“Tekken”: la potenza (del videogame) è nulla senza controllo
Il produttore entra in aula, si siede e comincia a sfogliare il piano di produzione. “Street Fighter”? Presente! (più e più volte). “Mortal Kombat?” Presente! (un onesto esordio e successive porcate). “Tekken”? Assente. Come assente!? Rimediamo. Mamma Namco (sviluppatrice dell’omonimo picchiaduro 3D che ha spopolato nelle sale giochi e le console di mezzo mondo) mette la licenza, un paio di società la grana (pochina: 35 mln di dollari oggi li hanno anche le produzioni) e siamo pronti.
PLAYER SELECT
Un onesto (?) mestierante alla regia – Dwight Little ha diretto puntate di celebri serie Tv e qualche filmetto a cavallo tra i Novanta e i Duemila – un cast di volti più o meno simili a quelli del gioco, una fanta-trama che comprime il background nei primi cinque minuti e inventa una colonna dorsale per mantenere in piedi la pellicola per i successivi 90’ (ve lo immaginate un film fatto di tanti incontri, round e calci rotanti in serie? Anzi… no: magari sarebbe LA svolta) e qualche fotogramma tratto dai footage della Playstation.
READY?
Fight! Se l’intro lascia ben sperare e sei disposto a credere anche al solito scenario post-bellico con le Corporations a dividersi il mondo, con la Tekken che controlla gli USA dove campeggiano manifesti del leader carismatico (Heihachi Mishima, il cattivone) con scritto “L’ordine attraverso la forza”, presto capisci che non si ha né tempo né voglia di stare a spiegare perché e percome: il budget quello è, il minutaggio pure e in 3-4 scene vengono liquidati alcuni mostri sacri della serie, altri inspiegabilmente ‘tagliati’ e le carte scoperte sul tavolo: la Tekken (in giapponese “pugno di ferro”) ha organizzato un torneo e i rappresentanti delle corporazioni, più un Eletto dal Popolo, lotteranno per la corona.
ROUND 1
Difficile salvare qualcosa in questo scenario e lo stesso “Mortal Kombat” a confronto pare un capolavoro, dato che non rinunciava a ‘raccontare’ e – pur in maniera forzosa – faceva star dentro come in un autobus all’ora di punta tutti i beniamini degli smanettoni del joypad. Qui gli unici ‘characters’ riusciti sono Jin Kazama, il protagonista, l’erede (inconsapevole) di Heihachi e suo figlio Kazuya – quello che nel gioco era il buono che man mano smarriva la strada – fino alla classica agnizione del “Jin, io sono tuo padre!” “Noooooooo!” “Ok, ma non gridare così: tanto lo sapevi che c’era ‘stà battuta..”: John Foo è credibile nel ruolo così come Heihachi che, peccato, non combatte mai e si limita a salmodiare frasi vaneggianti.
ROUND 2
Il resto è un pianto greco. Personaggi appena abbozzati, buchi nella sceneggiatura che giustifichi solo perché capisci che si tende verso quel finale. Le stesse scene d’azione non sono granché e manca il sapore del videogame, delle mosse speciali tanto che, cambiando titolo e abiti ai protagonisti, poteva essere tranquillamente un film che avresti preso per quel che era: un action bello ignorante con tanta violenza. Niente di tutto ciò. Il resto è macchietta, mero atto di presenza, strampalati finali e ritmi adatti alla pay-per-view televisiva che scontenterà tutti. E minaccia, nel finale, pure altri sequel.
YOU LOSE!
Poi ci pensi: come ce la si può prendere con film del genere che hanno la loro ragione d’essere nell’esistere, semplicemente, e colmare un vuoto che qualcun altro, prima o poi, avrebbe colmato. Trasporre questi prodotti è difficile per chiunque e qualunque sceneggiatore avrebbe difficoltà a impostare un serio continuum che si allontani dalla Modalità Torneo da videogame. “Survival is no game” (“Sopravvivere non è un gioco”) dice il malvagio Kazuya. Oh, una volta tanto ha ragione.
INSERT COIN! (rivolto ai futuri produttori).
(Raffaele G. Flore)
Libro della settimana
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