute negli Inferi e riscosse, apparizioni e sparizioni, questo mondo sottosopra offre il suo lato più umano e accoglie l'angelo caduto dal cielo (potrebbe essere Lucifero), appunto scivolato dal blu dipinto di blu e dalle nuvole placide e pannose e ritrovatosi inerme, stavolta strisciante, in territorio sconosciuto e nemico. Ribelle tra i ribelli. Ha perduto le ali, non può rialzarsi ma viene comunque aiutato a rimettersi in piedi e infine, come qualsiasi favola infantile che si rispetti, trova pure il tempo di sposarsi. E vissero tutti felici e circensi.
Qui molta bellezza e perfezione nel gesto paradossalmente ammantano e guastano, occludono e anneriscono, consapevolmente, un risvolto debole che si sfalda con un grissino, un vuoto che fa eco. Rimane un grande cartoon d'animazione in carne ed ossa per famiglie. Abbiamo ancora bisogno di virtuosismi, orpelli e svolazzi, di merletti e origami scenici? Forse la risposta è Sì, e non è un gran sollievo. Esci fuori e hai una gran voglia di un panino alla porchetta per ritrovare poesia e mistero.

Tommaso Chimenti 30/10/2016

ROMA - “Per tutte le violenze consumate su di Lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: in piedi, Signori, davanti ad una donna”. Lo scrive William Shakespeare. Lo stesso che vergò con l'inchiostro “Chi dice donna dice danno”, ma questo è un altro discorso. Nessuna quota rosa da invocare. Qui parliamo di donne già emerse nell'ambito teatrale, attrici under 35 da segnalare, supportare.2reitherAntoniaTruppo
Il “Premio Virginia Reiter”, alla dodicesima edizione, nel ventunesimo anno (la prima fu nel '95; in principio era biennale), tra Modena e Roma, è dedicato alla memoria dell’attrice emiliana che ad inizio Novecento fu la prima a “fare ditta” in un mondo prettamente maschile come quello del palcoscenico. Contemporanea della Duse, fece tournée mondiali, ed era apprezzata per la voce. Il premio vuole valorizzare una giovane attrice italiana, un'attrice in ambito europeo, e un premio alla carriera. Il tutto declinato al femminile: “Essere donna è un compito terribilmente difficile, visto che consiste principalmente nell’avere a che fare con uomini” (Joseph Conrad).
Il "Premio come miglior attrice europea" è andato ad Antonia Truppo che evidentemente fa diventare oro tutto quello che tocca; dopo l'Ubu come attrice non protagonista con “Serata a Colono” con Carlo Cecchi, Premio “Maschera d'oro” come attrice emergente per “La dodicesima notte” sempre di Cecchi, e, dulcis in fundo, “David di Donatello” per “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Il “Premio alla carriera” invece è andato a Paola Mannoni, attrice e doppiatrice dalla voce inconfondibile: “Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai” (Oriana Fallaci).
Le tre finaliste del Premio che sarà assegnato il 27 ottobre al Teatro Argentina di Roma (la giuria è composta dal presidente Sergio Zavoli, e da Gianfranco Capitta, “Il Manifesto”, Ennio Chiodi, Rai, Rodolfo Di Giammarco, “La Repubblica”, e Maria 3AnahiTraversiGrazia Gregori, “L'Unità”, mentre la direzione artistica è affidata a Laura Marinoni, la finale è al Teatro Argentina) sono Eugenia Costantini, Sara Putignano e Anahì Traversi. Un premio che negli anni ha visto trionfare da Manuela Mandracchia a Debora Zuin, da Maria Pilar Perez Aspa a Francesca Ciocchetti, da Anna Della Rosa a Caterina Simonelli, da Licia Lanera a Silvia Calderoni. Donne di sostanza e spessore, fuori e dentro la scena: “Sulla scena facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per di più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti”. (Ginger Rogers)
Tre attrici con tre percorsi, curriculum, background e scelte professionali molto differenti: Eugenia Costantini è figlia d'arte, di Laura Morante, e ha alle spalle corsi di teatro internazionali, in Francia sul metodo Lecoq e a New York, esperienze con Carlo Cecchi, su Shakespeare in versi, e nella serie “Boris”; Sara Putignano invece arriva dall'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma, passando per Nekrosius e Luca Ronconi, Paravidino, Cesare Lievi e Carmelo Rifici; infine Anahì Traversi proviene dalla scuola del Piccolo di Milano, dai laboratori diretti da Federico Tiezzi con una carriera divisa tra Italia e Svizzera: “Qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. Per fortuna non è difficile” (Charlotte Witton, politico canadese).
Alla prima classificata andrà un gioiello disegnato da Daniela Izzi mentre il manifesto della rassegna è stato ideato da Andrea Marchi: gemma e locandina hanno un qualcosa che ricorda l'art4reitherPutignanoSara decò, immersi in figure geometriche spigolose gialle e nere e un tocco orientaleggiante. “In Italia abbiamo formidabili attrici ma pochissimi ruoli disponibili; – chiosa Caterina d'Amico, preside del Centro Sperimentale di Cinematografia – gli aspiranti attori sono numericamente più donne e, dal punto di vista qualitativo, le donne sono certamente e oggettivamente più brave. Questo premio deve servire per dire ai drammaturghi di oggi di dare più spazio alle attrici che sono tante, ma soprattutto sono bravissime”. In fondo rimaniamo sempre d'accordo con Oscar Wilde che diceva: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse saranno capaci di tutto”.

