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“Primavera dei Teatri”: Napoli, Palermo, Argentina, il Sud ha una marcia in più

CASTROVILLARI – Anche quest'anno è la locandina il miglior biglietto da visita per “Primavera dei Teatri” (dal 27 maggio al 4 giugno), che da ventitré anni porta il teatro contemporaneo nel nord della Calabria: un manichino, una bambola gonfiabile dentro un cellophane su un divano, in attesa di essere usato o buttato lì proprio perché non interessa più a nessuno. Una sorta di azzeramento dei desideri, come quando si lasciano le case delle vacanze e si coprono i mobili per non farli aggredire dalla polvere. Quindi cura ma anche dimenticanza, preoccupazione e abbandono. Tre gli spettacoli che più ci hanno colpito all'interno del cartellone messo a punto dai tre direttori artistici, Dario De Luca, Saverio La Ruina, Settimio Pisano. Il Sud (italiano e del mondo) ha da sempre una marcia in più, teatralmente e non solo. Sicuramente ha ancora qualcosa da dire. Ha le viscere, la pancia, il sentimento, il sangue che ribolle, la lotta, il fermento, la rivoluzione, la grinta, la ribellione sotto pelle.

Questo nostro viaggio parte da Napoli, nasce da “Giorni Felici” di Samuel Beckett e diventa questo “Felicissima jurnata” (prod. Cranpi, Teatro di Napoli) dei Puteca Celidonia: poteva essere una nuova trasposizione in un dialetto regionale di uno dei tanti lavori del maestro irlandese come furono “U' jocu sta finiscennu” dei Krypton in calabrese o “Aspettando Godot” in abruzzese del 2023-06-03 FELICISSIMA JURNATA Puteca caledonia foto PdT  Angelo Maggio DSC01814.jpgTeatro Immediato, ancora Godot che in dialetto bresciano divenne “Che fom? ...Spetom!” di Faustino Ghirardini, o ancora Daniele Benati in reggiano. Invece i Puteca prendono spunto dalla veste beckettiana e ne immettono il proprio contesto, il quartiere napoletano dal quale provengono, il rione Sanità, e ancora più dentro, fino al cuore del loro vicolo (diventando immediatamente un testo eduardiano), applicando a Winnie e ai suoi giorni felici le interviste, le vere parole degli abitanti dei bassi che lì attorno brulicano, le persone che lì nascono e muoiono con quell'unico immaginario visivo negli occhi per decenni, memorie storiche e popolari di un universo bloccato, asfittico, attorcigliato come è la protagonista (dai mille risvolti e atmosfere Antonella Morea con la forza espressiva di Milvia Marigliano e l'efficacia ruvida di Barbara Valmorin) logorroica sepolta dalla vita in giù dentro questo triangolo, impilata e impalata in un cumulo di sabbia che in questa versione partenopea s'ingigantisce divenendo un vulcano (l'iconica scena che riempie le retine è di Rosita Vallefuoco), ovviamente il Vesuvio, ma anche un igloo per il gelo dei sentimenti o una grande gonna-appartamento-ripostiglio sotto la quale traffica e s'ingegna il marito che non proferisce parole, soverchiato dall'abbondanza di quelle a raffica della coniuge, ma soltanto grugniti gutturali e poco più. La drammaturgia (di Emanuele D'Errico) si bilancia con le voci in audio delle interviste che ci raccontano di queste povere, semplici esistenze, di queste sempre uguali giornate tipo composte da riposo, rosario, televisione in case abusive, vite al limite in equilibrio sul poter mettere un piatto in tavola o meno. “Che giornata felicissima” ripete lei per autoconvincersi, per dirsi anche questo giorno siamo sopravvissuti e “Questa giornata deve finire prima o poi” non è altro che la trasposizione del celebre “Adda passà 'a nuttata” di “Napoli milionaria”. Queste persone che si accontentano di poco hanno un'anima, non chiedono, 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02713.jpgnon sperano più, sussurrano “Non ci possiamo lamentare” in una costante ansia/asma di vivere, respiro corto e affannato nelle preoccupazioni, nella fatica di tirare a campare, nel domani incerto che si spera sia monotono e incolore come il giorno prima che almeno significa salvezza, che un altro giorno lo abbiamo messo in cascina, nell'ammasso dei giorni felici. Onirico e concreto, “Felicissima jurnata” è uno schiaffo al capitalismo, alle lamentazioni dell'uomo contemporaneo, al surplus consumistico che ha schiacciato e azzerato i sentimenti.

