Una chiaccherata con Francesca Melandri, autrice di "Eva dorme"
Ci sono storie che ignoriamo, luoghi che ci illudiamo di conoscere. È il caso dell’Alto Adige punta più alta del territorio italiano, ultima zolla di terra unita allo stivale. In questo che è l’anno delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, un libro ci rivela la storia sconosciuta di un territorio oggi ricco e opulento, ma che un tempo era misero e strattonato da contrari venti politici, da tensioni sociali. Siamo nell’Alto Adige – Sudtirol che esce dalla Prima e si accinge ad entrare nella Seconda guerra mondiale. Siamo in un territorio costretto ad una romanità forzata dal fascismo, tra gente che sente di aver perso la propria Heimat, la propria casa. Ma siamo anche nel presente a noi contemporaneo al cospetto di una difficile e struggente storia d’amore. Da qui una giovane donna muove i primi passi verso una riconciliazione con se stessa e con il proprio passato. Con la sua storia di bambina orfana di padre in una terra orfana di patria.
Abbiamo chiesto di rivelarci qualcosa in più di questo splendido romanzo all’autrice, Francesca Melandri, giunta alla sua prima prova letteraria forte di una esperienza ultra ventennale come sceneggiatrice cinematografica e televisiva.
Eva dorme è il suo primo romanzo. Possiamo definirlo, come spesso accade con le opere prime degli scrittori, un romanzo di formazione?
Francesca Melandri: Beh dipende cosa si intende per romanzo di formazione, io ho sempre inteso con questa espressione una storia di adolescenti, di giovani, e quindi no, direi di no, nel senso che non è solo questo. È anche vero, infondo, che la protagonista compie un viaggio sia fisicamente che interiormente, e allora in questo senso sì. Conosciamo Eva nel suo presente, una donna adulta di 40 anni che, però, lungo tutta la narrazione vivrà una crescita, un’evoluzione.
Quando è nata l’idea di scrivere questa storia e quanto tempo ci ha impiegato a scrivere il romanzo?
F.M: Era una storia che avevo in testa da parecchio tempo, però poi sono passati anni prima che mi mettessi effettivamente a scriverla. Quando poi ho finalmente iniziato , nonostante il romanzo sia molto corposo, non mi ci è voluto molto tempo per portarlo a termine. Tra l’altro non pensavo che avrei scritto un romanzo storico, ho iniziato a scrivere un romanzo con dei personaggi, con i loro sentimenti, le loro relazioni, ma molto presto, dopo pochissime pagine, mi sono resa conto che il contesto storico in cui si muovevano era importantissimo ed ho incominciato a studiarlo e le ricerche sono andate di pari passo con la stesura del libro stesso.
Perché il lettore italiano dovrebbe essere interessato alle vicende dell’Alto Adige-Südtirol?
F.M.: I lettori italiani che mi scrivono, che mi mandano messaggi, tutti mi dicono “Accidenti ma di questa storia non ne sapevamo niente, però è una terra che conosciamo, che amiamo, dove si va in vacanza!” . Il mio libro, però, non interessa soltanto chi ha già un qualche interesse per l’Alto Adige, ma anche chi ha interesse per la storia d’Italia in generale, per l’identità del nostro Paese. Infatti parlo anche di storia italiana, parlo di Moro, di strategia della tensione… siamo un Paese che ha tanti segreti e chiunque è interessato a questo aspetto della nostra storia, può essere interessato al mio libro. Del resto il libro è stato già venduto all’Estero, in Francia a Gallimard, in Germania, Austria ed Olanda, e questo mi fa pensare che venga considerato interessante anche da parte di chi non ha un’attenzione specifica per le vicende Altoatesine. E comunque il mio non è un trattato storico ma soprattutto un romanzo sull’amore e sui sentimenti …
A quali fonti ha attinto per ricostruire le vicende storiche del Sudtirolo, tradizione orale o fonti scritte?