Tommaso Chimenti 26/10/2016

Nelle foto, dall'alto: Eugenia Costantini, Antonia Truppo, Anahì Traversi, Sara Putignano

Il Premio è stato vinto da Sara Putignano.

“Ho avuto la critica più breve che sia mai stata pubblicata. Diceva: “Ieri sera al teatro è andato in scena “Domino”. Perché?” (Marcel Achard)

Chimenti intervista Porcheddu. Ritratto di Maestro. Che si è “maestri” quando si ha qualcosa da insegnare senza mettersi in cattedra, senza avere l'arroganza di farlo, senza far sentire il peso della propria competenza, esperienza, cultura. Andrea Porcheddu è maestro con l'esempio, con i suoi scritti, la sua passione, il suo saper raccontare le pieghe del sistema teatrale, i suoi occhi sempre un po' più in là di dove avresti pensato che si sarebbero posati. La sua visione è pennellata e farfalla, è scelta, autorevolezza e consapevolezza. Basta ascoltarlo negli incontri che cura da diversi anni per la Biennale Teatro di Venezia.PORCHEDDU21
Basta vedere le generazioni che ha tirato su, allevato, coccolato, e a volte anche bonariamente fustigato, ironicamente serio o coscienziosamente sarcastico, gli occhiali per riconoscere le giuste distanze, il sigaro a profumare l'aria d'antico. Generazioni di critici da lui allenati nella palestra del laboratorio di scrittura proprio a Venezia: i grandi Maestri internazionali, la visione degli spettacoli, la scrittura nell'open space guardando il Canal Grande scorrere sotto, la spinta a porre domande ai migliori registi, fino ad allora nomi letti sui libri e adesso ad un palmo, a pochi metri, lì pronti a rispondere proprio alla tua domanda. Porcheddu è spritz e cappello di panama, si porta addosso quella malinconia romana, che non è rassegnazione ma è “saper vivere”, senza lanciarsi in eccessi di soddisfazione, senza linciarsi sulla graticola.

I tuoi spettacoli del cuore.
“Difficile contarli, quasi impossibile. Ogni anno, ogni stagione, fortunatamente ce ne sono di nuovi. Potrei citare Dario Fo, visto al tendastrisce di roma, dove mi portarono i miei genitori quando avevo forse dieci anni. Oppure Santa Sofia della Raffaello Sanzio, visto quando cominciavo a scoprire il teatro da ragazzo. O ancora Le tre sorelle di Nekrosius, visto sul finire degli anni novanta all’allora Festival des Amerique di Montréal. Ma come dimenticare una Action di Grotowski vista a Pontedera, o Fratelli e sorelle di Lev Dodin, o la Trilogia della Villeggiatura di Massimo Castri? E che dire di Carmelo Bene? Non posso scordare il Vajont di Marco Paolini o la Tempesta di Peter Brook vista a Verona, o Nelken di Pina Baush? E resta indimenticabile il lavoro di artisti come Reza Abdoh, Heiner Goebbels, e il miracolo del Pasticciaccio di Luca Ronconi. E i Dieci Comandamenti di Mario Martone, e, per venire a anni più recenti, Ascanio Celestini, Emma Dante, Arturo Cirillo. Ma ricordo anche alcuni grandi attori del teatro italiano: Paolo Stoppa, ad esempio, che vidi in scena con un giovane Gabriele Lavia. Poi Valeria Moriconi, Anna Maria Guarnieri, Glauco Mauri, Marco Baliani con il suo Kolhaas, e ancora i grandi irregolari come Carlo Cecchi, di cui vidi Ritter Dene Voss a Firenze. Infine, naturalmente, gli ultimi spettacoli di Leo De Berardinis: incredibili. Però l’elenco potrebbe continuare all’infinito. Dall’evento eclatante al piccolo spettacolo fatto in periferia, la cosa bella del teatro è che ti costringe, sempre o quasi, a lasciarci un pezzo di anima. Mi piace di poter dire, dunque, che lo spettacolo del cuore è sempre l’ultimo che mi è piaciuto, quello visto l’altro giorno chissà dove e chissà perché”.

