"Gianni e le donne" di Gianni Di Gregorio
Quanta pazienza ci vuole con le donne può spiegarlo il protagonista-personaggio e regista del film “Gianni e le donne”. Dopo il “Pranzo di ferragosto”, debutto registico del 2008, Di Gregorio si cimenta in questa seconda tappa a metà strada tra rappresentazione e soggettività. La vita modesta del sessantenne stralunato Gianni, si svolge tra i servigi resi alla moglie, impegnata nel lavoro, una figlia che adora e il fidanzato della figlia, presenza a volte ingombrante ma ormai familiare nella casa romana a Trastevere. Poi c’è la mamma, novantenne nobildonna decaduta che vive nella sua vecchia villa, spendendo denari che non ha più, tra badanti, pranzi pantagruelici e fiumi di champagne. E’ questo l’universo di Gianni, uomo dalla natura mite e portatore sano di un'immensa capacità di sopportazione. La sua vita da pensionato scorre nella routine di commissioni, faccende domestiche, passeggiate a piedi con il cane o nella vetusta Alfa164 per correre alle chiamate della mamma. Sana routine, fino a quando il suo amico avvocato Alfonso gli fa aprire gli occhi sulla possibilità di una seconda giovinezza tra gemelle intriganti e giovani badanti. Ma la disillusione non tarda ad arrivare.
Il tocco semplice e malinconico, ma non superficiale, è l’impronta di una pellicola che basta a se stessa così come il personaggio che, garbato e senza grandi aspettative, non cerca riscatto. Tra la soggettiva che lo segue nel suo vagare per le strade di Roma, il merito del regista sta nella capacità di rendere immediato e intellegibile non solo il suo mondo interiore ma anche il contesto che vi ruota attorno. I silenzi, i dialoghi sospesi e a volte ripetitivi con le sue donne sono da un parte espressione di una malinconica solitudine e dall’altra l’atteggiamento di difesa di un uomo che forse non ha più voglia di combattere e ha scelto l’arma dell’imperturbabilità e della pazienza per sopravvivere serenamente. A differenza di tendenze che propugnano una seconda giovinezza, qui resta l’amaro disinganno e tutto sommato la modesta constatazione che l’autoironia e la serenità possono andare a braccetto. La disillusione di un uomo ormai conscio di una bellezza appassita ma saggiamente incastrato nel suo universo, svela l’illusione di una realtà omologata che non tarda a mostrare la sua vacuità e apparenza.
Non c’è giudizio morale, né critica, c’è solo la dimensione personale, umile e ironica di una esistenza che ha scelto di bastare a se stessa.
(Luana Poli)
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