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Sanremo 2017: i primi 11 brani in gara

Feb 08

Sorvoliamo sull’indecente omaggio a Luigi Tenco (non tanto per l'interpretazione di Tiziano Ferro, quanto per il massacro di "Vedrai vedrai" subito dopo). Sorvoliamo sull’infinita carrellata (piena di errori) di omaggio alle grandi hit del passato. Sorvoliamo su Ricky Martin, sorvoliamo sul fatto che nella prima ora non accada nulla (Raoul Bova a parte, quindi comunque nulla) e andiamo direttamente al nocciolo della questione: le canzoni in gara nella prima serata del 67° Festival di Sanremo.
GIUSY FERRERI “Fa talmente male”. Roberto Casalino ne ha scritti parecchi di pezzi sanremesi e/o radiofonici, distribuendoli equamente tra rapper e interpreti plastificate del nostro beneamato panorama commerciale. Uno su tutti “L’essenziale”, con cui Marco Mengoni ha vinto nel 2013. Il primo che porta la sua firma è presentato da Giusy Ferreri, di ritorno da Bangkok con una mise quanto mai discutibile. “Ogni istante fatalmente fa-talmente male”: il giochino di parole nel ritornello è abbastanza lampante e non aggiunge un grosso significato a un testo sulle tribolazioni amorose cantato da una caricatura. Giusy Ferreri che imita Giusy Ferreri, e forse pure male. Zona rossa sacrosanta per lei.
FABRIZIO MORO “Portami via”. Il testo si regge bene dal punto di vista metrico e ritmico, nonostante contenga parole, come “ipocondria”, non semplici da incastrare. La parte melodica è apprezzabile – insomma il brano non è affatto male – ma l'ultra grattato da frizione difettosa (si può cantare “portami via” anche senza gridare come se si fosse sotto la pioggia in un film di Muccino) e l’aria da Mannarino senza baffi lo rendono molto meno sopportabile.
ELODIE “Tutta colpa mia”. Di Marrone, Angiuli, Pollex e Cianciola. Tutta colpa loro, che hanno lasciato a Elodie – o piccola Emma che dir si voglia – un brano che avrebbe imbarazzato anche Nilla Pizzi. Apprezzabile il tentativo di catturare l’attenzione con la consecutio azzeccata in avvio (“se fosse tutta colpa mia non me lo perdonerei”), ma sbracare in quel modo nel ritornello (“amore amore amore amore andiamo via chiudo gli occhi non importa ma tu portami via, amore amore amore amore mio”) è un affronto al buon senso. Oltretutto il testo è al limite della vergogna: quale donna, ci perdonerete, pronuncerebbe mai la frase “sono molto brava sai a rovinare tutto, tu sei perfetto non sbagli mai”? Per non parlare del ponte che termina con “e poi passeremo la notte dicendo”. Elodie è intonata e la canzone la porta a casa, dove forse dovrebbe rimanere (non lei, la canzone, ci mancherebbe). E invece zona verde, ovazione, podio. Otto mani per concepire “Amore amore amore è una follia”: cominciamo a rivolgere occhiate languide alla bottiglia di whisky.
LODOVICA COMELLO “Il cielo non mi basta”. Anche qui otto mani (tra cui quelle di Di Martino) su testo e musica. Il brano presenta saliscendi interessanti, per quanto sintatticamente alcuni passaggi lascino a desiderare: “anche se vuoi darmi il cielo non mi basta”, “lascia pure che mi avvicini un po’, quanto non so”. Le altalene vocaliche però stendono le velleità della divetta Disney, francamente fuori luogo e sul filo della stecca. Tuttavia, andrà a gonfie vele in finale e spaccherà le radio.
FIORELLA MANNOIA “Che sia benedetta”. Tra Mannoia e le altre non c’è gara in questa vita né nell'altra. Carisma da vendere e interpretazione ineccepibile, nonostante smanacci che nemmeno Clementino e cerchi di abbozzare una versione femminile di Vecchioni. Impossibile, però, non rimanere delusi, perché il brano è falso e opportunista oltremodo. “Per quanto assurda e complessa ci sembri la vita è perfetta”: il testo è sanremobigcampione di banalità e a tratti insensato (“siamo eterno siamo passi siamo storie”), ritagliato e incollato da Amara sulle spalle della Mannoia per vincere il Festival. La missione difficilmente fallirà.