Porcheddu31Le persone del mondo del teatro (registi, attori, operatori, giornalisti) che, direttamente o indirettamente, ti hanno spinto a continuare a scrivere di teatro.
“Il primo che mi spinse con intelligenza a insistere a far il critico fu Maurizio Scaparro: dovevo ancora laurearmi in Giurisprudenza, gli chiesi un consiglio dopo un suo spettacolo e lui mi rispose: “intanto laureati, poi datti un anno di tempo: se resisti alle coltellate, ai sotterfugi, alle meschinità del teatro, sei vaccinato, e puoi continuare. Altrimenti hai sempre la laurea in Legge”. Poi certo Leo De Berardinis: ho avuto la fortuna di frequentarlo un po’, non molto, negli anni della sua direzione di Santarcangelo, ed è stato un grande maestro. Poi vorrei citare due maestri del giornalismo e della critica: Nico Garrone, scomparso troppo presto. Mi prese sul serio, anche se eravamo diversissimi. E l’altro è Ubaldo Soddu, a lungo critico del Messaggero. Mi diceva: “tu fino a quarant’anni non devi parlare”. Aveva ragione: avrei fatto meglio a stare zitto, in tante occasioni...
Ma assieme a queste figure ne ho incontrate altre: un collega come Antonio Audino, con cui mi confronto spesso; o lo storico del teatro Guido Di Palma. E certo, fonte costante di dialogo e verifica è Roberta Ferraresi, giovane critica sicuramente più avanti di me".

I tuoi attori/attrici davanti ai quali ti sei detto: “Ah, finalmente”.
“Credo che oggi gli attori e le attrici abbiano una grandissima responsabilità per tenere alte le sorti del nostro teatro: non solo artisticamente, ma politicamente e socialmente. Ho incontrato grandi attori e grandi attrici. Oltre a quelli già citati, potrei ricordare Elisabetta Pozzi, ad esempio, o Laura Curino; Paolo Bonacelli o Andrea Renzi, o ancora Roberto Latini e Ilaria Drago, che conosco praticamente dal loro debutto. Attori diversi, stili e percorsi diversi, ma ciascuno di loro – come altri – di straordinaria presenza e aderenza scenica. Però così facendo, faccio torto a molti altri artisti che amo: come Laura Nardi, Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Gaia Insenga, Saverio La Ruina, Paolo Musìo. Allora, come sempre, penso a quelli notati, o scoperti, solo ieri. E voglio segnalare delle attrici: come Alice Arcuri, a Genova; o Camilla Semino Favro a Milano. Oppure ancora due attrici che lavorano con passione, come molti altri, nel teatro cosiddetto “sociale”: Francesca Mainetti e Chiara Pistoia della Compagnia Animali Celesti. Donne in gamba, attrici in gamba".

“Ciò che ho sempre trovato di più bello, a teatro, è il lampadario” (Charles Baudelaire)

