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"Max&Max - Capitolo II" allo Spazio 18B: Recensito incontra l'attore Massimo Beato e il regista Jacopo Bezzi

Un gay americano di buona famiglia e uomo d’affari di successo ritrova, dopo 15 anni di lontananza, la sua ex-coinquilina inglese lesbica, attivista spiantata ma agguerrita: non è una nuova sitcom made in USA, ma un accenno della trama di Max&Max – Capitolo II, spettacolo in programmazione fino al 21 ottobre alla sala teatrale Spazio 18B (Roma). Recensito ha intervistato uno dei protagonisti, Massimo Roberto Beato, e il regista Jacopo Bezzi, i quali ci hanno raccontato qualcosa in più di Max&Max e approfondito obiettivi e progetti della loro Compagnia dei Masnadieri.

Il vostro nuovo spettacolo è un Capitolo II e si svolge 15 anni dopo le vicende narrate nel primo: come mai un così lungo tempo drammaturgico?

J.B.: Specifichiamo che nello spettacolo è presente anche un estratto del Capitolo I, proprio per chi non ha avuto modo di vederlo lo scorso anno. La prima parte era dedicata alla giovinezza dei due protagonisti, mentre la seconda si concentra più sulla fase della maturità. Alle soglie dei 40 anni, lui è un uomo in carriera, omologato a quelli che sono gli standard dell’ufficio e alle mansioni di “eterosessuale praticante”, mentre lei ha trovato la sua strada su terreni più radicali e critici verso la società, lanciando anatemi da uno “speaker’s corner” e venendo seguita o contestata da chi la ascolta. Far trascorrere 15 anni serviva a far maturare, appunto, questi due percorsi diversi.Max Max 2

Perché scegliere un americano e un’inglese e non personaggi italiani?

M.B.: Perché parliamo di argomenti molto “caldi” per questo momento storico. Abbiamo pensato che ambientare la vicenda in posti stranieri poteva offrirci una protezione diversa: vi sono nello spettacolo temi molto attuali sulla cultura di genere e sulla diffidenza nei confronti di certi tipi di libertà e di scelte. Abbiamo deciso, quindi, di metterci da una prospettiva estera, anche perché fuori dai nostri confini alcune tematiche hanno una maturità e un certo tipo di articolazione più chiara e precisa rispetto a quella italiana, dove invece c’è tanta confusione. Andare a parlare di cultura di genere nel nostro Paese, facendo riferimenti anche espliciti, è una cosa che ci sembra un pochino difficile da trasmettere, essendoci molte resistenze e diffidenze. C’è ovviamente la speranza che il pubblico capisca che parliamo di cose apparentemente lontane, ma che sono più vicine di quanto immagini.

Che cosa vi ha influenzato? Verrebbe in mente la sitcom americana Will & Grace.

J.B.: (ride,ndr) A me venivano sempre in mente i Peanuts (fumetto realizzato da Charles M. Schulz negli anni ’50, ndr), con Lucy e Linus, oppure Lucy e Charlie Brown. Ad ogni modo, abbiamo preferito dar voce alla parte femminile in particolare. È la parte più presente, che più “sta sul pezzo” rispetto all’uomo, il quale si lascia un po’ influenzare. Abbiamo fatto un omaggio alla rivoluzione femminile, con la donna che prende il sopravvento rispetto a delle iniziative. L’uomo si vuole omologare alla società per rispettare anche quelle che sono le volontà dei genitori; la donna, invece, essendo orfana, si sente da un lato più libera rispetto a delle costrizioni sociali o familiari, dall’altro soffre maggiormente per la mancanza di figure-guida. Si trovano e si specchiano l’uno nell’altra. Strizziamo l’occhio alle sitcom, alla stand-up comedy e, come dicevo, ai Peanuts, in particolare a Lucy.

E a Mafalda (personaggio dei fumetti di Quino, molto ribelle, provocatoria e acuta, ndr)?

