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A Torino si rinnova la magia del Fringe: la città invasa dal teatro indipendente

TORINO – Torino è una città che cambia di anno in anno. Un'anima sempre in costante mutamento che la pioggia di questa edizione non è riuscita ad ingrigire né smorzare. Torino è viva, è verdissima, è colorata. E questa undicesima edizione del Torino Fringe Festival ha confermato proprio questa straordinaria empatia e simbiosi tra città e rassegna con freschezza, gioventù, attenzione, aperture, accessibilità, nuove visioni. Tanti gli spazi toccati dalla manifestazione diretta da Cecilia Bozzolini, dall'Unione Culturale Franco Antonicelli al Magazzino sul Po, dal Museo Storico Reale Mutua allo Spazio Ferramenta, dal Bunker a San Pietro in Vincoli, dallo Spazio Kairos al Cubo Teatro Off Topic, da Casa Fools al Vinile, dal Teatro Astra al Beeozanam, un giro di Torino per conoscerla meglio attraverso luoghi nascosti e tutti da scoprire in un itinerario diverso tra i vari quartieri. Organizzazione perfetta, pochissimi ritardi sull'inizio degli spettacoli, sorrisi in quantità, due spettacoli a sera Betun.pngin ogni spazio per due settimane di repliche (dal 12 al 28 maggio).

Nel Fringe puoi trovare un po' di tutto, dal monologo al teatro di strada, dalla stand up comedy al dramma. Ad esempio la compagnia Teatro Strappato, italo-venezuelana con il loro “Betun” (prod. Teatro Strappato) ci ha mostrato come la piazza sia diversa da un palcoscenico. Anche se qui lo spettacolo ha festeggiato le centocinquanta repliche ha mostrato tutte le sue lacune lasciando fredda la platea nelle timide interazioni degli attori verso il pubblico. Una pièce senza parole, cupa e fosca, che non è riuscita a comunicare il senso di straniamento e violenza dei bambini di strada sudamericani con scene e quadri che hanno sottolineato un difetto di molti gruppi indipendenti: la mancanza di un occhio esterno, quel “primo spettatore” fondamentale per capire che cosa si sta passando a chi non conosce la materia che si sta raccontando; da dentro molte cose e passaggi vengono dati per scontati. “Betun” soffre di grandi vuoti drammaturgici e le tanto glorificate maschere non riescono a sopperire a queste mancanze lasciandoci interdetti, delusi e naufraghi. Se non avessimo letto il foglio di sala o se l'attore a fine replica non ci avesse spiegato a che cosa facevano riferimento le loro evoluzioni sul palco non avremmo capito a che cosa si stavano riferendo. Non è un dettaglio da poco. Forse la loro dimensione migliore è quella di uno spazio all'aperto e non chiusi tra le mura di un teatro dove occorrono altre esperienze.

Si può sempre prenderla con filosofia, così ci spiega Davide Grillo nel suo “Come se niente fosse” monologo su disastri e disillusioni. Timido quanto basta Davide Grillo.jpgper far scattare vicinanza e solidarietà alle sue gesta sfortunate. Strimpella la chitarra, suonicchia il trombone. Peccato per quel leggio che stoppa il flusso delle immagini e mette un freno al pathos, imbriglia la risata, rallenta i cuori. Il suo è un racconto profondo in tono leggero sul nostro mondo ormai invaso da scetticismo, insignificanze, disorientamento, incertezze, vuoto, panico, straniamento dove al suo interno fanno capolino i rapporti sentimentali ovviamente andati al macero, i fascisti (perché ci stanno sempre bene), il poliamore, l'inadeguatezza, i sensi di colpa, l'ansia di vivere. In qualche passaggio, per qualche verso sottopelle e sentore sconosciuto ci ha ricordato, come senso di abbandono e disfatta, la pellicola “Siccità” di Virzì. Tre momenti esilaranti: la fidanzata che parla del loro rapporto come farebbe un calciatore in un'intervista nel dopo partita, lo spot dello spray “Adito” (super), il coro dei cattolici in stile ultrà in trasferta: “Che ce frega del futuro noi c'abbiamo l'Aldilà”. E poi tante belle verità da appuntarsi e conservarsi e tatuarsi (perché la scrittura c'è eccome): “C'è il male di vivere e il vivere male” o “Di fronte all'indifferenza bisogna fare la differenza” e infine “Se non trovi il punto di riferimento forse il punto di riferimento sei tu”. Mai banale, generazionale ma neanche troppo. Grillo ci deve credere un po' di più, spingere ulteriormente, essere più convinto. I mezzi ci sono.

Presenza scenica che ne ha da vendere Rossella Pugliese che, con il suo “Ultimo Strip” (prod. Deneb), ci parla di famiglia ma anche di Rossella Pugliese.jpgpatologie psichiatriche in una Calabria (suo habitat linguistico naturale) che fa da sfondo e avvolge, stritolando, i protagonisti della vicenda. Narrazione per la verità alquanto contorta, con nomi e date ed eventi che si incastrano e sovrappongono, contorcendo i fatti a tratti non risultando lineare e scorrevole. Il percorso di una madre e una figlia, che sembrano accavallarsi e ricalcare un modello e un esempio anche se osceno e negativo, troppo frammentato e, in alcuni passaggi chiave, di difficile comprensione. Comunque il play è onirico e sensuale, la Pugliese, che gira come la bambola da carillon, governa la scena e la doma tra l'abito da sposa e questo piedistallo che si fa cassapanca dei ricordi, come cilindro del mago, il palo della lap dance, le catene, il body a rete e le altalene da Luna Park. Miscelate con sesso e autodistruzione, con sottomissione e rapporti sentimentali corrotti e tossici, caustici e corrosivi, tradimenti e una grande insoddisfazione di vivere di una ragazza maltrattata diventata adulta troppo presto. Le doti attoriali della Pugliese non si discutono ma chiarire alcuni momenti testuali e sottolineare meglio, forse asciugando e snellendo, alcuni nodi focali per una comprensione migliore del fatto che si sta raccontando. Ed è un peccato se il pubblico non riesce pienamente ad entrare nella storia nelle pieghe e nelle sfumature.