Da Napoli ci spostiamo un po' più giù, a Palermo dove troviamo un Giuseppe Provinzano che è, attorialmente e teatralmente, visibilmente cresciuto e maturato padroneggiando meglio la scena, la materia e avendo ideato e architettato davvero un'opera che recupera sì la memoria dei giudici Falcone e Borsellino ma lo fa attraverso storie piccole, laterali, appunto “Storie di noi” di Beatrice Monroy (prod. Babel, Fondazione Giovanni Falcone, Spazio Franco). Storie minime, storie di palermitani che hanno visto, vissuto o anche solamente sentito il fragore, il frastuono, il boato dei due ordigni che cambiarono la geografia, il sentire degli abitanti. Provinzano, anche attraverso la maniera del cunto di Mimmo Cuticchio, dà voce a vicende cittadine, a eventi quotidiani che si sono trasformati in epica, in leggenda. Tra il 23 maggio 1992, la bomba di Capaci, e il 19 luglio 1992, l'autobomba di via D'Amelio, distano 57 giorni, come 57 sono i minuti dello spettacolo che si appoggia su un bel tappeto sonoro, su tante voci off, su una scenografia che ipnotizza: lui al centro ci aspetta palleggiando, attorno distese diverse sagome 2023-06-04 STORIE DI NOI Giuseppe Provinzano  PdT foto Angelo Maggio DSC02830 (1).jpgcome corpi uccisi, stracci che diventeranno lenzuoli immacolati da stendere sul fondale ad ogni capitolo, tanti lumini cimiteriali tutt'attorno, e due macchinine telecomandate che s'inseguono, una Fiat Croma bianca uguale a quella sulla quale viaggiava Falcone, una come la Centoventisei rossa che era stata imbottita di tritolo per l'attentato a Borsellino sotto casa della madre. E ci sono i bambini che giocano in strada, e c'è Giusy che si è appena sposata, e c'è una partita sentitissima di calcio tra due condomini rivali (e qui sembra Davide Enia in “Italia-Brasile 3-2”), e ci sono le figlie piccole di un giudice, e c'è una giornata al mare a Mondello, e c'è lo scagnozzo che prepara le case per i latitanti. Un testo che gronda poesia e sangue, sudore e afa, il tutto accompagnato dall'inquietante filastrocca: “Trema la terra, trema il mondo e tutti giù per terra”.

Da Napoli a Palermo e infine un salto in Argentina, un altro pezzo di Italia nel continente americano. Frutto di una residenza e di uno scambio tra il Sud America e la Calabria, Micaela Farina, con autoironia e passione, ci racconta la sua storia, i suoi fallimenti, le sue cadute, la sua voglia di non mollare. Vuole, da sempre, fare la cantante lirica ma da una parte soffre d'asma e dall'altra viene rifiutata in tutti i provini ai quali partecipa. Un po' Paperino, 2023-06-03 LA CONSAGRACION DE NADIE gonzalo quintana micaela fabira  foto PdT  Angelo Maggio DSC00162.jpgun po' Calimero, un po' Mafalda (non a caso personaggio disegnato dall'argentino Quino). Ne “La consagration de nadie” (scritto insieme a Gonzalo Quintana), ovvero “l'affermazione di nessuno”, perché l'hanno fatta sentire una nullità, ci racconta la sua parabola, l'Argentina, la famiglia, i corsi di canto, il passaporto italiano, lo studio lirico nella terra di Verdi e Puccini: tutto inutile. Una storia di orgoglio ma anche una richiesta d'amore e di affetto, di vicinanza, di partecipazione, di essere vista, guardata, ascoltata, di avere la sua dose di applausi (ne ha avuti moltissimi dal pubblico commosso di Castrovillari), di sentirsi viva. Lei inciampa, cade e si rialza sempre, fino alla prossima delusione, senza fare progressi nel canto e neanche nell'amore (forse le due cose sono connesse), ma non rinuncia testardamente ai suoi sogni. “Mi dicono di no, e io insisto” come una minaccia, un monito a se stessa e al mondo, è il suo lei motiv, il suo refrain, il suo loop, il suo mantra, rivincita e maledizione. Ma è un continuo abisso nel quale annegare e sentirsi sola e abbandonata, dove piangere senza consolazione. Quando parte il video di lei che da adolescente suona e canta la canzone colonna sonora di “Titanic” di Celine Dion è impossibile non avere gli occhi lucidi e bagnati perché siamo stati tutti almeno una volta (mille volte) come Micaela nel sentirsi imbranati, sbagliati mentre avremmo voluto soltanto attenzioni e abbracci, complimenti ed elogi, una pacca sulla spalla, almeno un bravo. Avrebbe soltanto voluto un po' d'amore. “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”, diceva Samuel Beckett. E Napoli si ricongiunge all'Argentina.

Tommaso Chimenti 07/06/2023

Foto: Angelo Maggio

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