J.B.: Certamente! È stato un lavoro portato avanti tutti insieme, anche con Massimo Beato ed Elisa Rocca (la coprotagonista, ndr). Sono venute fuori tante idee durante i lavori di improvvisazione.

profilo a6324Dunque non è un caso se la figura più borderline, ma anche più carismatica sia la donna…

J.B.: Assolutamente. La figura femminile è quella al limite, ma anche quella più forte e grintosa rispetto a quella maschile.

Massimo Beato, come si è preparato per il Suo ruolo, invece?

M.B.: Il lavoro parte sempre dall’analisi del testo e da lì abbiamo trovato con Jacopo Bezzi le linee su cui costruire il mio personaggio, il quale, pur essendo diverso da me, affronta delle tematiche a me care. È stato più un lavoro di “gioco” per cercare di essere qualcos’altro.

Che messaggio vorreste lanciare al pubblico con questo spettacolo?

M.B.: Sicuramente vogliamo abbattere un po’ di luoghi comuni e di pregiudizi, perché viviamo in un’epoca storica dove le cose o sono bianche o sono nere. Noi siamo per una meravigliosa sfumatura di grigi. E se poi i grigi diventano una sfumatura di colori, noi ne saremmo molto più felici. Vorremmo far passare il messaggio che non esistono le categorie e che è sbagliato etichettare le persone. Come dice il mio personaggio: certi temi sono problemi e questioni che non hanno nulla a che fare con la sessualità. C’è molta confusione, l’omosessualità è vista come un problema di genere: se sei uomo e gay, allora sogni di essere una donna sui tacchi. Noi dimostriamo il contrario: è una questione di costume, il genere è un’altra e la sessualità è una terza questione ancora, che prescinde da certe scelte fatte. La maggior parte delle volte, la sessualità è strumentalizzata e utilizzata come mezzo di controllo politico.

Chi vorreste vedere seduto tra il pubblico?

M.B.: La gente comune. È uno spettacolo che è stato anche pubblicizzato come LGBTQI+ (Lesbiche Gay Bisex Transgender Queer Intersessuali, ndr), ma rischia di essere anche questa un’etichettatura. Per noi Max&Max parla a tutti: è bene che ci sia la signora sessantenne che ride, la ex insegnante liceale che viene con il marito e che apprezza i contenuti, i ragazzi giovani… Certo non i bambini, perché chiaramente non è uno spettacolo adatto a loro, pur non essendo sboccato, ma potrebbe essere difficile magari da comprendere. È un’opera che cambia ogni sera, quindi anche la risposta comica o più introspettiva cambia a seconda del pubblico. É divertente per questo, ci dà l’idea di una rappresentazione aperta alla comunità.

Non amate molto le etichette, giusto?

M.B.: Le detestiamo. Infatti siamo la Compagnia dei Masnadieri!

A tal proposito: come mai questo nome? Vi siete ispirati a Friedrich Schiller e a Giuseppe Verdi?

M.B.: Il richiamo a Schiller c’è sicuramente. La Compagnia è nata nel 2007 tra le mura dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma. Quando abbiamo deciso di costituirci come gruppo, ci interessava un nome che in qualche modo rappresentasse una scelta diversa e controcorrente. I masnadieri erano visti come dei briganti, delle persone fuori dalla società. È stata una scelta un po’ provocatoria: siamo una Compagnia che ha un progetto ben chiaro e vuole rimanere fuori da qualsiasi tipo di etichetta o schema. Il nome, comunque, ha funzionato e ci ha portato fortuna.

Il vostro Spazio 18B è a Garbatella: perché avete scelto come base questo quartiere?

M.B.: La scelta è stata casuale e provvidenziale. Quando siamo nati come Compagnia, il primo municipio che ci ha accolto è stato quello che ora è l’VIII. Garbatella è un quartiere popolare, in crescita e culturalmente fertile: ci è sembrato fosse il posto giusto dove andare a fare un lavoro anche di sensibilizzazione del pubblico. Lo Spazio 18B è una tana di 30 m2 e quindi, volente o nolente, lo spettatore è immerso nella rappresentazione. È stato un modo anche per noi di ri-sensibilizzarlo al senso di appartenenza e di condivisione.

Come unite il vostro ruolo di direttori artistici con quelli di regista e di attore?

