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"Che fine ha fatto Baby Jane?": il terrore di essere dimenticati

“Che fine ha fatto Baby Jane?” è in primo luogo un romanzo scritto da Henry Farrell nel 1960, quindi un film diretto da Robert Aldrich nel 1962 e infine lo spettacolo di Massimiliano Bolcioni presentato a Roma al Teatro SpazioUno in occasione della rassegna teatrale “Linea d'ombra”.

Sul palcoscenico viene ricostruito l'interno di un appartamento, arredato con gusto piuttosto antiquato, abitazione dei due fratelli Hudson (e con questa modifica di carattere sessuale si registra lo scarto principale operato dal regista rispetto alla fonte di riferimento, in realtà di scarsa incidenza sul significato del testo).

Il più giovane dei due, Blake, un tempo famoso attore di Hollywood, è costretto su una sedia a rotelle in seguito ad un misterioso incidente, mentre John, ex bambino prodigio del vaudeville, si prende cura di lui, nonostante gli squilibri psichici cui è soggetto. John, infatti, cova un rancore feroce verso il fratello, reo di avergli sottratto il ruolo di celebrità della famiglia e di aver rotto gli equilibri domestici, in gioventù completamente a suo favore. Non solo, segretamente usa ancora vestirsi da bambina e cantare le vecchie canzoni con cui incantava le folle, incapace di accettare la fine della propria fama.

Ciò che narra lo spettacolo è la discesa nella pazzia di John e la tragica fine dei due fratelli, costretti ad una convivenza forzata che li porterà ad una sanguinosa resa dei conti, alimentata da gelosie, traumi infantili e frustrazioni esistenziali.

L'atmosfera prevalente sulla scena, pertanto, è estremamente tesa e cupa, come testimoniano bene le musiche di Alexander Cimini, dei motivi minimali di piano o di violino ripetuti ossessivamente, squarciati da alcuni terrificanti attimi di silenzio. Già nell'uso delle musiche si registra quello che è il limite principale della messa in scena teatrale di “Che fine ha fatto Baby Jane?”: si è scelto il registro della forzatura, della stilizzazione, dell'esasperazione del gesto e del verbo.

Questa impostazione funziona egregiamente durante le scene in cui la psicosi di John la fa da padrona (esemplare l'inquietante scena dell'assalto al fratello), anche grazie ad un'ottima illuminazione della scena; tuttavia per tutto il resto dell'opera (e si parla di circa due terzi della pièce) ciò che dovrebbe essere descrizione di quotidiana solitudine diventa un melodramma insopportabile, appesantito e strozzato da dizioni caricate e movenze rigide.

Nella gestione degli spazi, infine, si registra lo scarto tra cinema e teatro, i due media che hanno trasposto il romanzo di partenza: se il primo è in grado di frammentare lo spazio e usare questa caratteristica per creare suspance e tensione, conservando l'impressione di realismo, il teatro deve ricorrere ad artifici sensazionali quali la musica (di buona fattura, in questo caso, ma decisamente troppo invasiva) o una recitazione straniata, che non consente allo spettatore di entrare nel racconto, come accadrebbe invece guardando delle immagini sul grande schermo.

 

(Alessio Cappuccio)


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