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Neue Stücke: nuovi giochi nel Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch

La fine di settembre ha segnato l'inizio di una nuova stagione per il Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch: l'Opernhause, per la prima volta dopo la morte dell’artista tedesca, ha ospitato nuove coreografie e nuove atmosfere. Non è stato semplice arrivare a questo punto, ci sono stati cambi di direzione, lunghe riunioni, innumerevoli discussioni e ripensamenti.
Inutile anche solo tentare di descrivere il vuoto che unˈartista del genere può lasciare, la responsabilità e il senso di rispetto nei confronti della sua eredità potrebbe paralizzare chiunque.
È così è stato. Per sei anni lˈensemble ha portato in scena unicamente pezzi di repertorio avvertendo, tuttavia, lˈinsistente richiamo alla creatività. Pina stessa soleva dire ai suoi danzatori “Continuate a cercare”.
Così, per lˈapertura della stagione 2015/2016 la compagnia, avvalendosi della consulenza esterna di Stefan Hilterhaus, Myriam De Clopper e Alistair Spalding, ha deciso di affidare tre creazioni a due coreografi naturalizzati inglesi, Tim Etchells e Theo Clinkard, e alla coppia francese Cecilia Bengolea e François Chaignaud. Dal 18 al 24 settembre si è quindi portato in scena una serata divisa in tre parti dal titolo “Neue Stücke”.
In uno stato di frenetica curiosità anche la Schwebebahn, la famosa teleferica aerea della città, sembrava corresse più veloce nel cielo di Wuppertal e, sulle poltrone - tutte occupate- del Teatro dell'Opera, si è assistito per una settimana a questi "Nuovi Giochi".
Ad aprire le danze “somewhat still when seen from above” di Theo Clinkard.
Sul palco degli attrezzisti di scena sembrano costruire lo spazio: sistemano, osservano poi salgono con disinvoltura su alte scale e da qui fanno partire da apposite macchine una scarica di fumo. Una nuvola, un sogno? L'atmosfera artificialmente eterea è stata creata: l'effetto è immediatamente esilarante.
I nove ballerini iniziano ad abitare lo spazio, lo occupano attraverso piccoli movimenti, c'è chi è solo e chi in coppia, altri si appoggiano l'un l'altro cercando l'equilibrio. Sono attenti, scrupolosi a volte quasi immobili, si sistemano, giocano e si adagiano con cura nei loro angoli. Allˈimprovviso la musica di un allegro boogie-woogie li fa danzare tutti a tempo. Sono un gruppo. Sono il gruppo.
Al calare del fumo sembra si discenda anche negli abissi: cˈè chi fugge, chi gira su se stesso, chi resta bloccato. Le sensazioni di smarrimento e al contempo di forza sono comuni, il gruppo sopravvive. Un violino dalla galleria irradia la sua musica mentre sul palco si smonta tutto, vanno via le scale, il fumo svanisce e cala il sipario.
Ironico, poetico, delicato.
The Lighters Dancehall Polyphony è, invece, la seconda coreografia ad opera di Cecilia Bengolea e François Chaignaud. L'identità che caratterizza la ricerca del duo francese è immediatamente percepibile, lˈatmosfera è completamente diversa, si viene catapultati nella scena garage del Regno Unito primi anni 2000: ritmi di batteria sincopati, bit rapido, elementi di club culture quali twerking e dubstep con influenze di dancehall giamaicana.
E fra tremolìì delle natiche e movimenti sessualmente espliciti, si assiste a un corteo funebre, a un coro melodioso che intona musiche di Orlando Gibbons - la cura di Roman Babik come vocal coach negli arrangiamenti vocali è notevole- all'ironica eleganza dei "vecchi" ballerini fasciati in tutine rosa (Andrey Berezin) e alla potenza dei corpi dei nuovi vestiti con reggicalze in lattex, tutù nero e gorgera al collo (Paul White). Scott Jennings all'improvviso apre un varco sul portone metallico che fino a quel momento aveva dimezzato il palco, rappando una poesia di Kate Tempest in cui afferma: "Siamo un prodotto dei nostri tempi".
Un lavoro folle, energico e potente.
Lˈultimo pezzo “In Terms Of Time” è firmato Tim Etchells ed è quello che già in molti dicono avvicinarsi maggiormente al linguaggio della fondatrice del Tanztheater Wuppertal senza però farne una mera copia. Un lavoro simbolico e forse più estetico.
I neon sospesi dal soffitto conferiscono un bagliore particolare alla pila di bicchieri in plastica trasparente retti dai ballerini in un equilibrio precario. Inesorabilmente tutto crolla ma sembra ci sia una cascata di luce, si forma come un pavimento fatto di frammenti di cristallo su cui si svolgono azioni di vario tipo.
Cˈè chi si muove fra i cocci cercando di non modificare nulla e al tempo stesso di non farsi male, chi mostra del finto coraggio o chi misura le distanze tra sé e il proprio oggetto dei desideri.
Tra gare di palloncini e costruzioni di una montagna di sacchi di plastica blu, che insieme prendono formano e sembrano respirare, i danzatori mostrano le loro espressioni facciali, dialogano con il pubblico chiedendo: “Are you connected?” e costruiscono un siparietto in cui il ringraziarsi diventa quasi una sfida, una violenza.
Chissà chi ringraziano così?
A suon di pluriball, il materiale che meglio di ogni altro protegge le cose, giunge un finale divertente e tenero insieme.
La paura del cambiamento non appartiene alla gente intelligente e sensibile. Tre pezzi diversi. Tre pezzi ironici e brillanti, decisi a segnare la propria identità rispettando ciò che è stato e che è.
Il pubblico applaude, lˈesperimento è riuscito e la curiosità sul futuro resta, così come la certezza di poter vedere ancora i preziosi pezzi del repertorio in giro per il mondo.
Rinunciarvi sarebbe un peccato mortale.