F.M.: Tutte e due le cose. Per la costruzione dei personaggi ho intervistato tante persone e alcune di queste sono presenti anche nei ringraziamenti alla fine del libro. Carabinieri in pensione, persone che vivevano in quell’epoca, gente che lavorava nelle cucine di quegli anni e che mi è stata utile per descrivere il lavoro di Gerda che è una cuoca. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto storico, i fatti, le date, i nomi, ovviamente ho consultato molte fonti storiografiche. Molto è stato scritto in lingua tedesca, molto meno in italiano. Mi piace però citare due libri in italiano, non di storici ma di giornalisti, che hanno costituito per me un importante punto di riferimento: “Il calicanto di Magnago” di Riccardo Dello Sbarba e “Spaesati” di Lucio Giudiceandrea.
Lei ha viaggiato molto ed ha vissuto per lunghi periodi in Asia , Nuova Zelanda, Stati Uniti, si è quindi confrontata con culture e soprattutto con lingue diverse. Anche in questo romanzo la questione della lingua è centrale. Alla lingua è legata l’identità di un popolo come del singolo. La sua storia raccontata in italiano, spesso ricorre anche a parole di origine tedesca utili a dare maggiore verità alla storia stessa. Lo scrittore Erri De Luca, ad esempio, in più occasioni ha specificato come la sua lingua madre sia il napoletano, mentre l’italiano sia la lingua padre. Traendo spunto da questo, qual è la lingua madre e quale la lingua padre di questo romanzo?
F.M.: In realtà i miei protagonisti hanno sicuramente una lingua madre che è il dialetto tirolese e come lingua padre il tedesco. L’italiano, invece, arriva addirittura come terza lingua. Un termine centrale nella narrazione è, ad esempio, Heimat, parola che racchiude un concetto importantissimo nella cultura tedesca che non ha un corrispettivo in italiano. L’origine etimologica di Heimat è la stessa della parola inglese home, casa quindi come luogo degli affetti, dell’appartenenza. Patria, ma con implicito un senso forte di casa. Noi non abbiamo una parola come questa in italiano. Noi usiamo patria, che è tutta un’altra cosa. Per trovare un equivalente possiamo forse pensare a quegli studenti fuori sede che, quando tornano per le vacanze di Natale al proprio paese, dicono “vado a casa”.
Passando al tema sentimentale, intimistico del romanzo, passato e presente si contrappuntano, si passano il testimone di capitolo in capitolo. E nel presente conosciamo una donna adulta Eva, chi è la protagonista di questa storia?
F.M.: Devo confessare che mi sono divertita molto a pensare il titolo di questo romanzo. È un po’ come con Dumas che titola il suo libro I tre moschettieri, ma poi scopriamo che il vero protagonista è il quarto moschettiere, ovvero d’Artagnan, colui che è più di tutti, più degli altri. Io ho fatto la stessa cosa con il mio libro, l’ho intitolato Eva dorme ma la vera protagonista è la madre di Eva, cioè Gerda. Tutti i personaggi, anche quelli minori, ho cercato di disegnarli con cura e per tutti loro a un certo punto entro nella loro testa e racconto come vedono loro le cose del mondo. Questo innanzitutto lo faccio con Eva dove addirittura uso la prima persona , quindi proprio il suo pensiero, il suo flusso di coscienza. L’unico personaggio con cui non faccio mai questa cosa, tranne in un unico momento molto importante verso la fine, è Gerda, perché lei è un personaggio con una dimensione più grande degli altri, quasi un po’ mitica, archetipica. Lei viene raccontata attraverso lo sguardo degli altri che si posa su di lei. Non entro mai nella sua testa, la guardo sempre da fuori, come una icona quasi. Gerda non è bella, è bellissima, non è forte, è fortissima, è un po’ di più degli altri proprio come d’Artagnan.
Madre e figlia, Gerda ed Eva sono strettamente legate tra loro, il libro inizia con Eva che dorme e termina con Gerda che dorme. Cosa rappresenta il sonno in questo romanzo?
F.M.: Il concetto del dormire appare già nel titolo, che è nato contemporaneamente alla storia. Avevo molto chiaro che questa donna avrebbe compiuto un viaggio nel passato ma anche un viaggio concreto per andare a ritrovare un padre mancato e chiedergli come mai era scomparso dalla sua vita. Avevo chiarissimo che, nel momento della riconciliazione, lei si sarebbe rilassata e che quindi avrebbe finalmente dormito alla presenza dell’affetto di quest’uomo. Quindi che Eva dormisse faceva proprio parte della storia. Poi però nello scrivere il libro questa frase “Eva dorme” mi è tornata su come un tema musicale, modulandosi in tante maniere diverse e man mano che questo succedeva io per prima ne scoprivo dei significati diversi. Per cui oltre ad un dormire positivo, c’è anche un sonno della ragione, della consapevolezza, un sonno dell’indifferenza, ma anche il sonno come fuga dalla realtà.
