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“The Conspirator”: la storia (americana) siamo noi

‘The American Film Company’ è l’altisonante nome della casa di produzione fondata da Joe Ricketts, il cui intento è realizzare pellicole avvincenti e accurate sull’epopea a stelle&strisce ma senza scadere in mausolei che venerano il passato come reliquia. “The Conspirator" – basato su una sceneggiatura la cui stesura risale al ’93 – è il primo parto della TAFC e la scelta di affidare la regia a ‘Mr. Sundance’ Robert Redford (il cui ruolo di outsider è riconosciuto dall’establishment, tra cinema indie e impegno sociale) tutt’altro che casuale.

Il film, che oltreoceano ha raccolto solo 10 milioni di dollari, è la ricostruzione del processo che seguì l’assassinio di Abraham Lincoln il 15 aprile 1865 e della condanna dei cospiratori, tra cui la donna, Mary Surratt, proprietaria della pensione dove fu pianificato l’attentato. “The Conspirator” parte da un fatto storico e, deludendo le attese di chi si aspetta un affresco dell’America dilaniata dalla Guerra di Secessione in chiave thriller, devia sui binari prevedibili ma perigliosi dei court-room movies, con le figure dell’avvocato Aiken (James McAvoy) e Mary Surratt (Robin Wright) a giganteggiare.

L’intento di Redford non è stabilire la colpevolezza o l’innocenza di Mary: complice del complotto sudista o succube del figlio John e sacrificata sull’Altare della Patria per dare in pasto al popolo un colpevole e porre una lapide su cinque anni di guerra? “The Conspirator” è più interessato a restituire lo spirito di un’epoca, a percorrere la sottile linea rossa sulla quale si sta in equilibrio tra ansia giustizialista e ragion di stato e a fabbricare, più che risposte, nuove domande sulla storiografia ufficiale. 

Eppure, il film funziona altrove: l’atmosfera e lo shock di una nazione restano circoscritte a immaginette votive di Lincoln vendute sulle bancarelle e alla malafede di una giuria che avanza come un bulldozer verso un verdetto scritto ai piani alti. Ma il meccanismo scandito dalla sceneggiatura di James Solomon, che si barcamena in un genere saccheggiato e di cui conosciamo l’esito, tiene la tensione alta fino alla fine, al di là di colpi e contro-colpi di scena; parte del merito va alla Wright e a un McAvoy che col passare dei minuti acquista credibilità e auto-coscienza come il suo personaggio. Menzione d’onore per la fotografia, carica di ombre e colori desaturati che danno un’impostazione anti-eroica – eccezion fatta per la scena del patibolo – e lontana dalla retorica.

Se si tralasciano luoghi comuni sul Redford politicizzato e totale mancanza di innovazioni linguistiche, “The Conspirator” è un prodotto gradevole. Anzi: nella sua classicità ha il merito di svestirsi degli odiosi panni del nazionalismo macho, offrendo una morale forse scontata, ma mai fastidiosa. Vivaddio. 

 

(Raffaele G. Flore)

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