Tommaso Chimenti 11/10/2016

Sabato, 07 Maggio 2016 14:52

Resoconto Premio corti shakespeariani

FIRENZE – Shakespeare lo puoi sezionare e dividere, stralciare e tranciare, farlo a brandelli e prenderlo a pezzi, a morsi, a forbiciate e rimangono sempre versi e atmosfere di altissime vette. Smembrandolo non si perde niente della potenza e dell'aroma che sgorga, della facilità e della felicità, dell'ascolto pieno e del lasciarsi andare. Non a caso dopo 400 anni dalla sua morte siamo ancora qui a vivisezionare tra le righe, tra le pieghe il detto e il non-detto, il certo e il dubbioso, e ogni interrogativo, ogni punto di domanda apre nuove infinite chiavi di letture e porte, nuovi rimandi e parentesi.
Nelle tante celebrazioni shakespeariane (perché festeggiare la morte e non la nascita?), che tra l'altro la ricorrenza del 23.04.1616 lo accomuna ad un altro grandissimo della letteratura mondiale, Miguel Cervantes (gli eventi legati all'autore del “Don Chisciotte” da noi, comunque terra latina, latitano se non proprio sono ridotti al minimo), ha trovato una giusta casa l'idea del Teatro dell'Antella di far declinare il Bardo in tanti corti teatrali-esperimenti, lasciando massima libertà sulla maniera di affrontarlo.
Una rassegna corposa questo “Visioni shakespeariane” (direttore artistico l'attore Simone Rovida; va avanti fino al 19 giugno) che ha avuto la sua punta nella finale del concorso dei corti, al massimo della durata di quindici minuti, per declinare il loro Shakespeare nella forma e nelle modalità che, singoli e compagnie, sentono più vicino al loro modo di intendere il teatro. E allora, tra gli otto selezionati per la serata conclusiva (il primo classificato ha vinto la possibilità di una residenza artistica di dieci giorni per affinare una produzione che poi entrerà nel cartellone ufficiale della prossima stagione del teatro diretto da Riccardo Massai) abbiamo visto il muto e il brillante, il monologo come l'ensemble, il drammatico e tragico con il brillante e scanzonato. Shakespeare è sostanza e materia ma anche pretesto e scusa, è soffio di piuma e incudine, è nuvola e fango, poesia e sangue, è per questo che continua a toccare le nostre bassezze e le nostre speranze, il nostro “guscio di noce” e il nostro “spazio infinito”.
Partendo dal vincitore (in giuria Erriquez, il cantante del gruppo Bandabardò, lo scrittore noir Marco Vichi, il professore universitario Alessandro Serpieri), il milanese Christian Gallucci, con il suo “Martin Luther King lo faceva meglio”, trova il suo incipit nel monologo, abusato e travisato nel tempo, dell'“Essere o non essere” che diventa passepartout ed escamotage per raccontare la vita faticosa dell'attore con i sogni e le aspettative che si scontrano con la realtà fatta di lavori duri e ritagli di tempo da dedicare alla realizzazione delle proprie aspirazioni, del fare della loro passione-bisogno un lavoro retribuito, il tutto in chiave leggera e ironica, sul non mollare e insistere, puntando con veemenza sull'“essere”, accantonando, fin quando non suonerà la campana, il “non essere” in un angolo ad ammonirci certo della fine senza che questo diventi cappio e asfissia o paura che blocca.
Al secondo posto Roberta Sabatini è stata un'intensa “Gertrude” (testo di pathos quello di Andrea Mitri), calice di vino rosso e occhi dritti senza paura, una madre contemporanea che parla, senza sentimentalismo né mielosità, al figlio, quell'Amleto che adesso la odia ma verso il quale lei rivendica un amore sconfinato e che continua a proteggere, come leonessa con i cuccioli, con vigore e resistenza dagli attacchi esterni, una madre parafulmine che si addossa le colpe per salvare il suo bene più prezioso, il frutto del suo ventre.
Chiude il podio il “Shake Ofelia” di Fulvio Pera, con Chiara Salvucci che qui è la figlia di Polonio, incerta e indecisa, ma non così vuota e priva di volontà come molte volte ce l'hanno rappresentata. Un'Ofelia di oggi, con smartphone, un'Ofelia che lavora per la famiglia Macbeth, che sta al telefono con Iago, che, mentre aspetta nell'attesa infinita Amleto, legge “Romeo e Giulietta”. Con forza e decisione questa ragazza prende in mano la propria vita e tenta, contro la sorte o la sfortuna, di non farsi schiacciare da quelle che al momento le sembrano pesi insormontabili e insopportabili. Perché c'è sempre una via d'uscita, c'è sempre un'altra chance.
Segnaliamo qui anche i Bitols con “Piccola avventura di un cuore a Venezia” che, in un impianto da teatrino di giro, in un mercato che ha ricordato a livello di tappeto sonoro la fauna umana e gli olezzi del “Profumo” di Suskind, fanno muovere un coltellaccio-mannaia (che vola portandoci con la memoria alla “Fantasia” disneyana) di un macellaio che taglia, seziona, squarta pezzi di manzo, fino ad arrivare al nocciolo, all'essenza, al cuore pulsante, quella “libbra” che Shylock pretende per la sua usura. Certamente non adatto ai vegani.
L'interessante idea del Teatro dell'Antella è quella, dopo questo primo step shakespeariano, di affrontare ogni anno un autore universale, un classico del teatro, e farlo declinare sempre in forma di corto. Perché il teatro non se la passa così bene, ma è tutt'altro che morto e questa esperienza sta a dimostrare ancora il valore e l'interesse che si muove e vibra attorno alla scena, all'attore, alla magia, alle parole che qualcuno nel silenzio, nel buio, lascia che arrivino ad altri disposti a succhiarle, a prenderle, a respirarle.

