“To the wonder”, l’amore e l’arte della divinazione di Terrene Malick
Accolto da un mare di fischi misti a calorosi applausi a Venezia 69, dove è tra i titoli in Concorso, l’ultimo film del maestro Terrence Malick, “To the wonder”, si è finalmente svelato al pubblico confermando sia la fama misterica del suo autore (da sempre irrintracciabile) che le indiscrezioni assordanti su un film fuori da ogni canone, gusto e ricezione.
Neil (Ben Affleck) e Marina (Olga Kurylenko), dopo essersi conosciuti e innamorati in Francia, dove lei vive, decidono di trasferirsi in America, paese di lui; l’idillio sentimentale dei primi tempi, però, ben presto scompare per lasciare spazio alla perdita, al dolore, all’incertezza. L’uomo ritroverà per poco un amore di gioventù (Rachel McAdams), mentre Marina cercherà conforto nelle parole di un prete (Javier Bardem) in piena crisi spirituale.
Dopo la primordiale cosmogonia di “The tree of life” (Palma d’Oro a Cannes 2011, anch’esso pietra dello scandalo tra capolavoro e sberleffo), il cineasta texano continua sulla strada della ricerca intima e spirituale, ammiccando già dal titolo a quella “meraviglia” impenetrabile e inenarrabile verso la quale l’uomo dovrebbe sempre tendere.
Se nel film precedente era la “grazia” ad essere il motore centrale delle riflessioni malickiane, questa volta è l’amore, sentimento principe di ogni rapporto umano, a rappresentare il fulcro vivo di “To the wonder”; ogni più nascosta sfumatura affettiva trova risonanza in un racconto ideale che procede per ellissi temporali, per frammenti, per non detti, attraverso personaggi limite tra la sfera terrena e quella dello spirito.
Chi cerca una narrazione tradizionale si astenga: Malick porta alle estreme conseguenze la deriva ascetica dell’ultimo periodo e non fa nulla per mettere a suo agio lo spettatore, anzi lo disorienta negandogli dialoghi e distruggendo la progressione degli eventi, bombardandolo con immagini di bellezza struggente accompagnate da frasi di estrema e, francamente, irritante cripticità.
Un cinema che sprona a confrontarsi con sé stessi e con i propri limiti emotivi, un ragionamento vertiginoso sull’inesprimibile, una lezione straordinaria di mistica cinematografica che ad un primo impatto può sembrare solo un delirante quanto sterile farfugliamento filosofico in una confezione da spot pubblicitario, che può indignare e lasciare indifferenti. O regalare l’opportunità di un’esperienza visiva ed emotiva ai limiti del concepibile.
Occorre donarsi pienamente per far si che il film si disveli anch’esso nella sua pienezza. Non tutti ci riescono, legittimamente. Ma Malick è così, prendere o lasciare.
(Giuseppe D’Errico)
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