Paolo Paolo Faroni.jpgFaroni ci sorprende ancora una volta con il suo nuovo “Perle ai porci” (prod. Bluscint) con la sua verve aggressivo-passiva e quella “cattiveria” dialettica profonda e ispida, mai stucchevole, bilanciata tra una sana risata e una riflessione sorridendo a denti stretti. Ha questa fisicità debordante, incute timore la sua voce profonda ma il suo sciorinare tra i meccanismi del teatro e quelli della vita affascina la platea che lo acclama come suo mentore e guru. Pare un pugile arrabbiato, lancia i suoi jab ficcanti, ci porta a spasso con una scrittura che funziona toccando temi alti, fascismo e sinistra, gli alieni (che hanno la voce di Sandro Ciotti), politica e mafia, Capaci, Cucchi, la Val di Susa con battute al vetriolo, non urticanti ma ustionanti. Montagne russe tra il comico e il drammatico, applausi festanti, traboccanti e scoppiettanti. Inutile sottolineare che le Perle sono le sue e i Porci noi.

A volte nella vita è questione di accenti. Ad esempio vénti e vènti, pésca e pèsca. Oppure, ed è il nostro caso, Péne o Pène. Organo sessuale maschile o sofferenze. E gioca proprio sulla doppia accezione questo “Pene” (prod. Fools) con Stefano Sartore (lussureggiante e sfolgorante) che brillantemente punge il tema dell'identità, picchiando forte il maschio. L'aria si fa subito frizzante nel suo nudo esposto. La tesi di fondo è che nel mondo c'è troppa violenza e disagio e guerre ed è tutta colpa del maschio e del suo testosterone. Lo dice testualmente: “Vogliamo dimostrare quanto sia nocivo il cazzo” e poi suggella: “Ci sono anche cazzi che hanno fatto buone cose” citando il passato. Non che le sue teorie (testo scritto insieme a Luigi Orfeo e Roberta Calia) non possano avere fondamenti di verità ma spesso si tracima nelle espressioni, “L'unica possibilità è evirare tutti gli uomini alla nascita”, o nel mostrare una tipologia di uomo che rafforza la tesi proposta: l'uomo violento finiti alla sbarra, il padre possessivo e geloso patologico con bambina in braccio, il generale guerrafondaio, l'omosessuale anziano che racconta le sue peripezie e Lorenzo Bartoli Entusismo zero.jpggeometrie euclidee per incastrarsi meglio. Quando la cabina dei cambi d'abito si gira troviamo la scatola-confezione di Ken a grandezza naturale. E il cerchio si chiude. Forse il compagno di Barbie soffre dell'“invidia del pene” freudiana? Quasi un “Brevi interviste con uomini schifosi” o un “Monologhi della vagina” in versione maschile o ancora un “Quello che le donne non dicono” di mannoiana memoria ma molto più incarognito e radicale.

Nella vita ci vogliono eccitazione, esaltazione, foga e fervore non come il personaggio (assente) di “Entusiasmozero” scritto, diretto e prodotto da Fabio Marchisio con un eccellente e generoso, spiritato e esagerato e esagitato Lorenzo Bartoli (ci ha ricordato un mix tra Scimone/Sframeli, Antonio Albanese, Antonio Conte e Johnny Stecchino) in scena lanciato in un dialogo surreale ad una voce tra un piccolo malavitoso locale e un “picciotto”, appunto silenzioso. Anche qui la veste leggera nasconde un animo contemporaneo e tagliente in un racconto sulla mafia, sulle regole e i rapporti Don-chischotte-sulla-luna.pngnon scritti con la politica, la corruzione, gli appalti, il tutto in salsa pentastellata, una rivoluzione taciturna, più un auspicio, un sogno rispetto a quello che poi effettivamente nella realtà è accaduto.

Ed eccoci al migliore, secondo noi, visto nei quattro giorni di permanenza al Torino Fringe (ma perché non inserire un Premio della Critica e uno del Pubblico e varie menzioni? Renderebbe il tutto più frizzantino): “Don Chisciotte sulla Luna” (prod. Elmo di Mambrino, A.M.A. Factory). La scrittura di Angelo Tronca è pantagruelica, dadaista, irrazionale, paura e delirio, una follia ben architettata in scena dallo stesso Tronca affiancato da costole del Mulino di Amleto, Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo in questa pazzia teatrale dissennata, una chimica spasmodica, una miscela giocosa tra Cervantes e l'Ariosto. Inventiva e invettive, trovate ed escamotage, arringhe, citazioni e poesia, tra Mario Bros e Celentano, una piece sul coraggio, sul non avere paura, un'alchimia emozionante, un respiro commovente, irriverente: sicuramente spassoso.

Tommaso Chimenti 31/05/2023

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