Tommaso Chimenti 07/05/2016

PONTEDERA – Sono passati venticinque anni dalla prima messinscena e le cose a livello scolastico-didattico-pedagogico all'interno dei nostri istituti superiori non sono certo migliorate. Anzi. Ancora, purtroppo, attualissimo “La Scuola” che dal teatro passò al cinema, trattato da Daniele Luchetti (che si è ultimamente perso sulla via giubilare di Francesco) e che adesso ritorna al palco. Silvio Orlando c'era e c'è. Non ci aveva convinto qualche anno fa come Shylock nel “Mercante di Venezia” curato da Valerio Binasco, qui invece affonda nella sua materia, quella della delicatezza e del fallimento, fallibilità e fallacità umana, i buoni sentimenti ma senza buonismo, la delicatezza di una carezza e la riflessione piena di ironia, privo di aggressività e colmo di dolcezza. Uno, dieci, cento Orlando vorremmo vedere.
A che punto è oggi la scuola italiana? E' sempre al suo posto il sindacato Gilda, nome più vicino ad una soubrette da dopoguerra che ad un'associazione di categoria. Non è ben messa né dalla parte chi sta dietro i banchi a studiare né dalla parte del corpo docenti, precari, vessati, spostati come marionette da una “Buona Scuola” che forse è stata così nominata proprio perché così ottima non è. In questi vent'anni da una parte ha lavorato sotto traccia il berlusconismo, con le televisioni del dolore e della stupidità dei reality alla rincorsa dello share ad abbassare sempre più la soglia di tollerabilità ed accettabilità delle immagini e dei messaggi propagandati e promossi, che hanno aiutato e favorito un analfabetismo di ritorno preoccupante. L'Accademia della Crusca ormai s'è arresa e rassegnata all'uso errato errato del congiuntivo, moribondo, ai “qual'è” oppure a “eco” al maschile o “i pneumatici”.
Qui, nella messinscena teatrale, a differenza del grande schermo, solo i professori affollano questa aula-capannone. Non ci sono i ragazzi, non ci sono gli allievi, non ci sono gli alunni. Soltanto un manipolo di docenti, frustrati, repressi, insoddisfatti per la maggior parte, che non hanno a cuore il loro lavoro pieno di responsabilità, che, proprio come una classe di giovani studenti, litiga, si attacca, piagnucola, si offende, si lamenta, si aggredisce, fa la pace, fa pettegolezzi, si unisce in fazioni, si divide in guerriglie di tutti contro tutti: “Siamo una grande famiglia”, “Sì, i Borgia”. Si ride dall'inizio alla fine.
L'attacco e la chiusa sono di un blues caldo, poderoso che apre e chiosa su questa sala professori, spostata in palestra, tra tubi per le riparazioni, impalcature di lavori in corso interminabili (metafora del sistema scolastico italiano), funi, armadietti rotti. Ci sono delle parole che aprono i cassetti della memoria di ognuno di noi: cimosa, gita, lavagna, note, registro, appello, interrogazione, compito in classe, giustificazione, assenza, campanella, compagni di classe, ricreazione, che anche a distanza di anni, di decenni, di lustri, provocano ancora sconquassi, brividi, incubi e poche volte nostalgia.
Ci arrivano tutti insieme come plotone militare con passo deciso che pare di avere di fronte “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo. Ecco che affiora il Bart Simpson dei cartoni gialli statunitensi, così come Benigni che in “Non ci resta che piangere” diceva a Troisi: “Io, Giachetti lo boccio”, infiltrazioni da “Io speriamo che me la cavo” o “Auguri professore” dove svettava sempre la normalità paciosa di Orlando, prof illuminato alla “Attimo fuggente”, o ancora “Il rosso e il blu” dove al giovane insegnante, Scamarcio, pieno di entusiasmo vergine e di fuoco sacro, si contrapponeva il cinico e disilluso vecchio educatore, Herlitzka.
Due i perni su cui ruota tutta la drammaturgia: da una parte una presunta love story tra i personaggi di Orlando e Marina Massironi, dall'altra la decisione da prendere su uno studente problematico, e non proprio modello, pluriripetente, Cardini, negato per qualsiasi materia ma eccellente nell'imitare la mosca, metafora kafkiana dolorosa della sporcizia, fetore e squallore di molte famiglie, di futuri negati, dello stato della scuola pubblica nostrana, dell'illusione che si comincia nella vita tutti dallo stesso nastro di partenza con le stesse opportunità. Lo scrutinio, riguardante “l'avanzo di galera” Cardini, segue il procedimento de “La parola ai giurati”, con cambiamenti di opinione, convincimenti, conteggi tra salvezza e bocciatura.
Ci sono i professori arrabbiati dediti alla punizione e quelli alla giustificazione dell'alunno, chi vuole reprimere comportamenti non adeguati e chi li vuole capire: “La scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno”. Chi vuole stroncare (affiora “Il giovane Holden”) e chi vuole proteggere. Una lotta impari quella dei ragazzi contro l'adolescenza, i genitori, il loro corpo che cambia, il futuro, i professori. Tutti avremmo avuto bisogno di un prof come Silvio Orlando.

