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Il berlusconismo pervade il “Don Chisciotte” di Latella e il “Napoleone” di Lino Guanciale

NAPOLI – Non poteva essere altrimenti. Non poteva che andare così. Proprio nel giorno dei funerali di Silvio Berlusconi, Napoli rende il suo omaggio, del tutto involontario e inconsapevole, all'uomo di Arcore così innamorato di Napoli e della canzone napoletana. Due spettacoli diversissimi e lontani che però sono stati lapalissianamente un rimando alla contingenza dell'attualità: se nel “Circus Don Chiosciotte” di Antonio Latella in platea erano posizionati una ventina di televisori analogici con davanti varie poltrone, nel secondo, “Napoleone. La morte di Dio” di Davide Sacco, si parla della “morte di un dio, di un Imperatore” ed è forse impossibile oggi, in Italia, non pensare alla figura del fondatore di Mediaset. Due pièce che potrebbero apparire imbevute di berlusconismo latente e inconscio, intrise di quest'atmosfera da fine Impero, di opulenza e oblio di un Regno che perde i pezzi. header_mobCTF23.jpgIl titolo di questa edizione del “Campania Teatro Festival” è “Battiti per la bellezza”, che potrebbe essere letto come i battiti del cuore o come coniugazione del verbo battere, battersi meglio, lottare. Programma leggermente ridotto rispetto alle versioni monstrate fino allo scorso anno, budget lievemente compresso per un mese di programmazione senza toccare più Capodimonte ma andando nei tanti teatri cittadini, dal Politeama al Mercadante, dalla Sala Assoli al Teatro Nuovo, dal Trianon Viviani al TAN Teatro Area Nord e il Museo Madre fino a Villa Floridiana.

Nel “Don Chisciotte” (prod. Teatro di Napoli, CTF) per la regia di Antonio Latella due uomini, due facce della stessa medaglia, abbigliati in maniera uguale speculare, si muovono in una platea vuota da poltroncine che diventa palco dove stazionano appunto i citati televisori, diversi uno dall'altro, posizionati davanti a sedie o poltrone anch'esse differenti una dall'altra. Un uomo parla napoletano (il piacentino Marco Cacciola) e dovrebbe essere Sancho, l'altro spagnoleggiante, vetusto, forbito, arcaico (Michelangelo Dalisi) è Chisciotte di cervantesiana memoria. Ed è tutto un gioco tra le due parti, di rincorse, di sberleffi, calembour, giochi di parole alla Totò e Peppino, alla Franco e Ciccio, con perifrasi che sembrano uscire dalle rime del Cirano, assurdo, grottesco, surreale, anche vestiti come Ghostbuster con aspirapolvere sulle spalle, abatjour, ombrello, bastone da rabdomante, pantaloni da guardie svizzere o figuranti del calcio Storico fiorentino, fruste da cucina e scovolino per la polvere ovviamente arcobaleno. Salviamo il bel monologo iniziale (il testo è di Ruggero donchisciotte_ph_nocera_teatrodinapoli_20230607329-scaled-e1686757064842.jpgCappuccio) di Cacciola sul proprio paese (che potrebbe essere scritto indifferentemente con la minuscola, il paesello, o la maiuscola, lo Stato), sull'emigrazione nostalgica (ci ha ricordato alcuni passaggi degli scritti di Franco Arminio) che diventa rabbia astiosa, un'arringa che da allegra diventa sfogo amaro, arrabbiato anche se rassegnato e sconfitto. La scena vista dall'alto dei palchetti, con i televisori e le luci cangianti (passano dal giallo, rosa, rosso, blu, bianco, un'aria rarefatta e misteriosa da sogno felliniano) e il grande tabellone dove ruotano le lettere in stile stazione ferroviaria, è già di per sé una profonda installazione d'arte contemporanea dove gli anni delle tv spalleggiano il lento cambiamento meccanico, faticoso, quasi ingrippato, che gira alla ricerca delle lettere per fissare una prossima destinazione smarrita. Ulteriore innesto di senso sono questa ventina di signore e signori anziani che vengono accompagnati sulle varie poltrone e che seguiranno tutta la piece da quella posizione privilegiata. Questo “Don Chisciotte” a tratti potrebbe sembrare andare contro il pubblico: più formalismi che sostanza, più ricerca della trovata che essenza.

Abbiamo dettoclipboard-0136.png del funerale dell'Imperatore che si ricollega al Signore di Milano Due. In questo “Napoleone. La morte di Dio”, scritto e diretto da Davide Sacco (che gestisce il Teatro Manini e il festival Narni Città Teatro nella cittadina umbra), presenta una scena cupa, scura, nera, ombrosa e imponente a fare da sfondo a queste amare riflessioni, non così chiare e limpide, sulla vita e sulla morte, sull'essere figli e sui padri che se ne vanno lasciando vuoti da gestire. Più vicende si intrecciano, più piani temporali si affastellano. Lino Guanciale (sempre amatissimo dal pubblico) ci mette anima e corpo in questo addio, tra obitorio e cimitero, su questa panca che si trasforma in catafalco (molto shakespeariano). A tratti la recitazione può apparire urlata, agitata, concitata e la sua voce (in alcuni passaggi ricorda i filmati dell'Istituto Luce) si sovrappone a quella della cantante (la bravissima Simona Boo) che ci porta dentro le atmosfere di Modugno o intona “Lascia ch'io pianga”. La scena costruita in altezza da tubi innocenti e impalcature e orizzontalmente con cumuli di terriccio per la sepoltura inneggia e richiama ora al cielo adesso alle profondità, al mistero del dopo. Le varie storie, in un flusso di parole copioso, che si incastrano forse non aiutano la comprensione (abbiamo visto la piece sia a Napoli che a Narni) di questo figlio in lotta tra il sentirsi un orfano ormai adulto e un padre che spegnendosi si è portato via il segreto della vita, nell'impossibilità di un nuovo incontro, nel dolore della perdita che difficilmente si può razionalizzare.

Tommaso Chimenti  19/06/2023

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