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“Colera”: quando la street art incontra il torchio. Duecento monotipi esposti nella Galleria Varsi

È un colore denso, ostinato, invasivo, che ti sporca le dita, ma che lascia tracce anche in profondità, nell’animo di chi lo usa e di chi lo osserva, quello che domina prepotentemente nei monotipi dell’esposizione artistica “Colera”. Chiusi all’interno della Galleria Varsi di Roma per due settimane Run, Servadio, Borondo e il trio Canemorto hanno fuso le loro competenze e il loro talento da street artist con l’antica tradizione delle stampa, creando delle opere uniche. Una lavorazione lunga, fatta di acquaragia, colore, segni, ma soprattutto tanta voglia di dare vita insieme ad un progetto intrapreso nel 2015 a Londra. Creare i monotipi non è semplice, il disegno prima viene realizzato sul plexiglas, l'immagine, concepita al rovescio, viene prodotta utilizzando pennelli, punte, rulli e strumenti originali, insoliti, di diversa natura. Solo una volta pronta viene pressata sul foglio attraverso un torchio, antico, come quelli che originariamente 

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venivano usati per la stampa. La particolarità dei monotipi sta nell’unicità dei pezzi che vengono creati. Dal greco monos "uno" e typos "impressione", il monotipo si configura come un medium ibrido, un’opera che racchiude dentro di sé la pittura e la stampa. Non c’è possibilità, infatti, per l’artista di fare due volte la stessa tavola, così anche nel caso di uno stesso soggetto, le stampe potranno essere simili, ma mai uguali. La matrice dei monotipi ha una natura evanescente come quella dei fantasmi ed è destinata a sparire.
Proprio come la malattia epidemica, che dilaniò l’Italia nell’Ottocento, i duecento monotipi, creati dai sei street artist ed esposti nella Galleria Varsi fino al 23 aprile, contagiano con la loro attraente oscurità gli occhi di chi osserva. 

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È impossibile non perdersi in quel nero profondo, a tratti limpido, tanto da specchiarcisi, a tratti denso, così tanto, da restarci incastrati, dimenticandoci per un istante chi siamo. Run, Servadio, Canemorto e Borondo danno voce ad un mondo tormentato, incastrato nella nebbia oscura della contemporaneità. Un mondo dove non c’è luce, dove gli uomini si avvicinano sempre più alle macchine, dove la vita, anche quando c’è, emana la sua fragile sofferenza. Le loro tavole sono attraversate dalla malinconia verso qualcosa che non c’è più e allo stesso tempo dalla rabbia verso ciò che invece è rimasto nell’esistenza dell’uomo. Borondo dà voce a questo malessere universale attraverso una casa in fiamme con un unico punto di luce, un portone dorato, l’unica via di fuga da una realtà che sta collassando su se stessa. Run spinge la sua libertà creativa sul corpo dell’essere umano, che è sempre meno uomo e sempre più macchina, tanto che perfino il cuore, da organo vitale passa in secondo piano e esce fuori dal corpo. Servadio sembra voler catturare o forse filtrare l’oscurità che pervade le nostre misere vite attraverso una rete, bianca, unica vana speranza, in una visione dominata da scheletri. Il trio Canemorto, è quello più cupo, le sue creazioni annegano nel colore, dando vita a dei mondi infernali più che terrestri, dove l’umanità stilizzata è irriconoscibile.
Forme, segni e un uso del colore completamente diverso, distinguono i monotipi degli artisti. Sei modi diversi di interpretare e raccontare la realtà. Ecco dunque che quando scelgono di creare un monotipo insieme, la cosiddetta “Combo”, la sporcizia e l’ossessione del colore si fanno ancora più insistenti. Lo spazio viene contaminato dalle plurime intenzioni e attenzioni dei singoli artisti e il risultato sono monotipi complessi, con diversi piani interpretativi, che lasciano esterrefatti per la loro libertà.
“Colera” è un’esposizione cupa, sporca che attrae non appena si varca la soglia della Galleria Varsi. Attraverso i duecento monotipi di Run, Borondo, Servadio e Canemorto sembra quasi di riuscire a toccare con mano le tenebre e l’oscurità che circondano il nostro mondo e di cui troppe volte, vivendoci, ci dimentichiamo. Il nulla, il buio che avvolge i terreni, le case e gli uomini è sempre più insistente, ma ci illudiamo costantemente che questo non esista. Colera come tutte le epidemie virali ci spinge a fare i conti con noi stessi e con quello che progressivamente stiamo diventando come individui, come società, come membri di una collettività chiamata Terra, sbattendoci in faccia con il suo denso colore la sua potente forza espressiva e la sua innegabile verità.


Eleonora D’Ippolito 08/04/2017

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