Un concetto che appare sin dall’inizio della storia è che “il peso che danno le madri è un peso buono per i figli”, ma è sempre così?
F.M: Non mi sento di esprimere giudizi universali in merito. Il passaggio che lei cita fa riferimento, in particolar modo ad Hermann, padre di Gerda e nonno di Eva. Hermann che è stato un bambino sicuramente amato dalla madre, benvoluto, solo che ha avuto la grande sfortuna di rimanere orfano di entrambi i genitori all’età di 11 anni. In una notte gli viene sottratta in un colpo solo l’esperienza dell’amore quando ancora ne ha bisogno e questa perdita è il segno iniziale di una vita terribile, perché poi diventerà un uomo non buono, molto chiuso, molto violento. Ma dietro quella durezza, quella cattiveria, c’è comunque un bambino solo che si fa la pipì a letto per paura e per solitudine. La sua cattiveria è a tal punto straziante che poi finisce con l’essere uno dei personaggi che più toccano i lettori. Io stessa, quando penso a lui, mi struggo per lui, per la sua infelicità. Pur essendo uno che ne ha fatte di cotte e di crude, è il personaggio per il quale soffro di più.
Lo stile con cui è narrata la storia, con questo continuo andare avanti e indietro nel tempo, ha molto il sapore di una narrazione cinematografica; quanto ha influito la sua esperienza di sceneggiatrice?
F.M: Sicuramente avere una più che ventennale esperienza come sceneggiatrice mi ha insegnato molto su come tenere le file dei profili dei personaggi, su come tessere le loro linee narrative. Ma come scrittrice pura sono nata ora, è stata la mia prima volta ed ho scoperto come si faceva facendolo. Quello su cui ho lavorato è stata soprattutto la fluidità della lingua, dell’espressione letteraria vera e propria, qualcosa che ho conquistato riga dopo riga.
Quanto c’è, se c’è, di autobiografico in questo suo primo romanzo?
F.M: Tutto e niente. Niente perché le vicende raccontate, i personaggi, le loro biografie, ciò che gli succede non hanno nulla in comune con quello che è successo a me nella mia vita. Io sono nata a Roma e non ci sono dati di realtà della mia biografia riscontrabili nella narrazione. Però è anche tutto, perché essendo l’autrice di questo romanzo e quindi essendo frutto della mia testa, nella creazione dei personaggi non posso non averci messo la mia esperienza di vita o anche solo quello che ho osservato o immaginato nella vita. Ad esempio quando racconto delle notti insonni di Gerda tenuta sveglia dalla bambina perché deve allattarla, nonostante l’indomani mattina ci sia da andare a lavorare, ecco io credo che non avrei potuto scrivere così come ho scritto quella parte lì se non fossi anche io una madre che ha due figli e quindi come tutte le mamme sono stata sveglia intere notti sapendo che poi la mattina dopo sarei dovuta andare a lavorare. La fatica nel curare un bambino che però è anche l’essere al mondo che tu più ami, è una delle esperienze più paradossali che si fanno, almeno per me. Avere qualcuno che non lascia spazio ai tuoi bisogni fisiologici, in questo caso il tuo sonno, ma a cui non sai dire di no per l’amore che gli porti è un conflitto straordinario.
Guardando al futuro, c’è già in cantiere un altro libro?
F.M.: Sì, questa volta non sarà ambientato in montagna, ma su un’isola nel mediterraneo. Un’isola degli anni Settanta dove c’è un regime carcerario speciale. E quindi anche in questa nuova storia ci sarà il contrasto tra una natura meravigliosa e una realtà che ha a che fare con difficoltà storiche e politiche del nostro Paese. Ma anche qui si racconterà di un amore, seppure del tutto improbabile come luogo, occasione e protagonisti …
(Carmela Barbieri)
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