ALESSIO BERNABEI “Nel mezzo di un applauso”. Il secondo brano firmato da Roberto Casalino, che dio ce ne scampi, è piazzato sul ciuffo opinabile di Alessio Bernabei, ever green dei festival targati Conti. “Stanotte ho aperto uno spiraglio nel tuo intimo”, “se vuoi trovarmi cercami nell’imprevisto”, “non c’è vento che può spostare l’epicentro dei miei occhi su te”, “perché siamo nel bel mezzo di un applauso”. Ora, siamo seri. Avevamo tollerato (male) “Noi siamo infinito” del 2016, ma su spiragli dell’intimo, epicentro degli occhi, congiuntivi che neanche a parlarne e applausi che contengono persone abbiamo dovuto fare due grosse sorsate di whisky (e siamo stati pure troppo pazienti). Al limite dell’imbarazzo, oltre al testo inqualificabile, l’interpretazione a dir poco faticosa dell’ex Dear Jack, che sul cambio di ottava rischia l’embolia. Nel bel mezzo di un applauso metteremmo volentieri la sua faccia (e quella di Casalino), consigliandogli di cambiare mestiere.
AL BANO “Di rose e di spine”. Romanza classica (per non dire vetusta) che più classica non si può, interpretata con fatica evidente da Carrisi. Con tutto il rispetto per un 73enne, il tempo delle flessioni è passato, e forse per autoconservazione – o per evitare di preoccupare il pubblico – sarebbe stato meglio evitare. È comunque quasi preferibile negli acuti grattati alla Moro rispetto ai gorgheggi di qualche anno fa.
SAMUEL “Vedrai”. Vedrai Neffa cantare i Daft Punk. “Se siamo ancora qui vuol dire che un motivo c’è”: non c’è dubbio, ma l’ex Subsonica può fare (e ha fatto) di meglio. Dopo una sfilza di melodie polverose e ultra-datate il suo pezzo è una botta di adrenalina, ma questa storia del libeccio che ci soffia in faccia la sua sabbia non è poi così poetica, ça va sans dire.
RON “L’ottava meraviglia”. Per Ron vale lo stesso discorso fatto per la Mannoia: stile ed eleganza a pacchi. Il testo di Mattia Del Forno è dignitoso, non fosse per quel banalotto “l’ottava meraviglia del mondo siamo io e te” o “c’è una strada nel sempre dove con te voglio andare”, che proprio non suona. L’andamento del brano è piuttosto classico e si addice alla caratura del cantante, in difficoltà negli acuti. Tecnicamente starebbe tre o quattro spanne sopra gli altri, ma l'interpretazione un po' spenta lo scaraventa nel calderone di chi rischia l'eliminazione. Peccato.
CLEMENTINO “Ragazzi fuori”. Qualcuno gli dica che non è e non sarà mai il novello Pino Daniele. L’intro ammicca parecchio al cantautore scomparso due anni fa, ma “scriverò sui muri della mia città” aizza quasi alla delinquenza oltre a citare una vecchia hit di Jovanotti. Intollerabile quando si lascia andare al dialetto, non meno quando riesce a stonare nelle strofe in slow. Fondamentalmente si è presentato con lo stesso brano dell’anno scorso, ma più brutto. E infatti sprofonda in zona rossa.
ERMAL META “Vietato morire”. L’unico che si è scritto tutto da solo. Solo per questo sarebbe da premiare, almeno moralmente, perché si sa che alle dinamiche sanremesi frega poco. Il brano ha una forza narrativa convincente – è l’unico tra gli undici ad averla, peraltro – e tratta un tema delicato in modo viscerale ma al tempo stesso cauto, ricordando un po’ il Cristicchi di "Ti regalerò una rosa". Ermal va un po’ in difficoltà nelle parti acute e potrebbe gridare meno, ma il suo pezzo è il migliore della serata. Cristicchi nel 2007 vinse, se fosse un mondo giusto dovrebbe toccargli la stessa sorte, Comello e Mannoia permettendo.

Daniele Sidonio 08/02/2017

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