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La generazione Giovanni Drogo. Intervista a Massimo Roberto Beato su "Il Deserto dei Tartari"

C’e’ un piccolo locale, nel cuore di Garbatella, in cui la ricerca e la sperimentazione teatrale costituiscono il motore di una concreta attività di promozione culturale: è lo spazio 18b, teatro che ha aperto i battenti pochi anni fa in via Rosa Raimondi Garibaldi dopo un lungo processo di riqualificazione. Massimo Beato, attore, regista e dramaturg, lo gestisce da allora assieme a Jacopo Bezzi, proponendo un modo nuovo di fare e di vivere il teatro.
Lo spazio 18b, che ha una storia travagliata come tutte le piccole realtà del mondo culturale italiano, dal 19 marzo ospiterà l’adattamento teatrale de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, curato da Massimo per la regia di Elisa Rocca.

spazio18b

Anzitutto raccontami dello Spazio 18b e della Compagnia dei Masnadieri che opera qui stabilmente. Come nasce il progetto e come si svolge la vostra attività di pratica e di formazione teatrale?

La Compagnia dei Masnadieri l’abbiamo fondata io e Jacopo Bezzi nel 2007. Nasce tra le mura dell’Accademia Silvio d’Amico, dove frequentavamo il secondo anno di regia, perché sentivamo il bisogno di creare un nucleo di lavoro stabile per ragionare attorno a temi che ci stavano a cuore, come ad esempio il rapporto tra l’attore e la drammaturgia. Quello che ci mancava era uno spazio fisso in cui fare ricerca slegata dalle logiche di produzione e dalle tempistiche rigide che spesso ti vengono imposte. Nel 2016 abbiamo trovato questo piccolo spazio che aveva una storia molto particolare: prima era utilizzato per ospitare le celle frigorifere del mercato di Garbatella, negli anni 80, poi, è diventato prima circolo anziani e poi locale a luci rosse per lap dance e spogliarelli. Quando l’abbiamo preso noi il quartiere era terrorizzato, nessuno credeva che avremmo davvero aperto un teatro. Alla fine però la comunità ha risposto benissimo e abbiamo deciso di fare dei corsi di formazione per giovani attori. Anche per questo di recente è arrivato il riconoscimento del Ministero come “compagnia di ricerca nel campo dell’innovazione e della sperimentazione.”

Passando allo spettacolo, avete dato all’adattamento del romanzo di Buzzati un sottotitolo particolare, ovvero “Fortezza: momento unico per tre attori soli”. Come mai questa scelta?

Il sottotitolo nasce da una questione strutturale del testo che non è scritto in atti o scene, mi sono ispirato a Pirandello che ne I giganti della montagna divide il testo in momenti. L’ ho immaginato come un blocco, un unico momento, una visione dei tre personaggi che vivono l’esperimento della fortezza. Il romanzo copriva 25 anni di storia e bisognava risolverlo drammaturgicamente, per questo ho creato una dimensione onirica che contrae il tempo.
“Per tre attori soli”, invece, è una boutade: può significare sia che avevamo solo questi a disposizione per motivi economici (ride, ndr) ma anche che nella visione mia e di Elisa Rocca non esiste più un teatro di protagonisti e ruoli secondari ma un “teatro dell’attore”, d’ensamble, dove gli attori, da soli, portano avanti tutto lo spettacolo.

Questo progetto è il primo capitolo di una trilogia, “la trilogia degli sconfitti”, che si pone l’obiettivo di studiare e comprendere la generazione nata a cavallo degli anni ‘70 e ’80 del ‘900. Perche li vedi come “gli sconfitti”?

La vedo come una generazione che viene messa a confronto con un sistema che non riconosce più come suo, come appartenente a se stesso. Li chiamiamo gli sconfitti ma senza accezione negativa, vediamo questi personaggi come anti-soggetti, in riferimento a Propp e Greimas. Anche noi ci sentiamo così, all’interno del sistema teatrale che sta cambiando ma che ci vede ancora come dei diversi, degli anti-soggetti.

Goffredo Fofi, ne Il cinema del no, parla della generazione “trentennio” riferendosi ai nati tra gli anni ‘80 e 2000. La descrive come una generazione che, dopo la perdita dell’utopia degli anni ‘70, fu istruita malamente dalla cultura di massa sempre più scadente e rappresentata da una classe politica che tradì ogni promessa. Quella generazione ha prodotto dei Giovanni Drogo, ovvero quelli che tu chiami “anti-soggetti”?

