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“Terra matta”, al Teatro India la Guerra di Vincenzo

La leva militare della classe '99: Vincenzo Rabito (1899-1971), zappatore semi-analfabeta di Chiaramonte, incontra la storia, la fa - come altri nomi che resteranno anonimi - infine la racconta: perché “se a questa vita non c'incontro aventure, non ave niente darracontari”. A un secolo di distanza, un altro Vincenzo (Pirrotta) porta in scena l'adattamento della sua storia: un uomo che ha attraversato i grandi avvenimenti del Novecento e, in tarda età, con solo la licenza elementare, scrisse in gran segreto un romanzo autobiografico (1000 pagine senza punteggiatura!) venuto alla luce grazie alla pubblicazione di Einaudi.

Pirrotta parte dal testo originale, “Terra matta”, e ne fa un personalissimo adattamento: recupera passi mancanti nell'edizione Einaudi e attinge a piene mani al proprio background. Ancora una volta l'amato siciliano (qui in una versione semi-dialettale, comprensibile a tutti ma con intatte alcune sue meravigliose peculiarità) permette di cimentarsi con alcuni dei luoghi che ne hanno costellato la carriera: il lavoro sulle parole, la fisicità debordante e il 'cunto', fil rouge della storia di Rabito. Alternandosi con gli altri personaggi, Pirrotta rievoca la figura mitica del cantastorie/banditore che portava la contemporaneità e racconti fantastici nel piccolo mondo antico delle piazze dei paesini.

Sullo sfondo, un'orchestrina a punteggiare e scandire il tempo di episodi, racconti e conquiste del self-made man; una passerella a U raddoppia i livelli e su essa i comprimari (che ricordano i pupi, ma anche marionette nelle mani della Storia) mimano in chiave caricaturale le persone che Vincenzo ha conosciuto. Il resto è tutto per Pirrotta, nella doppia veste di protagonista e narratore. Su una sedia racconta con toni da farsa le sue tragedie: il fronte sul Piave, il Fascismo, la guerra in Africa, il lavoro nelle miniere in Germania, la morte della madre.

“Terra matta” è racconto che prende la tangente verso l'immaginifico, ma anche litania ripetuta di gesti e parole che da sole diventano canto; lavoro certosino sulla lingua e sul commovente sforzo che Rabito fece per contenere nella forma scritta il magma di ricordi. Peccato per la recitazione in siciliano degli altri attori, confrontatisi con un dialetto a loro ostico. “Terra matta” è la storia vista da un comprimario e riflette su un paese dove i soldati vincono la guerra ma pure “questa mincia”. È la vitalistica celebrazione (vedi il ballo finale) del posto fisso dopo una “desprezata e molto tormentata vita”. E ammesso che si capisca poco di ciò che vi dico, fa nulla: tirammo la vita!


(Raffaele G. Flore)

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