Visto al Teatro Era, Pontedera (PI), il 13 gennaio 2016

Tommaso Chimenti 16/01/2016

MODENA – Ha il sapore dell'epopea alla “C'era una volta in America”, il retrogusto della saga alla maniera della “Lehman's”, il sentore di leggenda come in un Mahabharata occidentale. L'intento (a tratti brechtiano) è stato quello di costruire con “Istruzioni per non morire in pace” una maratona gonfia e potente, corposa e altisonante, con il coinvolgimento (Ert e Teatro della Toscana) di decine di maestranze ed enti e associazioni, centinaia di cittadini in un progetto-percorso con la sua buona dose di validità didattica e di senso di comunità più che spettacolare. Quasi tre ore a comparto, però, sono decisamente troppe, per questa fatica (anche la nostra nel rimanere fino alla fine) di Claudio Longhi. Tre parti, Patrimoni, Rivoluzioni e Teatro, per una marcialonga ridondante, lungaggine logorroica.
Quando si parla di Prima Guerra Mondiale, ed in qualche modo quando il discorso è allargabile al nostro nero Ventennio, i cannoni vanno a braccetto con le rime stupide, patria e bandiera con i sorrisetti sciocchi, la battaglia con i balletti scosciati, la tecnica dell'acciaio con i bordelli, l'Universo e le prostitute, i sogni con gli incubi, barbarità con intellighenzia, atrocità e raffinatezza, cinismo e bassezze con delicatezza e ricercatezza, il fischiettare un motivetto che fa du du du du e lutti a non finire, baionette e soubrette. Ed infatti, messaggio stereotipato da operetta frivola e leggera, tutt'attorno all'arco che racchiude il palco, lucine scintillanti da varietà e rivista, così come i due sipari interni di un rosso sanguinolento (così come la pedana che entra in platea) lucidissimo da apparire scivoloso, plastificato, sgusciante, imprendibile, grondante liquame e globuli.
Il secolo breve è traballante e propulsivo, tremolante, incerto e sperimentatore, ossimorico e contraddittorio per sua stessa natura, dove, al suo interno, tutto è accorciato, la vita in primis, tutto è allungato, estenuantemente dilatato: grandi scoperte e voglia di conoscere come le brutalità più estreme, il volo e l'elettricità come bestialità infime, crudeltà e malvagità perduranti. Nuove conquiste e perdite totalizzanti. Non ci soffermeremo sui possibili, e plausibili, incroci con la nostra attualità, dalla guerra giusta allo scontro tra religioni, ai poteri forti che indirizzano spargimenti di sangue delle fasce più deboli per motivi puramente economici.
Ogni attore assume in sé sette – otto personaggi. Non hanno maschere ma indossano una sorta di calzamaglia che li ricopre, gambe e braccia, fino alle mani che somigliano a quelle guantate dei fumetti disneyani, e sul volto questo lenzuolo adamitico che rende i loro volti tutti simili e lisci, levigati come colpiti dall'acido, o ricostruiti da invasivi interventi di chirurgia plastica, limati come bambole di porcellana, appiattite, similari l'una all'altra, quasi come vedere “Gli amanti” di Magritte, con parrucche di capelli impomatati come fiammiferi accesi di tanti poveri diavoli, peccatori imbrigliati nei gironi danteschi. Le facce hanno protuberanze botuliniche come se portassero segni e sintomi di malattie evidenti, escrescenze e tumori su zigomi deturpati da Golem, mummie con un ricordo di Gotham o di Sin City.
Coinvolgenti e paurosamente affascinanti le figure che sul fondale prendono vita bidimensionale, mostri antichi ed arcaici, insetti giganti, specie di pidocchi ingranditi al microscopio, dai tratti mitici ed utopici, draghi che mutano in scheletri appuntiti, ossessioni di morte che prendono forma di demoni agguerriti, mordaci, sbavanti.
La sbavatura ricorrente, che non crea alternanza di sentimenti e pathos e atmosfera, ma caos di piani, è quella di mischiare scene surreali e iperboliche ad altre realistiche e storicizzate con tanto di cartina che scende dall'alto nelle quali segue anche lezione, più o meno semplicistica, di aggressioni ed attacchi, alleanze e spostamenti di eserciti, annessioni e invasioni, tanto da sembrare dentro un grande Risiko stilizzato dalle tinte accese e forti, passaggi saggistici, in evidente e lampante contrasto con il grottesco precedente, con date e geopolitica sintetizzata.
Questo “Istruzioni per non morire in pace”, di Paolo Di Paolo, diviene più contenitore dove racchiudere tutti i movimenti, i personaggi, i fumi ed i passaggi di inizio Novecento con salti che toccano Proust e Freud, Modigliani e Cocteau, D'Annunzio e Garibaldi.
La platea è sempre coinvolta: la luce accesa in sala, attori che scendono tra le poltroncine, che passano dalla pedana nei palchetti laterali, il lancio ora di banconote, adesso di lettere: un grande movimento futurista. La metafora del '900 è la botola del suggeritore che tutto ingloba e ingoia, è la neve che cade, comunque e pesantemente, incessante: “Nient'altro che del bianco a cui badare”, sottolineava Arthur Rimbaud.

