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Recensito incontra Elena Arvigo, teatro e cinema senza distanza

Elena Arvigo, classe 1979, è Gaia in “Senza Distanza”, opera d’esordio nel cinema indipendente del giovanissimo regista Andrea Di Iorio. Attrice prevalentemente teatrale (l’avevamo seguita quando aveva portato Jan Fabre al Brancaccino di Roma e tornerà nella capitale nella stagione 2018-2019 al Teatro di Roma), si forma come ballerina e poi al Piccolo di Milano negli ultimi tempi di Strehler ma non è nuova al grande schermo: nel 2010 è nel cast di “Eat Love Pray” di Ryan Murphy con Julia Roberts. In “Senza distanza” è il grillo parlante in un b&b per coppie che si preparano ad una relazione a distanza: interpreta una giovane donna alla ricerca della felicità senza se e senza ma.

Quanto si riconosce nel personaggio di Gaia?
“Io sono all’opposto di Gaia, ma proprio per questo ho trovato molto divertente interpretare questo personaggio. C’è una parte di verità nelle sue parole: bisognerebbe guardare alla felicità e non al legame in sé. Penso che l’amore sia una scelta. Poi c’è la vita, però, che è un’altra cosa: c’è sempre una distanza nelle relazioni che spesso diventa un alibi per giustificarsi.”

Qual è il bilancio dell’esperienza sul set di “Senza distanza”?
“Ottimo. Il film è stato fatto in otto giorni – io sono stata sul set forse solo due o tre giorni – e con un budget ridottissimo: questo è un elemento imprescindibile per comprendere il film. Ad Andrea [Di Iorio, il regista, ndr] dico sempre che questo film è un piccolo miracolo. Certo alcuni elementi si potrebbero migliorare, come gli spazi a volte troppo schiacciati, ma è realizzato in tempi record. È surreale, eppure credibile. Ti rimane qualcosa di questo film. Mi era capitato di fare altre cose con il cinema indipendente, ma questo è il più indipendente di tutti, forse non il più selvaggio ma c’è un soggetto, un’idea. C’è qualcosa di speciale, nonostante i mezzi.”

elena arvigo fotoQual è il Suo rapporto con il cinema e con il teatro?
“Fare l’attrice e basta mi è sempre stato un po’ stretto. Ero un’attrice classica, facevo provini in parallelo per teatro, cinema e televisione, sono stata anche protagonista de “La Piovra” nel 2001. Ma a teatro l’attore si diverte di più. Dal 2008-2009 il mio rapporto è cambiato: ho cominciato a fare i miei spettacoli. Scelgo cosa portare in scena, penso a “Maternity Blues” (2013). Il rapporto con il cinema è frustrante. Il rapporto con il teatro, invece, è frustrante solo economicamente perché sono felice e le cose che ho fatto rappresentano ognuna un mio desiderio. Nel rapporto con il cinema tutto è filtrato dal mondo del casting e da un modo di recitare cinematografico che loro chiamano naturale e che, secondo me, equivale a chiacchierare intorno alle battute. Prima ancora di essere bravo, al cinema devi essere giusto, qualcosa che va oltre la telegenia. Eclatante il caso di Marcello Fonti in “Dogman”, l’attore protagonista che ha vinto Cannes: premiare quell’attore è come premiare il bambino di “Nuovo Cinema Paradiso”, cioè un volto stampato. Che interpretazione ha fatto? Straordinaria.”

Come nasce il rapporto con il teatro?
Il mio rapporto con il teatro nasce di nascosto da me stessa, credo. Ho fatto tanti anni di danza, mentre facevo l’università coltivavo altri interessi, anche per evadere. Ho vissuto a Londra, dove ero visiting student presso la Goldsmith’s University, avevo studiato come ballerina presso l’Accademia di danza London Studio Centre. Poi quel corso di recitazione a Genova, e l’insegnante che mi suggerisce di fare quell’anno il provino di ammissione al Piccolo di Milano. Era il 1996. C’era ancora Strehler. Da quel momento sono stata inghiottita da una realtà estremamente strutturata, una scuola, un’accademia quasi militare di otto ore giornaliere. Ho iniziato forse con una certa leggerezza, ma non per caso: era una passione nascosta, un sogno inespresso.”

Elena Arvigo 1Lei ha vari workshop all’attivo. Cosa le piace della pedagogia teatrale?
“Mi piace tantissimo perché offro qualcosa del mio percorso. La parola chiave è la responsabilità dello stare in scena: bisogna capire cosa si sta facendo, non bisogna farlo in maniera passiva. Oggi agli attori, anche appena diplomati, creano piccole compagnie, mentre negli anni ‘90 non era consuetudine. Questo però deve avere un senso. Devo capire che necessità ho, perché sono lì. Il punto non è diventare bravi, trovare la propria libertà piuttosto. La libertà non è una passeggiata, non deve diventare un atto egotico. Se le cose uno non è capace non le deve fare, sono molto dura su queste cose. Nessuno può insegnare ad avere talento, sicuramente non un workshop. Buone abitudini di pensiero e di approccio alle cose. Poi diventare bravo o smettere di esserlo dipende da tutte le scelte che si faranno. La sensibilità è un muscolo: se le cose si fanno senza cuore, il talento può rovinarsi. Vedi attori meno bravi ma con amore e necessità che vanno avanti ed in scena hanno senso.”

Parlando di pedagoghi: quale ricordo ha di Giorgio Strehler?
“Era un maestro, un vulcano. Era quasi ansiogeno, come la struttura del Piccolo, che porta a un cilma di competizione. Qualche volta arrivava con la sua dose di timore. Il Piccolo era una piccola comunità terapeutica: una classe di 20 persone ogni tre anni. Provini durante gli anni per le produzioni del Piccolo.
Il ricordo più vero che ho è quello del mio provino con lui presente: è stato paziente, è stato bello. Una volta superato il provino, però, la scuola era in mano agli insegnanti. La mia classe [il triennio 1996-1999, ndr] è stata l’ultima ad aver avuto Strehler direttore. Sarebbe morto il 25 dicembre 1997. Si sentiva l’odore di quella grandezza, ma anche della stanchezza del maestro.”

 

Alessandra Pratesi
09/06/2018

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