NEUE STÜCKE 2015
di Theo Clinkard, Cecilia Bengolea und François Chaignaud, Tim Etchells
18 – 24 settembre 2015
Opernhaus - Kurt-Drees-Straße 4, Wuppertal, Germania

somewhat still when seen from above
Coreografie Theo Clinkard
Collaborazione alle coreografie Leah Marojević
Scene Theo Clinkard
Costumi Rike Zöllner und Theo Clinkard
Musiche originali e suono James Keane
Violino Christopher Huber
movimento creato e interpretato da Pablo Aran Gimeno, Damiano Ottavio Bigi, Aleš Čuček, Çağdaş Ermis, Barbara Kaufmann, Julie Anne Stanzak, Michael Strecker, Aida Vainieri, Anna Wehsarg

The Lighters Dancehall Polyphony
Concept e coreografia Cecilia Bengolea e François Chaignaud
Costumi Cecilia Bengolea, François Chaignaud, Rike Zöllner
con Andrey Berezin, Ditta Miranda Jasjfi, Scott Jennings, Nayoung Kim, Blanca Noguerol Ramírez, Breanna O’Mara, Azusa Seyama, Julian Stierle, Tsai-Wei Tien, Paul White, Tsai-Chin Yu

In Terms Of Time
Regia Tim Etchells
Assistente alla regia Jorge Puerta Armenta
Costumi Rike Zöllner
Scene Tim Etchells
in collaborazione con e interpretato da Regina Advento, Emma Barrowman, Michael Carter, Jonathan Fredrickson, Eddie Martinez, Fernando Suels Mendoza, Nazareth Panadero, Franko Schmidt, Julie Shanahan, Ophelia Young

Miriam Larocca 29/09/2015

Alla 29ª Edizione di MilanOltre al Teatro Elfo Puccini è di scena “Au temps où les Arabes dansaient…”

Il 25 settembre in prima nazionale per “Francia in scena”, il coreografo franco/tunisino Radhouane El Meddeb e la sua Compagnie de Soi, nella cornice del Teatro Elfo Puccini, nell’ambito della 29ª Edizione del Festival MilanOltre, hanno presentato “Au Temps Où Les Arabes Dansaient…”, un tributo all’Arabia degli anni d’oro, quella del cinema degli anni 40 ai 70 in uno spettacolo - danza coraggioso, per soli quattro interpreti maschili. Ciascuno, con stili diversi e personalissimi, racconta la danza dai primordi ai giorni nostri, in un percorso in crescendo.
Originariamente pensato per un progetto di cabaret, col susseguirsi di varie vicende politiche, il concept di questa coreografia si è mosso su passi più radicali, proprio perché a Radhouane El Meddeb risultava difficile mettere in scena un pezzo da cabaret per celebrare un’Arcadia scomparsa. Gli arabi, difatti, hanno vissuto a lungo i ritmi dei film degli anni '40, '50, '60 e '70, fatti di magia ed atmosfere fittizie.
Gli attori hanno cantato, ballato, sui grandi schermi delle sale cinematografiche e nei programmi televisivi per le famiglie. Senza giudicare e senza alcun veto, hanno guardato la realtà brillante, dei protagonisti della commedia, seguendo i loro drammi e le loro emozioni, cantandone le canzoni. Ed ecco che la danza del ventre prende il sopravento nel momento cruciale del film o spettacolo, come se ne fosse il perno. Il ventre e l’ombelico rappresentavano il punto dove si incrociavano sguardi sedotti. Ma quelli, sembra volerci dire, il coreografo, sono anni lontani. La realtà oggi è un’altra, in quell’ombelico, strano oggetto del desiderio, sembra preannunciarsi il vortice del caos, dello scompiglio socio-politico, la violenza è entrata prepotentemente in quel mondo finto, a sancire la fine di un’epoca di illusioni. E “Au temps où les Arabes dansaient…” vuole essere la proiezione lontana ed un pizzico nostalgica di quei canti e balli, espressa nell’esplosione di corpo e anima.
Il ritmo è incalzante e tiene desta l’attenzione del pubblico. Come corpi ebbri, le 4 presenze maschili ondeggiano, quasi con la sensualità di un corpo femminile e peccaminoso. Ed è proprio con questa inversione di ruoli che Radhouane El Meddeb risulta provocatorio, audace ed istintivo. D’altra parte Radhouane El Meddeb, ballerino e coreografo, ha mosso i primi passi nella danza orientale, raccogliendo intorno a sé un gruppo di uomini. E in “Au temps où les arabes dansaient…”, i quattro protagonisti danzatori, appaiono felicemente assillati dal cinema arabo degli anni '50 e '70. Uno spettacolo originale, conturbante e provocatorio, dove lo spettatore assiste alla rottura degli schemi della danza tradizionale.

