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"Film Middle East Now": il Medio Oriente contemporaneo a Firenze

Durante i 5 giorni di proiezioni del “Film Middle East Now”, durante i quali si sono avvicendate le opere di registi provenienti da Iran, Iraq, Israele, Palestina, Kurdistan, Afghanistan, Libano, Giordania e Arabia Saudita, Firenze ha avuto occasione di gettare uno sguardo sul Medio Oriente contemporaneo oltre che di trasformare queste visioni in un dialogo. Al cinema si sono infatti intrecciati documentari, animazioni, cartoons e due mostre fotografiche: “Listen” della fotografa e artista iraniana Newsha Tavakolian e “In the light of darkness”, un reportage che Kate Brooks ha realizzato negli ultimi 10 anni attraversando quasi tutti i paesi mediorientali  - partendo proprio da quell’Afghanistan in cui Phil Grabsky ha girato il suo “The Boy Mir”.

All’interno del cinema tuttavia tutto è stato ricondotto, nello svolgersi dei vari focus proposti durante la rassegna fiorentina e nei due luoghi prescelti per gli eventi: il Cinema Odeon e il Cinema Stensen. Le due sale, spazi non solo di proiezione ma anche di discussione e approfondimento, hanno ad esempio ospitato l’anteprima assoluta di “#Syria” - il film che racconta la rivoluzione siriana attraverso i social network – e la rivoluzione yemenita in divenire raccontata da Sean McAllister nel suo “The Reluctant Revolutionary”, ma anche un Iran Talk sulla ricezione del cinema iraniano a livello nazionale ed estero prima-dopo l’Oscar a Asghar Farhadi. Un Iran che si è anche mostrato al festival in una veste inconsueta, attraverso lo sguardo di Mehrhad Oskousei: infiltrato attento dentro al proprio stesso paese e pronto a ribaltare i luoghi comuni di una sua percezione semplicistica (ridotta spesso solo a “Islam, Burka e nucleare”).

Seppur si siano posti su un tono completamente diverso sia i 5 capitoli satirici di “Wikisham” che il cortometraggio “Blue Line” di Alain Suma - girato nel contingente ONU al confine fra Israele e Libano - e lo splendido ritratto per immagini di “Haneen” di Ossama Bawardi, il tratto comune documentaristico ha rappresentato il fil rouge tra tutti i paesi rappresentati all'interno della rassegna, riuscendo perfino ad unire parti e controparti apparentemente inconciliabili. Questo il caso di “5 Broken Cameras”, diretto a quattro mani da un palestinese (Emad Burnat) e da un israeliano (Guy Davidi) e ambientato sul confine mobile di Bil’in e all’interno di ferite che sembrano trovare la loro unica possibilità di guarigione nella pratica testarda della ripresa di un dolore continuo.

 

(Ines Baraldi) 

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