Assolutamente si, anzi io anticiperei questa forbice di altri 5 anni. Io ed Elisa, che siamo nati alla fine degli anni ’70, siamo figli di un sistema che ci ha illuso. Ci ha insegnato a seguire certi percorsi predeterminati se si volevano raggiungere degli obiettivi, noi ci siamo fidati e li abbiamo intrapresi questi percorsi: dopo il liceo abbiamo fatto l’università ma la laurea non bastava, ci siamo iscritti all’ accademia d’arte drammatica ma eravamo troppo giovani e serviva più esperienza, abbiamo fatto esperienza e ci siamo svegliati a 35 anni accorgendoci che non eravamo noi ad essere sempre in ritardo ma che esisteva una sorta di “ritardo programmato” apposta per noi. Non c’era posto per me e per la mia generazione, era come essere in fila ad una mensa dove servivano quello prima e quello dopo di me, eppure in fila c’ero anche io. C’è una frase di Drogo che mi fa venire i brividi: ”Dietro di me sentivo una moltitudine che avanzava e gente che mi sorpassava”. Quindi sì, Drogo incarna perfettamente questo disagio generazionale, vittima di un sistema che lo ha imbrigliato con gli stessi sogni e speranze con cui lo aveva nutrito.

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Riconosci nella vicenda di Drogo quella frustrazione, quella desiderio mai appagato di ottenere un risultato concreto nella vita che molti giovani oggi si trovano a vivere durante il difficoltoso ingresso nel mondo del lavoro?

Certo, sono pienamente d’accordo. Il deserto dei Tartari è un testo ancora oggi attualissimo. Anche Buzzati scriveva in un momento di cambiamento storico, si avverte nella sua opera la consapevolezza del disfacimento della borghesia e del conflitto generazionale: Drogo inizia come tenente e finisce come capitano ma non fa nulla di concreto per tutta una vita, quando i Tartari finalmente arrivano si trova di fronte alla nuova generazione che vuole rivendicare il proprio spazio e mandare in pensione quella precedente. Il cambiamento storico che stiamo vivendo noi, invece, è più difficile rispetto a quello di Buzzati per via dell’assenza di grandi maestri a cui ispirarci. Spesso delle figure di riferimento ci sono anche state, pochi però sono riusciti a non tradire i propri ideali.

Qual’ è stato il processo di adattamento teatrale di un testo come Il deserto dei Tartari, così pieno di luoghi e situazioni fuori dal tempo e dallo spazio?

Io non sono nuovo agli adattamenti, ne ho fatti sicuramente di più rispetto ai testi originali. Quando sei di fronte ad un testo come questo, in cui si modificano luoghi, tempi e personaggi, la tua sfida più grande come drammaturgo è quella di creare una struttura che sia una valida alternativa a quel tipo di scorrere del tempo e dello spazio. Io concepisco lo spazio come unico, lo spazio scenico, è il lavoro dell’attore a modificarlo e a trasformarlo continuamente. Abbiamo deciso di circoscrivere la vicenda allo spazio della locanda, partendo quindi dalla fine, utilizzando poi dei flashback per rievocare il passato, il percorso di questo personaggio che si interroga sulla sua stessa vita. Non c’è una voce narrante come avviene in Buzzati, tutto e’ dalla prospettiva di Drogo e del capitano Ortiz, due personaggi che si sovrappongono anche pericolosamente nel testo. L’adattamento, poi, nasce su misura per lo Spazio 18B, ma ciò non ci preclude la possibilità di portarlo in tournée perché ci piace anche adattare i testi a seconda dei luoghi, solitamente spazi teatrali non convenzionali, che li ospitano.

Quindi, essendo tu il drammaturgo della compagnia, progetti la stagione anche in base agli spazi in cui sai che dovrete lavorare?

Sì, è qualcosa di cui tengo conto ovviamente. Quando scrivo, avendo la fortuna di conoscere lo spazio scenico in cui il testo verrà rappresentato ed il cast tecnico-artistico, penso all’adattamento in funzione della messa in scena. Mi piace lavorare con una drammaturgia scenica, con l’attore che scrive lo spazio anche in base a come si muove al suo interno, a come lo occupa. E’ un lavoro che solitamente nasce dal confronto con il regista, non coinvolgiamo gli attori nella fase di scrittura.

Un’ultima curiosità. Quest’opera e’ stata già adattata per il cinema nel famoso film di Valerio Zurlini del 1976, avete tenuto conto di quell’adattamento e, più in generale, cosa ne pensi del film?

Il film l’ho visto ma non mi sono ispirato a quell’adattamento, per quanto l’impianto possa essere onirico ed evocativo ci troviamo comunque di fronte ad una resa naturalistica: personaggi veri, una fortezza vera, un deserto vero. A mio avviso nel film si percepisce più la noia dell’attesa ma nel libro non si tratta di noia, non si fa neanche in tempo ad annoiarsi perche Drogo non si rende conto dello scorrere del tempo che alle volte è rapidissimo. Noi abbiamo preferito giocare più su un aspetto grottesco, sull’astrazione, partendo dall’ispirazione che arrivava dal Buzzati pittore e fumettista, non direttamente dal testo.

Il deserto dei Tartari andrà in scena allo Spazio 18B (via Rosa Raimondi Garibaldi 18 B) dal 19 al 31 marzo 2019, dal martedì al sabato alle 21.00 mente il martedì e la domenica alle 18.00.
Ulteriori informazioni sul sito web www.spazio18b.com

Marco Giovannetti – 17/03/2019

 

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