Au temps où les Arabes dansaient…
LA COMPAGNIE DE SOI/RADHOUANE EL MEDDEB

concept e coreografia Radhouane El Meddeb
interpreti Youness Aboulakoul, Philippe Lebhar, Rémi Leblanc-Messager, Arthur Perole
scene Annie Tolleter
luci Xavier Lazarini
video Cécile Perraut in collaborazione con Feriel Ben Mahmoud
; suoni Stéphane Gomberti

Adele Labbate 28/09/2015

La bollannntro’w: il male in gioco

Collocare la propria pratica artistica nella storia dello spazio in cui la si esercita non è usuale, specie se questa scelta risulta sganciata da ricorrenze particolari o anniversari.
La Galleria Marie-Laure Fleisch ospita dal 21 Settembre al 28 Novembre 2015 “La Bollannntro’w”, mostra dell’artista spagnolo Bernardί Roig.
Ciò che si espone prende l’avvio da un omaggio, un processo mnestico, un esercizio celebrativo in onore della via Pallacorda (in cui si situa la galleria stessa), famosa per l’episodio che vide come protagonista Caravaggio nell’omicidio di Ranuccio Tomassoni proprio durante una partita al gioco della pallacorda – antica versione del tennis - e cui seguì la messa al bando definitiva da Roma e una condanna a morte in contumacia del pittore.
L’atmosfera racchiusa nel piccolo spazio della galleria viene riordinata da Roig all’insegna di una cross-storicità in cui i materiali scultorei, le luci e l’apparecchio-video rimbalzino questo strano e accattivante connubio tra violenza e gioco. Infatti, spicca di profilo all’ingresso della mostra una piccola scultura bianca, quasi caricaturale, di Caravaggio che si atteggia a giudice con una sorta di copricapo papale nero, con i pantaloni sbottonati e un volto reso indiscernibile da una risata disordinata e scomposta. Quasi frontale alla scultura appare in dimensioni notevolmente ridotte rispetto a tutto il resto la testa di Ranuccio Tomassoni, a delineare un rigurgito irrisolto per Caravaggio. Ma ben saldo al muro.
Il bianco della scultura – impronta cromatica generale dell’artista – è intensificato da un ammasso di luci al neon accatastate nella parte inferiore della postazione dell’arbitro di tennis, da cui vorrebbe emergere la supremazia del giudizio di Caravaggio.
Il bianco può rendere tutto uniforme, accecare, ridurre la forma a dettaglio, compromettere la capacità di sentirsi partecipi. “La Bolannntro’w” riduce queste percezioni con inserzioni di suoni provenienti da un monitor posto per terra da cui scorrono sequenze tratte dalla finale di Wimbledon del 1981 in cui il campione di tennis John McEnroe pronunciò la famosa frase contro il suo avversario Bjiorn Borg: “La palla era dentro!”. “La Bolannntro’w” è proprio la trascrizione fonetica dallo spagnolo di questa frase e connota tutta la volontà di Roig di concentrarsi sull’ira dell’antagonismo, sulla letterale finzione del gioco, sulle palle da tennis lasciate sul pavimento nei dintorni del monitor quasi a suggerire al pubblico un continuum fra quelle immagini, di quell’anno, e noi. Giocatori potenziali, avversari dell’arte forse.
Su due pareti parallele della galleria sono allineati una serie di disegni ispirati all’Aristocrazia Nera di Jean-Auguste-Dominique Ingres in cui Bernardί Roig usa la forma del ritratto per ampliare la sua visione del potere assieme ad una critica del simbolo d’onnipotenza per eccellenza: la testa. I volti nei suoi ritratti non equivalgono al resto del corpo raffigurato, raccontano di personaggi nobili e borghesi del ‘700 nutrendosi di una riflessione sulla società di massa: la forza e il crimine del pensiero appartengono a tutti. E a tutte.
Non si gioca mai troppo sul serio.

Rosa Traversa 26/09/2015

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