Visto al Teatro Storchi, Modena, il 7 gennaio 2016

Tommaso Chimenti 11/01/2016

Foto: Luca Del Pia

la zattera della medusaIn scena al Fringe Festival di Roma “Maredentro”, diretto e interpretato da Gianni Tudino, è un dipinto che si fa racconto attraverso un’intensa recitazione.

Lo spettacolo è incentrato sul tragico episodio del naufragio della fregata francese Méduse, e sui molti cadaveri del cui sangue il mare si è macchiato. L’attore in scena interpreta il celebre artista Théodor Géricault alle prese con la sua opera, alla ricerca della giusta ispirazione; egli, come fosse anche lui un naufrago sopravvissuto, in un solitario monologo con se stesso e il pubblico esprime la sua turbolenta difficoltà nel poter restituire quel dramma riascoltato tante volte.

Si domanda e domanda allo spettatore quanto valga il dipinto e quanto il racconto, nella finitezza della nostra esistenza che muta e che in un solo attimo può svanire. Con lo sguardo spesso fisso in lontananza, ci mostra come l’arte assume forme diverse seppur le storie siano sempre le stesse, quelle dell’uomo che, come un piccolo granello di sabbia, resta quasi invisibile difronte alla sconfinata grandezza creata dal mutuo esistere di terra e mare. E’ così che “Maredentro” diventa la metafora del naufragio dell’individuo, che come un reduce è per sempre in questa vita inconsolabile.

L’artista si attorciglia al cavalletto della tela come fosse la sua zattera, la sua salvezza e la sua maledizione al contempo. Gianni Tudino interpreta la pièce calandosi perfettamente nell’inquietudine di uno di quei tanti uomini spiazzati dall’immensità del mare e traditi dal buio mortale della notte, e al tempo stesso nell’irrequietezza del pittore che con dedizione tenta di restituire la storia attraverso il pennello, e col suo folle genio cerca di cristallizzare quell’attimo affinché l’arte possa renderlo eterno.

Giada Carlettini 24/06/1985

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