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Al Brancaccino di Roma Elena Arvigo è "L'imperatore della sconfitta" di Jan Fabre: sbagliando si impara

"Scusate, non parlavo con voi ma con me". Occhi grandi alla Amélie Poulain, voce roca e graffiante: quando Elena Arvigo sfonda la quarta parete oltrepassando il tulle nero per rivolgersi a tu per tu con il pubblico, lo spettacolo è a metà del suo svolgimento. Lo spettatore si è già immerso nel flusso di pensieri e immagini poetiche che straripa dalla scena e inonda la sala. "Che animale sono?", prosegue Arvigo, "Sono o non sono l'imperatore della sconfitta?". Dal 15 al 18 febbraio il Teatro Brancaccino di Roma ne è il regno, con "L'imperatore della sconfitta" di Jan Fabre.
Il testo originale è del 1994, composto in omaggio all'attore Marc Moon Van Overmeir dal belga Jan Fabre, autore e regista teatrale conosciuto in Italia soprattutto come poliedrico visual e performig artist. Nel 2011, in occasione di un workshop alla Biennale di Venezia, Elena Arvigo lo incontra e ottiene i diritti della pièce. Nel maggio 2017 va in scena per la prima volta a Milano, prodotto dal Teatro Out Off. La versione italiana curata da Giuliana Manganelli è orientata ad una domestication in virtù della quale non solo le filastrocche fiamminghe sono rese con un più italico "Tre civette sul comò", ma il testo è interpolato dall'inserimento di un secondo attore in carne ed ossa (Caterina Gramaglia) che traduce il tema del doppio e si propone come specchio e (alter)eco del protagonista. Elena Arvigo è sul palco nella doppia veste di regista e attrice principale perché, come spiega lei stessa, si tratta di un progetto teatrale estremamente personale, che non ammette deleghe e che nasce da un'urgenza intima. Come intimi sono l'atmosfera e i temi di questo monologo a due voci. Riduttiva ogni descrizione o classificazione: il racconto dello spettacolo non può che essere un resoconto delle sensazioni suscitate.
La complessità del testo e la relativa semplicità delle soluzioni sceniche, musicali e luministiche esigono la partecipazione piena di sensi e spirito del pubblico. In perfetta corrispondenza con l'estro di Jan Jan Fabre foto2Fabre, che l'arte l'ha attraversata e la attraversa in tutte le sue forme con un'energia e con una forza vitali contagiosi a detta di Elena Arvigo, "L'imperatore della sconfitta" si rivela più un'esperienza da attraversare e da cui lasciarsi attraversare, che una drammaturgia compiuta. Più un esperimento da avanguardia letteraria che un copione teatrale. Nella circolarità e nell'asperità del testo, il rischio a scadere nell'autoreferenziale è latente. E l'auto-regia sembra insistere in questa direzione: un teatro che parla al teatro del teatro. La destrutturazione del testo poetico si fa portante. Ripetizioni, rimandi, riprese, ricomposizioni. E calembour, dove si oscilla tra "ecografie del futuro o eco del passato", "comico o cosmico". E nonsense provocatori e pretestuosi simili agli esiti, di quegli stessi anni '90, di Sarah Kane. La fruizione del testo non sembra beneficiare di tutto il potenziale che potrebbe derivare da un intervento registico e attoriale. Nemmeno offrendosi al pubblico con il cuore in mano. Fuor di metafora, perché come per il Magritte conterraneo di Fabre, la scala degli oggetti è determinata dall'importanza loro attribuita. C'è da chiedersi, dunque, quale sia il significato ultimo del cuore gigante ripieno di polistirolo che troneggia al centro della scena, che viene abbracciato, conteso, straziato, svuotato. Perché ceci n'est pas un cœur.
Il fil rouge della sconfitta, suggerito dal titolo, risiede nella predisposizione a sbagliare tipica dell'uomo, ed alla necessità di correggersi, risollevarsi, ricominciare ("ricomicio… e ancora, ancora"). Come mago o "clown diabolico", come "cavaliere della disperazione" o "ballerino senza gravità", novello Arlecchino come la maschera triste e meditabonda delle tele di Picasso ha "navigato tra la sofferenza" e "sperimentato le forme dell'errare", alla ricerca della felicità, del piacere e dell'arte, in una follia che è "sogno insolubile". Nel cubista spagnolo e in Jan Fabre si rileva la medesima poetica della scomposizione-ricomposizione, un puzzle dove proiezioni video (un cuore pulsante, galassie siderali, cavalli, cow boy, Ginger e Fred) ed effetti sonori (il battito cardiaco, i Beatles, Édith Piaf, disco music) devono combaciare al millimetro con i gesti verbali e scenici che prevedono equilibrismi su scale, lotta fisica, balli e salti liberatori. Prima di consegnare un messaggio, una storia, un'emozione l'ingranaggio teatrale si mostra e si dimostra nella sua veste, più arti-ficiosa che arti-stica. I cappelli a cilindro che completano costumi di scena estremamente spartani (stivale nero, pantalone nero, cappotto nero) strizzano l'occhio alla coppia in eterna attesa di Godot e all'assurdo tristemente comico di quella tradizione drammaturgica. Qui non si ride, però. L'ambientazione è quella del sogno o del dormiveglia e i temi trattati sono universali. La riflessione tocca l'identità personale dell'io da una parte, essenza e finalità della macchina teatrale dall'altra: "volevo intuire il piacere supremo", "mi esercito a non fare niente, si sa che l'esercizio genera l'arte". Si sbaglia e si ricomincia. Si sbaglia e si impara, nel teatro e nella vita.

Alessandra Pratesi 19/02/2018

Foto: Manuela Giusto

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