M.B.: Jacopo Bezzi ed io collaboriamo insieme da diversi anni. La nostra fortuna è che siamo persone diverse che riescono a dare ognuno il proprio apporto al progetto della Compagnia e dello Spazio. Il fatto di essere tre (compresa Elisa Rocca, ndr) ci permette di mettere, ogni volta, in scena diversi linguaggi, attitudini, specialità. È un arricchimento per noi, perché dialoghiamo molto anche sul nostro stesso lavoro. Ad esempio, io sono più legato ad un teatro di drammaturgia: l’incontro con Jacopo mi apre più su un teatro di attore, di mattatore, mi aiuta anche ad avere una prospettiva, un punto di vista diverso sul mio lavoro. Elisa Rocca è più legata a un discorso corale. Per noi è un punto di forza, perché la direzione artistica, più che essere una sorta di confezione che si dà a un progetto, è un dialogo costante.

Prendendo spunto dal vostro spettacolo Max&Max, tra 15 anni dove vedreste la vostra Compagnia?Max Max 1

M.B.: Se ci avessero chiesto la stessa cosa dieci anni fa, non ci saremmo probabilmente visti qui. Noi siamo una Compagnia in crescita che guarda sempre al futuro e al cambiamento, quindi quasi sicuramente ci vediamo da un’altra parte. Ci piace navigare così, a vista: sappiamo dov’è l’orizzonte, ma non so dove saremo tra 15 anni.

J.B.: Sono d’accordo. C’è ancora tanta strada da fare. Ci farebbe piacere poter aprire tanti Spazi 18B. Non ci accontentiamo mai, ma ci lasciamo un po’ sorprendere dagli eventi. Quest’anno ci ha anche stupito il riconoscimento da parte del Ministero, che è un incentivo per il prossimo triennio a realizzare tante cose e andare avanti con una spinta in più. Più faticosa e con grande responsabilità.

Che cos’è per voi il Teatro?

J.B.: Dire “Teatro uguale vita” è forse un po’ scontato, ma dopotutto è così: da quando apriamo gli occhi al mattino fino a che non si va a dormire, si parla di Teatro. Avere uno spazio, poi, ti dà un’autonomia maggiore, una base dove sperimentare e portare avanti un certo percorso, progettare una stagione teatrale, fare un’offerta ad un pubblico mirato e agli attori, fornire un’esperienza di lavoro, di laboratorio. È ovvio che con un coefficiente maggiorato è tutto molto più interessante e finalizzato. Ma abbiamo ancora tantissimo da imparare nella pratica.

Da direttori artistici e da spettatori, cosa vi piacerebbe vedere sul palco dello Spazio?

J.B.: Beh, la nostra stagione! (ride, ndr) Siamo ancora al primo spettacolo e ci auguriamo che ciò che presentiamo diventi un evento. La cosa più difficile è trasformare un’offerta in qualcosa che sia effettivamente unico per chi viene a vederlo. La scelta artistica di poter proporre un ventaglio di possibilità diverse è molto importante: dalla letteratura all’ospitare spettacoli sulla vita di un cantante e trombettista jazz, piuttosto che affrontare tematiche LGBTQI+, oppure avere un lavoro di Giovanni Greco sul poeta russo Mandel'štam. Ci piacerebbe vedere che tutto questo diventi l’unicità, che parli al pubblico e a noi.

M.B.: Il nostro è uno spazio che vuole parlare dell’oggi e, quindi, è importante che sia attuale, indispensabile e non solo mero intrattenimento. La scelta del testo è quasi un pretesto. La cosa importante è che ci sia un’utilità effettiva e che crei una comunità con cui dialogare. Purtroppo viviamo in una società dove l’individualismo è imperante. Ci piace un teatro di confronto, un teatro che abbatta la quarta parete, anche quando facciamo testi apparentemente più classici.

Ultima domanda: tre parole per descrivere Max&Max – Capitolo II ?

J.B.: Ruolo, dissacrante, sodalizio.

M.B.: Uno slogan va bene? Enjoy your gender!

Chiara Ragosta 16/10/2018

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