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Lacrime, voce, stati della materia: “Eco” di Elisa Rossi

Dic 30

Respinta, si nasconde Eco nei boschi, coprendosi di foglie
per la vergogna il volto, e da allora vive in antri sperduti (Ovidio, Metamorfosi Libro III)

Rimbombo, voce, risuono, strumento sonoro. Sono le sfaccettature radicali della parola “Eco”, che trovano solida manifestazione nel nuovo album di Elisa Rossi, uscito per Indie Sounds Better lo scorso 25 novembre. Dopo due prove discografiche ben più estese, la cantautrice di Rimini si cimenta in sette tracce dense e articolate, strutturate nella raffinata commistione di voce, testo e un'intensa mise elettronica.
Già nei primi secondi si sprigiona la funzione primaria del progetto. Eco come voce, fresca, che ricorda quelle accoglienti e dolci di qualche disco impolverato e un po' seghettato. “Niente è per sempre” mette in musica la caducità dell’amore e del circostante, che rende importante vivere l’istante e non sprecare nemmeno un grazie. Ciò che conta è abbandonarsi e lasciarsi trasportare, come in una di quelle giostre che girano su se stesse, a cui il ritmo ben scandito rimanda per una vertiginosa sensazione di circolarità.
Le lacrime sono il trait d'union tra la prima traccia e "Da qui": si passa da “in mille lacrime tutto l'amore che non possiamo più contenere, potessi non trattenerle più” a “non mi commuovo più di fronte ai tuoi occhi spenti”. Si passa, attraverso una scarnificazione sonora, da un brano aperto a uno verticale e più spigoloso, che tratta la prospettiva e il suo modo di stravolgere la percezione. Il testo, peraltro, non nasconde una forte verve realistica – presente anche in alcune tracce successive – che “rovina” il gioco sentimentale del desiderio-attesa mostrando il loro inganno.


Il terzo brano, potentissimo, entra in circolo per non uscirne. Il panorama iniziale disegna campi elisi prima di un bosco con qualche ciliegio in fiore. È qui, in un crescendo roboante, che Eco, compagna del dio Pan, si fa Ophelia, pronta a combattere con forza leonina - come la voce - contro "I Giganti", ctoni nati dalla terra e dai suoi elementi (fuoco, sole, cielo) e simboli della forza monumentale della città che l'ha adottata. È una mescita di mitologie estremamente suggestiva, che trova il suo tappeto sonoro in un ritornello vorticoso.
La liquidità e le lacrime, tema portante di tutto il tracciato testuale, ritornano in forma di “Goccia”. Qui il piano influenza con grazia l'andamento melodico e armonico, e diventa dolce contrappunto a un testo sull'essenza scivolosa del tempo, del desiderio (e se vogliamo dell'ambizione), coniugato al futuro. Il personaggio è una sorta di Icaro, che non ha ali ma lacrime, che non deve stare lontano dal sole ma dalle nuvole e dalla luce nascosta. Il brano si riempie con l'avanzare dei secondi, e feconda un fiato nella parte finale, in cui dallo stato liquido si passa a quello aeriforme.
I saliscendi vocali di “Inchiostro” si accompagnano avvolgenti una compagine ben più distorta rispetto alla traccia precedente. Si torna a un realismo quasi sfacciato (vagheggiato nella prima traccia e inciso meglio nella seconda) che apre gli occhi e spiega con franchezza come sia “inutile pensare che ogni cosa sia preziosa, che sia un giorno da ricordare senza nulla da buttare”. Torna il biasimo dell'attesa, che “è il momento della dispersione, di speranze e convinzioni”.
Dal liquido si passa allo stato solido in “Metallo”, in cui il ritmo serrato e battente rende perfettamente il senso del peso con cui un pezzo di metallo, anche grande come un cuore, possa ammorbare uno stomaco innamorato. Il liquido al sole brilla, il metallo è freddo e spento, simbolo di un ardore ormai sopito e infatti coniugato all'imperfetto (“come brillavi tu”). In questa traccia le doti vocali di Elisa Rossi si esaltano in un ritornello particolarmente ipnotico, che sembra salire più in alto di tutti sulla penultima sillaba di “brillavi” e invece si arresta al tono vocalico chiuso di “tu”.
Il bosco è fitto di “foglie, fango e terra”, e mescolarsi per cercare l'altro – o anche il proprio corpo – è più complicato. È comunque una questione di prospettiva, che può anche nascondere il desiderio. La title track è l'anelito finale, più morbido: torna il piano a ornare e scandire i passi di una ninfa lacrimosa figlia dell'aria, che ormai non ha altro da fare se non gettare al vento la sua voce. La componente mitologica, fin qui solo accennata dagli spunti testuali, si manifesta meravigliosamente.
Complice anche un apparato fotografico e video di stampo quasi pastorale, le suggestioni variopinte che emergono dall'ascolto si rifanno non tanto a un paradigma letterario, quanto più a tasselli figurativi. Ecco perché la ninfa Eco, che perse il corpo per diventare voce, ricorda più l'opera di Waterhouse che non qualche passo delle Metamorfosi, comunque pregnante per lo statuto del mito messo in musica nell'ultimo brano. Ecco perché l'immagine di un'Ophelia immersa nel verde rimanda all'artista preraffaelita con più convinzione rispetto a una poesia di Rimbaud.
Elisa Rossi costruisce una linea narrativa che dalla voce torna alla voce, passando per stati fisici e chimici diversi, ben rappresentati da sonorità elettroniche ed effettate più o meno spigolose, ma assolutamente coraggiose. Il coraggio andrà premiato con l'ascolto dal vivo a partire dal 13 gennaio. Nel frattempo, potete assuefarvi a questa versione live di “I Giganti”.

Daniele Sidonio 30/12/2016

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